Posts made in dicembre, 2017


Place Vendome

Le idee tendono a perpetuarsi attraverso di noi. Servendosi di noi,. A noi spetta di lasciar fare. Di lasciarci attraversare dalle idee. È questo un punto di vista. Non è proprio scienza o non proprio solamente scienza. Ma se possiamo morire per la libertà e l’amore vuol proprio dire che siamo capaci di morire per un’idea. Poi vuol dire che la vita mentale è in grado di realizzare costellazioni funzionali inderogabili.

Per via di queste congiunzioni astrali la cui influenza ha una forza inaudita andammo insieme fuori dalle case a trovare altri che come noi erano usciti in strada sotto la spinta di stati d’animo non ancora ben definiti ma presumibilmente simili al nostro stato d’animo.

Le idee hanno una genesi emotiva. Nascono discostandosi dal percorso di pensieri ordinari. Sono nuvole di profumo nel cielo sopra tazze di caffè. Spingono e ci fanno muovere ogni volta perché siamo di nuovo certi di trovare qualcuno ‘dopo’ noi.

Abbiamo idea che il movimento nello spazio cambierà il disegno della città intorno a noi perché è essenziale che ci illudiamo che la città sia lei a cambiare come fosse animata e che sia lei a possedere le qualità della bellezza e il calore delle idee di socialità e di convivenza che noi ci abbiamo messo quando l’abbiamo edificata.

Mattone su mattone noi pensiamo la vita come una città, ci facciamo idee sul nostro destino. Contro la fatalità costruiamo case e ponti e macchine che mostrano la meccanica appassionata della nostra vita psichica. Parola su parola costruiamo amicizie per sempre e amori eterni per allontanare il terrore delle cose fuggevoli, per nascondere in quegli amori e in quelle amicizie il cuore della promessa di non rimanere mai più soli.

Con cura estrema mettiamo in loro il nostro stesso cuore. Con cura estrema mettiamo in loro l’idea che che possano capire tutto questo. Non abbiamo idea quanto sia difficile, per loro, aver cura di noi così tanto appassionati ma tutto questa umanità è inevitabile e che sia possibile quel certo modo di stare vicini nel tempo è idea che continuamente ci accade di pensare.

Speriamo con una pazza sicurezza che, dopo anni, se saremo stati capaci di costruire bene le idee con le quali abbiamo tirato su case e figli, quelle nostre aspettative torneranno nelle piccole case che avremo costruito. Speriamo nei sorrisi fuggevoli di ragazzi non più giovanissimi che scorgeremo avvicinarsi traversando giardini piccoli come un fazzoletto una mattina all’improvviso.

Abbiamo idea di cose fiorite che non si poteva sapere il giorno che sarebbero fiorite come non sapevamo l’ora esatta di quale giorno la pioggia sarebbe tornata a cadere sui sassi troppo asciutti.

Abbiamo idea di poter comprendere la fisica quantistica nel “collasso” dell’infelicità a vantaggio di un attimo di benessere quando, aprendo gli occhi, succede che le cose tornano a farsi presenti come ragazzi non più giovanissimi che si aggirano su fazzoletti di prato.

Abbiamo idea che può piovere inaspettatamente e che solo nella simultaneità di quel momento ci si accorge che stavamo morendo di sete e di mancanza d’affetto e che un giorno in più senza pioggia e senza i passi nel giardino di chi non era più presente sarebbe stata la fine.

E il motivo per cui secoli fa eravamo usciti fuori dalla grotta ci viene restituito dai colori delle facciate e dalle gocce che vengono giù dai tetti.

Abbiamo idea che ci sia un posto libero domani. Dove tornare.

È camminando distratti per le strade che comprendiamo come ci sia sempre stata in noi l’idea di essere umani.

Quell’idea è la forma della biologia del pensiero umano. Ci supera, non possiamo deciderla, non sappiamo fermarla e non sarà mai troppo presto farsene portatori docili.

C’è in noi qualcosa di meglio di quello che generalmente ‘siamo’ fosse solo il pensiero disteso come un lenzuolo alla finestra la mattina che dura le prime ore del giorno ad aspettare una cosa buona l’attesa ingiustificata di conferme inattese di noi ancora vivi.

