accordo


Un algoritmo per congegnare storie. Una creatività artificiale. Credi che si possa distinguere un capolavoro umano da uno artificiale? Presunzioni antropoidi. Il nostro amore è un algoritmo appassionato. Comunque la verità dell’artificio è di dover programmare una relazione perché altrimenti un solo essere renderebbe tutta l’arte nuvola. Chi ha vissuto in una nuvola conosce il manicomio e il ricovero in grotte di ponti della Senna. Miserabili alla Victor Hugo. L’algoritmo imparerà a trarre luce dalle esclusioni. Sarà capace di inventarsi delusioni che non avrà mai conosciuto solo perché saranno previste nei procedimenti rigidi del calcolo. Il pianto dalla gioia. L’arte del colore dalle porpore di gusci inerti. Tu da me non appena svanisci. Io dall’ombra. L’ombra in punta di penna. Il buio di inchiostro illustra con segni neri il sole che non si può guardare e ci accieca.

Ci sono in me piccole cose e silenziosi inconfessabili disastri e le crisi di identità sfuggite alla coscienza dei miei antenati nei secoli dei secoli. Ci sono dentro di me le assenze delle madri della mia miserabile genia e le grida di morte degli uomini della mia genealogia: sono certamente in me se io pretendo di essere senza consolazione di un dio e resto nella terra della discendenza.

Ci sono anche le risa e le felicità la fame le morti tutte e tutte le nascite. L’odore dei letti e della cucina. La legna e il ferro. Le rane il pane la pioggia. I farmaci e i bisturi. Qualcuno avrà dato alla luce figli sui campi di battaglia. Mi auguro che ci siano stati guerrieri. E diolovolesse una cantante. Il resto penso sia stato così insignificante da essere non descrivibile, cioè il resto che è il più, certo saranno state come ora sono, una serie di cose di nessun peso narrativo.

Mi auguro a volte che ci sia stato un pogrom su di alcuni di noi. Perché da dove mi viene altrimenti questo sempre aver voluto tacitamente (ma certo rassegnato a non poterlo ottenere) essere un israelita e il sapere che la vecchiaia mi regalerà -(una volta avanzata di più che potrò rendermi ridicolo protetto dall’indifferenza di tutti alle incoerenze di chi non vale più perché non fa più paura)- una giubba di rabbino e la carezza del cotone di quei neri copricapi inutili e presuntuosi come l’insulsaggine di quelle intelligenze inutilmente raffinate e ineluttabilmente rissose in antagonismo con se stesse prima che con tutti gli altri.

Mi regalerò in ogni caso la ragione del mio disaccordo che dura da sempre. Mi sorriderò come avrebbe dovuto ridicolmente e umanamente essere.

La gioia di oggi è che nessuno sa quello che c’è in ciascuno. Non dove e come. Non chi e che cosa. E temono gli algoritmi che faranno romanzi bellissimi. Ma non avrebbero il disprezzo della paura per quello che è artificiale se avessero avuto l’umiltà di capire che il più elevato dei nostri pensieri è solo l’espressione di una tra miliardi di probabilità. Non è là provvidenzialità di una serie di scelte selezionate ma un evento che solo adesso che è capitato noi assumiamo a ‘raggiungimento’.

La coscienza è il meno. Le tracce che guizzano sono la culla dell’umana identità. L’algoritmo del pensiero mette insieme tutto l’esistente che è ben chiaro alla coscienza con tutto quello che posso immaginare tenga insieme la realtà delle cose coesistenti. Penso dunque che avere buoni antenati non sarebbe stato male. Credo invece che mi abbiano deposto in una mangiatoia imprevista e certamente non attesa. Vengo su da secoli di pesante lavoro.

Ho scavato verso l’alto. I raggi sono stati quasi un arrivo. Non l’origine. Ho capito il potere della metafora quando ho realizzato che non era una metafora. Leggevo preferibilmente di te subito nei libri degli adulti incautamente poggiati sui comodini. Te eri quella tra cenci scatole di latte dentifricio e fili di nailon arruffati: amai dunque i tuoi capelli riflessi sull’acqua dei grandi fiumi cittadini perché il mio romanticismo fantastico risultava alla fine pragmatico e pieno di tensioni indirizzate al tuo corpo ancora, allora, giovane come una montagna di roccia rosa.

“….sempre novità senza riposo..” dico io ed è stato questo il massimo in cui si potesse sperare: questa forza del movimento meccanico di tutto per via della natura fisica della realtà….

