gao xingjian – “per un altra estetica”


gao xingjian – “per un altra estetica”

(….la domenica mattina se ne va nella dolce operazione di scorrere con la vista le parole della prefazione di quest’opera editoriale e deporle sullo schermo sfiorando la tastiera. L’immagine inconscia della frase del titolo ‘per un’altra estetica’ la flette in corsivo, come spighe accarezzate dal vento. Gridarla come sotto al vento forte – penso e mi chiedo – per esempio:  per un altra esteticaaa !!! Forse, più in là, alla fine della mattina quando avrò copiato tutto quello che mi sono messo in testa vada condiviso…)

Gao Xingjiang – ” Per un altra estetica “

dalla prefazione : La fine della rivoluzione dell’arte :

“La libertà nell’arte non è mai un fine in sé : sarebbe più corretto dire che essa nasce dal bisogno esistenziale di sentimenti e di conoscenza. Nemmeno il giudizio estetico ha uno scopo. Per mezzo suo l’uomo può sentire la propria esistenza e trarne soddisfazione: è così per l’artista e per l’amatore d’arte. Nel giudizio estetico non esiste futuro, solo l’istante è riconosciuto: il futuro impone di piegarsi a una concezione della storia priva di rapporto con il giudizio estetico.

Nemmeno la libertà di creazione artistica è un fine in sé. I limiti della forma da cui dipende per esprimersi sono stati superati di continuo, l’arte è stata incessantemente ridefinita, mettendo in disparte l’estetica, per proclamare senza tregua la nascita di un’arte nuova. Ci si è sempre illusi sul futuro, per diventare così i primi della storia, e i primi hanno sempre desiderato diventare demiurghi. Le avanguardie, le eterne avanguardie, sono state fin troppe nel secolo passato, troppi artisti nietzschiani hanno continuamente alimentato la cecità delle masse nei confronti dell’arte, e il giudizio estetico ha finito per lasciare il posto alla rivoluzione artistica.

Il superuomo proclamato da Nietzsche ha segnato profondamente l’arte del XX secolo. Non appena un artista si considera un superuomo, inizia a sprofondare nella follia, il suo io ipertrofico si trasforma in violenza cieca, fuori di ogni controllo. Sono apparsi così i rivoluzionari dell’arte.

Ma gli artisti, in realtà, sono fragili come gli uomini comuni, incapaci di assumersi il peso di una missione grandiosa come la salute dell’umanità e, ancor più, la salute del mondo. L’immagine del superuomo dal narcisismo senza limiti è, per il fragile artista, un’illusione. Negare tutti i valori tradizionali finisce per portare alla negazione di se stessi. E’ trascorso un secolo, e ripetere ancora questa concezione della storia dell’arte non è per nulla un ritorno all’eterno ritorno di Nietzsche, quanto piuttosto un’ironia contro quegli artisti che si credono demiurghi.

Fare dell’ultima voce del romanticismo una profezia moderna è un gran malinteso. Se l’artista non prende chiaramente coscienza del suo posto nella realtà e si inebria di stati d’animo tragici, la follia nietschiana, nella nostra epoca risolutamente materialista, apparirà assai artificiale, orgogliosa e illusoria, assai lontana dall’angoscia e dall’autoderisione di Kafka.

L’artista non ha mai salvato il mondo, tutt’al più ha realizzato se stesso: egli traduce, nella sua creazione, solo le proprie sensazioni, la propria immaginazione, i sogni risvegliati, il narcisismo, il masochismo, i propri desideri inappagati e le proprie preoccupazioni. Inoltre, più che affermare che l’arte è la religione dell’artista, sarebbe meglio dire che essa è per lui un modo di vita che egli pratica anima e corpo. Ed è in effetti più onesto non cercare di comportarsi come il fondatore di una religione.

Quando l’artista si lancia nella creazione non intravede nessuna meta: prima di tutto esiste il suo bisogno di esprimersi in quanto individuo. Questo bisogno, quasi biologico,si trasforma in una forza motrice continua e potente. L’artista non tiene conto di alcun giudizio di valore. Giudizi che non fa nulla per rovesciare. In quell’istante la storia dell’arte e l’estetica sono al di fuori del suo campo visivo, e ancor di più l’ideologia della sua epoca, che si impone silenziosamente sull’estetica e la storia dell’arte. Può succedere allora che egli sprofondi nel delirio, si infiammi, sia sedotto e smarrito, giacché la sua intelligenza e il suo istinto sono un tutt’uno. Ma quando l’opera è terminata ed egli la esamina freddamente, può subentrare la delusione, la soddisfazione o il dubbio: l’artista può perdere fiducia in se stesso, ritenersi relativamente appagato o essere indeciso e interrogarsi: cos’altro fare? Ma questo è assolutamente normale.

Se l’artista prende coscienza di essere fragile come l’uomo comune, potrà vivere in maniera più sana, senza cercare di assumere quei ruoli, privi di rapporto con la sua arte, pieni di vanità, che egli, di fatto, non è in grado di sostenere: demiurgo oppure lieder di questa o quella rivoluzione. In quanto artista, il suo lavoro è inseparabile dall’opera che egli sta realizzando, ed è inutile calpestare i morti e ribaltare gli antichi, giacché l’arte non è mai un’arena politica.