Il ragazzo dal volto bellissimo e dall’animo disperato eccolo, saranno due giorni, a dire “….dottore dobbiamo parlare urgentemente perché…. è successa una cosa bellissima…. una donna non stupida come io ero certo non esistessero…”

E per la prima volta qualcuno è arrivato a confermare una intuizione di quaranta anni fa: che la fine della cura della malattia (che era stata per alleviare il dolore) è l’attimo di tempo libero e lo spazio infinitesimo di vuoto in cui si rivolge il nastro degli eventi quando smette di piovere. Una variazione di forma delle cose che diventa trasformazione della loro natura.

Dopo che si è finito di crescere, nella assunzione della forma definitiva della nostra realtà biologica, comincia il coro sinfonico delle trasformazioni che stabiliscono sempre meglio, da allora e fino alla fine dei nostri giorni, quello che possiamo chiamare identità del soggetto.

Identità che non ha consolazione e ci distingue sempre dimpiu da tutti gli altri.

E per questo ho bisogno di lei: perché mi perdoni questa progressiva divergenza. La differenza che come uno spazio che si dilata ci allontana mentre viviamo. Ho bisogno di una persona che, come me, abbia l’idea che tuttavia si possa essere capaci, per intima convinzione condivisa, a circoscrivere la distanza determinata negli anni, dallo sviluppo dell’identità.

Diversamente dall’amore convenzionale che cerca la fedeltà reciproca noi staremo insieme a perdonarci la colpa del non voler mai assomigliarci. Sarà uno spettacolo scoprire le cose che ciascuno di noi potrà essere mentre ogni mattina ci si scioglierà dagli abbracci via via che andremo avanti insieme.

Ogni mattina andremo. Usciremo di casa senza scuse sospinti dalla nuvola di profumo nel cielo sopra bianche tazze di caffè.

L’idea è una costellazione della funzione mentale che presiede l’andamento delle giornate e governa il percorso delle passeggiate e le idee variabili che noi ci facciamo sulla vita. Perché non c’è un luogo fuori di noi dove si serba il grano del significato.

È la donna che via via potrà trovarsi a dormirmi accanto che, nella trascuratezza nuda del sonno lascerà, senza neanche saperlo, che io metta in lei tutto quanto potrei scordare di desiderare.

Ogni mattina mi restituirà tutto in un sorriso. E mi lascerà dormire quando sfiorandomi con le labbra la nuca si allontanerà senza curarsi della solitudine cui mi consegna.

Oggi questa era l’idea: che senza questi piccoli eventi l’idea stessa di umanità vacilla, che sono certo di non aver trovato ancora nessuna teoria sull’uomo e nessuna religione che supplisca all’incombente povertà cui questo ‘indispensabile’ mi consegna. Che si fa ricerca facendo l’amore….

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“per gentile concessione”

da quando le cose si sono indirizzate diversamente ho cambiato le suonerie del mio telefono perché gli annunci sono importanti e ho messo loro ali agili e rabbuffi di una nevicata di piume in aria

non suonano acuti questi proiettili nuovi e scendono …sai la manna biblica …così tutti i giorni sui capelli e le spalle sui nostri scialli di lana al richiamo distratto o pieno di forza che annunciano

ci sono d’altronde cose di una bellezza insostenibile sono cose piccole e valgono solo per chi le può notare

è, quella capacità di notare le trascurate meraviglie, una cosa come una dittatura della sensibilità che divide l’umanità in due popolazioni di razze differenti e non si può farci niente e non si può negare

non saprei far altro per ricordare il cambiamento e dispormi al meglio che impormi questi modesti incisi musicali

tu stamani come un carillon natalizio che ruota in mente mi avverti che la banconota perduta ha dormito sotto la sciarpa sul divano e ora è con te salvata da una mia distrazione

solo ora che la piccola somma è in mano tua possiamo dire che non era distrazione ma un regalo un segreto tramandato perché fossi certa che evidentemente la notte non è stata un sogno

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indomito, perplesso


Posted By on Dic 6, 2017

il peso delle nuvole

Piaccia o meno la figura è oggetto e soggetto di una doppia aggressione con lame e punte. Ci sono ragioni per aggredire. Non si sa mai bene perché ci trovammo aggrediti. Il linguaggio è oggetto e soggetto ed è insieme la lama e la punta che lo tagliano e lo pungolano ad una maggior precisione di intenti.

Ma la corrispondenza è una lama e uno stilo che aggredisce il linguaggio e lo tortura perché essa non si può raggiungere che dilungandosi a parlare ulteriormente in un viaggio senza consolazione di una meta.