Il pensiero è un’eccezione. Così ho sempre tenuto questa persuasione a proposito della gerarchia delle cose tra realtà immaginazione prassi e lavoro intellettuale e così sempre mi attenevo all’indispensabile mentre pensavi che io mi perdessi in astrazioni. Mi attenevo all’indispensabile mentre tutti scambiavano quella insistenza per una mistica del mio spirito. Non mi sono mai perduto in eccessivi ripensamenti sulle altrui ragioni. Avevo momenti per me di vita psichica: sogni virili d’amore. Dicevo e dico: non si può sapere. E ti carezzavo i capelli: tu eri tutte le donne. Non è una metafora romantica: ti ho sfruttato per non sentire più alcuna mancanza.

Se mi sveglio anche oggi tu nel sacco nuovo di grano ti rivolti per un sogno scontroso, così sembrerebbe, e mugoli:

“….api sul tuo capo succhiano margherite…” dico con certezza incondizionata. Mai dubitato di me riguardo alla comprensione degli altri.

“…abiti i campi del pensiero…”

Una volta campi indicava anche zone note del sapere. A scuola per esempio: una scuola che non mi ingannò mai sulla necessità di imparare da solo per mio conto coi miei metodi cosicché più che altro giocavo a scrivere e ad inventare. Imparavo il linguaggio che mi fu evidente fosse per sua natura intrinseca solo simbolico ed essenzialmente artificiale dato che potevo cambiare tutto con niente (gli incisi, gli avverbi, i ritardi, le ridondanze, i trilli dei dittonghi, l’intesa consonante e la vocalità illusoria delle vocali…. sai tutto tu, no?).

Il linguaggio non doveva cambiare le parole aveva la furtiva creatività di variare le relazioni i tempi i suoni il ritmo lasciando intatte e inerti prima potenti e poi ottuse come alberi abbattuti le parole morte nell’intrico dei rametti. Il discorso si assomigliava al proprio interno riflettendo la sua struttura la parte per il tutto. E in questa somiglianza grammaticale la sintassi generava di tutto rendendo la scrittura ordinata inutile come la luna stessa dopo un abbraccio o una separazione che si fa con pochi suoni o anche solo con la giravolta dietro un angolo: e addio! L’inutilità della poesia denunciava che le metafore non sono metafore e la poesia rovinava la letteratura. Io ero davvero libero: il linguaggio illegale libera la potenzialità del caso.

Il linguaggio visto da quella prospettiva spaesata portava la vita come dio conduceva il destino nelle preghiere della comunione che ancora era l’ostia dopo il pane abbrustolito nel latte della colazione appena consumata: e poi però l’illegalità era il pane delle lente mattinate sui banchi: rintracciai questa filosofia dell’infrazione osservando le dita della mia mano destra accarezzare le dita della mano sinistra della mia compagna di banco secondo un algoritmo di segreta passione e spudorata insistenza.

La scuola elementare seppi vederla quasi subito grazie a lei (che era te prima che fossi tu) come una accademia da liceali precoci.

Le presunzioni legittime di alcuni, i migliori (mi spiace dirtelo) da subito hanno fatto per i migliori (mi spiace ripeterlo) la via lattea e si nuotava in questo braccio secondario del fiume che ancora si vede se si va via dal mondo delle luminarie per trovare le radiazioni e non le illuminazioni. Il latte stellare oggi ancora rimugina continuando a suggerire. Per cui, mai più stanco oramai, mi figuro l’amore e la provvidenza, la farina e la panca di legno e l’acqua nel marmo e le colazioni nell’ombra. Il mondo che prende la forma delle singole parole e poi del discorso. E il discorso eravamo noi. Per cui se ricordo sono ancora di nuovo con te. Siamo sempre stati noi. Il discorso umano deve infatti essere forzatamente plurale per essere ognuno di noi almeno qualcosa: dato che è evidente che l’altro non è che debba essere chiamato in causa per una questione di stabilire la contrappesi delle uguaglianze ma per la necessità ontologica di convalidare il discorso. 

E i migliori non vollero sbagliarsi e piangemmo fiumi di lacrime pieni di speranza per la sensazione che la riserva d’acqua sarebbe comunque bastata per sempre. Oggi che l’hanno versata quasi per intero non piango più e scrivo per tornare indietro ad estrarre i fiumi dal deserto e navigare il mare sulle montagne che erano il fondo marino di farina di conchiglie.

Dalle conchiglie il grano. Ecco cosa scriverei se qualcuno ascoltasse.

Non importa tanto ci sei tu ancora. Quella che non c’è. Che mi lascia dire. Che dice “….aspetta ancora un attimo amor mio…” ma non mi guarda mica distesa spazzolandosi quei capelli dell’altro mondo persa nel sogno dove sono radicati quei suoi fili di foresta quei legami genealogici col fianco di fango da cui si è appena alzata che già presume me migliore di quello che io potrò mai essere.

Sgusciata fuori dalla yuta che sei il mio raccolto dorato. Dispersa ricchezza la pazienza di nessuno.

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