L’ira genera i poeti, forse, ma essa non potrà generare gli artisti. La passione dell’ira può essere espressa dalle parole, mentre gli artisti, che fanno ricorso alle forme, se travolti dal furore, perderanno facilmente la misura. Guernica di Picasso è incontestabilmente un capolavoro della pittura politicamente impegnata di questo secolo, ma allo stesso tempo, dinnanzi alla distruzione della bellezza, l’artista fa appello ad un’immensa compassione che commuove quanto la scultura greca. Quando l’artista denuncia la violenza egli non oppone violenza secondo il principio occhio per occhio – dente per dente ma sublima la propria in arte e, per far questo, deve superare l’impulso emozionale. L’arte non è uno strumento di protesta, considerarla come mezzo di propaganda corrisponderebbe ad una necessità, mentre l’essenza dell’arte risiede nell’estetica.

L’artista non è neanche il portavoce della sua epoca: lasciamo questo compito agli attivisti politici – del resto, nessuno può essere il portavoce di un’epoca. Anzi, tu ne saresti incapace: al massimo, potresti esprimere ciò che hai da dire, ma l’epoca non ti ascolterebbe. L’artista non deve indossare le vesti del profeta (….) Se l’artista ha lasciato delle opere, non avrà rimpianti, ma in quanto uomo, egli è fragile e vive solo nell’istante.

E se dalla sua creazione egli non riesce a ottenere un qualche appagamento, rischia di non poter continuare: creare per l’avvenire è spesso una vana illusione narcisistica.

L’artista è, insomma, un creatore e non solo un provocatore nei confronti della società. Esistono del resto degli artisti che non provocano e, in ogni caso, il fatto che essi siano o no dei provocatori non ha nulla a che vedere con il giudizio di valore delle loro opere.

L’artista è innanzitutto un esteta, la genesi del suo pensiero è indissociabile dalle sue attività di giudizio e di creazione estetica. E questo fa si che egli sia anche creatore.

La sua critica alla società e la sfida che egli le lancia, più che un atto ideologico, sono un giudizio estetico. Se egli sostituisce ad esso un atto di giudizio di valore – sociale, politico o etico – ebbene, come artista quest’uomo è morto.

La natura creatrice dell’artista non sopporta alcun dominio, né quello della volontà collettiva, né quello della verità riconoscibile da tutti. Le pressioni e gli ostacoli di ogni genere, che derivino dal potere o dai concetti, rischiano di uccidere la sua creatività: solo l’estetica personale dell’artista costituisce la sua filosofia di vita e la sua etica.

In quanto creatore, l’artista ha bisogno di una libertà totale, ma se non si preoccupa del grado di libertà che la società può accordargli, egli deve essere, sul piano spirituale, il proprio dio e costruire la propria fede in se stesso, altrimenti gli sarà difficile proseguire la sua opera. In quanto essere umano, se non impazzisce al punto di perdere coscienza di sé, egli dovrà capire che non gode di alcun privilegio o di alcun potere speciale: la sua libertà si estende solo all’interno della sua creazione personale, ed egli può essere riconosciuto unicamente attraverso le sue opere. Tuttavia la società ha sempre rappresentato un limite per la libertà individuale dell’artista, che è stato costantemente in rivolta contro di essa: è inevitabile.

Ma non appena la rivolta dell’artista si integra in un azione collettiva, sotto questo o quel potere, e non appena egli cerca di beneficiare di un certo riconoscimento sociale, l’artista non può evitare di compromettersi e addirittura di sottomettersi. La rivolta dell’artista può essere totale solo quando questi mantiene la propria indipendenza ed essa avrà senso solo se legata alla sua creazione. Se la rivolta dell’artista nei confronti della società perde il suo carattere particolare di creazione, se la sua sfida sostituisce, nelle opere, il giudizio estetico, rimarranno solo atteggiamenti e richiami alla rivolta, e l’arte sarà scomparsa.

Il creatore diventa allora un sovvertitore la cui arma sarà la sua arte, ma nessuno è mai riuscito a demolire la società in questo modo: in compenso la sovversione dell’arte fa sparire l’artista stesso come creatore. L’artista che vuole preservarsi da questa malattia del suo tempo e mantenere la propria indipendenza sul piano artistico deve tornare all’individuo, alle sensazioni, ai sentimenti estetici personali: se non è questo, necessariamente per salvare se stesso, gli consentirà almeno di rimanere in piedi.

La sfida dell’artista è, in un’ultima anlisi, una sfida individuale.

E anche se tale sfida alla società,alla politica, al potere, alle correnti e all’ideologia del suo tempo è destinata al fallimento, si tratta comunque di una affermazione della propria arte, un atto di autoriconoscimento.”

(Gao Xingjian: è nato nel 1940 a Ganzhou, nella Cina sud-orientale. Dal 1987 si è rifugiato in Francia, dove ha ottenuto la cittadinanza e dove risiede tuttora. Nel 2000 ha ricevuto il premio Nobel per la letteratura.)