L’indecidibilità computazionale del pensiero umano lascia a fondamento della vita mentale l’ignoranza sui meccanismi di inizio e fine delle sue procedure.

Sono certo che sia questa intuizione -che noi abbiamo a proposito di noi stessi- a far si che abbiamo definito capolavoro, cioè inizio d’opera, il coraggio del genio di concludere la propria azione creativa durante il viaggio di una bellezza che essendo inesauribile poteva esercitarsi ancora a lungo.

L’artista con coraggio riesce a mettere fine alla bellezza della propria creazione in un certo momento che non ha chiare giustificazioni e dice basta senza una precisa ragione.

Così si consente la vita dell’opera d’arte: oggetto di un lavoro che poteva non finire mai e che ha trovato per il gesto di un taglio la bellezza senza nostalgia di una forma definita.

Ogni opera d’arte suggerisce che la ricchezza museale -che contiene in conche frondose tutti i capolavori che gli esseri umani hanno creato- non è tutto quanto si poteva creare e che, nella loro definizione, gli oggetti preziosi che andiamo continuamente a guardare sono di nuovo soggetti all’azione di lame e spade, sospesi e minacciati per sempre alla nostra rinnovata perplessità.

Con quale criterio l’artista decise che fosse quella la forma definitiva, la definitiva quantità di bellezza da infondere nell’opera? Quale regolo misura l’incompiuto? Che ragione c’era di dare un taglio ai suoni e ai colori che fluivano?

Il capolavoro sta là di fronte a noi che siamo ugualmente inconclusi, irragionevolmente liberi, traboccanti di domande, ad agitare passi e pensieri per lo più senza un oggetto preciso: a vivere per vivere.

Disegno la linea cui ho dato vita inseguendo quanto ha da rivelare tra le dita la matita leggera. Seguo i suggerimenti della grafite come metto in fila le parole secondo il loro suono.

Nella stanza di lavoro, acusticamente neutra, ascolto, senza averne una coscienza separata, i suoni delle cose pronunciate che ricadono dal vertice del tetto su me e gli altri e scelgo, in base a quel ritorno, la strada delle risposte.

Mi rendo conto di voler interpretare soltanto i gradi di rarefazione dell’aria: e ‘loro’ dovrebbero lasciarmi in pace con le loro pretese di giudizi e consigli.

Avranno capito che la sintassi è una foresta di immagini acustiche nel folto della vegetazione? e che la grammatica sono laghi d’ombra e aghi lucenti sul sentiero lungo il quale spingiamo davanti a noi la scorta di pane e fiori per la festa?

Ma la scorta di pane e fiori è precisamente quello che vorremmo dire. Vorremmo dire l’intenzione che ci spinse a parlare, ma ben presto essa si frappone tra noi e le cose che ci spingeva a dire per esprimerla.

Risulta impossibile interrompere la macina del mulino che per spremere il linguaggio torna su se stessa con ottusa alacrità.

E, seppure pretendiamo d’essere coerenti e conseguenti, ciascuno di noi finisce per concludere il proprio discorso ‘altrove’: lontano dall’intenzione iniziale.

Questa iniziale intenzione, che poi si evidenzia infondata, è insieme un pretesto e una legittimazione per l’io narrante e le sue pretese. È come se ciascuno avesse questo carico profumato e fragrante di fiori e pani che erano le intenzioni che ci avevano entusiasmato e che quasi subito dobbiamo spingere verso una festa che è sempre altrove.

E dunque è quel viaggio che indomito realizza le intenzioni originarie. È l’eco del pianto della nascita, che torna dal cielo sopra le nostre teste nel deserto, la retroazione che ci spinge a vagare ulteriormente.

Sotto la tempesta solare sulla linea delle dune il nomade è una scultura di sabbia tra miraggi d’acqua lussureggiante.

È uno strano oggetto che somiglia a figure diverse agli occhi delle sentinelle di confine. Lungo la muraglia d’aria delle frontiere ciò che agli altri sembra che noi siamo scolpisce forme di idoli ‘favolosi’ di sabbia e vento.

Sono le opinioni volatili di altri che decidono la nostra sorte con forza pari a quella delle nostre migliori intenzioni.

Mentre camminiamo ignari del libro che si sta scrivendo su di noi il pensiero conta i nostri passi.

Malgrado una conoscenza precaria e mai definitiva noi lasciamo che la coscienza sia tutt’uno con la musica dei granelli di sabbia che cedono sotto il nostro peso mentre avanziamo ….

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