acquisizioni


“per gentile concessione”

da quando le cose si sono indirizzate diversamente ho cambiato le suonerie del mio telefono perché gli annunci sono importanti e ho messo loro ali agili e rabbuffi di una nevicata di piume in aria

non suonano acuti questi proiettili nuovi e scendono …sai la manna biblica …così tutti i giorni sui capelli e le spalle sui nostri scialli di lana al richiamo distratto o pieno di forza che annunciano

ci sono d’altronde cose di una bellezza insostenibile sono cose piccole e valgono solo per chi le può notare

è, quella capacità di notare le trascurate meraviglie, una cosa come una dittatura della sensibilità che divide l’umanità in due popolazioni di razze differenti e non si può farci niente e non si può negare

non saprei far altro per ricordare il cambiamento e dispormi al meglio che impormi questi modesti incisi musicali

tu stamani come un carillon natalizio che ruota in mente mi avverti che la banconota perduta ha dormito sotto la sciarpa sul divano e ora è con te salvata da una mia distrazione

solo ora che la piccola somma è in mano tua possiamo dire che non era distrazione ma un regalo un segreto tramandato perché fossi certa che evidentemente la notte non è stata un sogno

Read More

Ciò che sono è un nome. Mi invento l’etimologia. Nome. Numen. Divinità. Persona. Sacralità della persona. Non nominare certi nomi invano. Cosa è invano, a questo proposito, cerco.

“Non vanificare il nome. Non polverizziamo con dichiarazioni fasulle, tipo >amoreamoreamore< la frontiera del senso. Aspetta… aspetta!” 

Ho lasciato risuonare definizioni come genio, scoperta, finalmente, vittoria, sapere. Ogni volta sulla spiaggia onde che bagnavano e si ritiravano ma non tingevano, non lasciavano traccia. Non erano come uomini e donne  con merce di civiltà oltremarine.

È restato invece il blu sulla tela antica. “Un tubetto di quell’azzurro scuro là, si… quello!…grazie“. Dodici anni. E andare via con i cilindri di alluminio dei colori ad olio nelle tasche: fuori un aria piena e schiere di pittori in giacca ampia su colline al vento.

Mani già nodose come poi ora a settant’anni o quasi. Nomi per strada. Borghi che agli incroci delle stradine hanno divinità locali.

Un’urbanistica politeista: ecco cosa traversai. Ancora traverso le medesime vicende. Nessuna storia. Mi evolvo qua da sempre.

Sempre‘ comincia nel 1976 quando conobbi Massimo Fagioli: lui che è diventato quarant’anni con le dita colorate di un’onda blu. Il resto non ha influito gran che.

Read More

la spiegazione dei disegni


Posted By on Gen 6, 2017

Ora che tutto ha preso la sua destinazione vedo bene i campi e i rilievi trascorsi. Mi fermo un momento. Più che altro è l’idea di un arresto ma posso solo rallentare perché la natura del viaggio non consente interruzioni. Veder bene vuol dire in modo univoco senza dubbi con la certezza di ciò che è stato. In una lunga storia tanto bene distesa alle spalle che non c’è più tempo per cambiarla neppure la speranza è necessaria e alla fine vale la gioia andare avanti senza esitazioni.

Avere tra le mani la conclusione, questa conclusione: l’avanzare dopo l’ultima porta. Mi spiego: il territorio va lungo una costa che non è l’ultima sulle mappe. Ma è ultima, per uno che cammina con le proprie gambe. Poiché sono la latitudine e il clima che chiariscono  la previsione certa: che io sia nel mio definitivo territorio.

Potrò spaziare libero sapendo che gli errori saranno ininfluenti. Il punto oltre il quale ho capito non è individuato in un luogo una curva o un angolo prospettico. Cioè la mia attuale comprensione delle cose non è avvenuta per un’illuminazione. Anzi ha radici nell’intera storia precedente. Affonda nella serie di vicissitudini della mia vita. Sboccia come un’idea di un albero disegnato lungo una linea che poteva crescere in ogni suo punto perché la linea è fatta di punti generativi.

Però la consolazione è che sia nato, finalmente. Sfuggito alla possibilità di non essere mai.

Questa latitudine ha il suo proprio clima. Ed il pensare disegna nuvole in cielo. Essere umani che trasformano continuamente la meteorologia dei giorni nella serie di stanze e padiglioni di un museo d’arte. E oramai chi capisce questo non sa tornare più a prima.

Così procedo sicuro che non potrò più scegliere di essere di meno di questo poco che sono diventato. Tutto il tempo è un grano di sale sotto la porta che tiene aperto il varco. Il discorso fin qui uno spiccho di luce….

Read More

il secondo giorno


Posted By on Gen 2, 2016

mari e monti fatti di tempo

mari e monti fatti di tempo

Ci accoglie, il secondo giorno, una pioggerella fina fina che ci infradicia progressivamente e senza che ce ne rendiamo conto. Dunque non fermiamo il cammino e però intanto i vestiti bagnati si scaldano al calore del corpo e cominciano a fumare.

Visti dal crinale siamo quei fumanti bozzoli scuri: o, semmai, i resti di un falò i cui tronchi hanno cominciato a camminare ed è questa, mormora il pastore, la nuova propagazione dell’umanità sulla terra. La transumanza di ogni anno nuovo. Che ‘nuovo’ è il dopo, quanto segue la festa, il rito, la segnalazione e il fuoco di avvistamento.

Ognuno di noi è, in questa scenografia dei risvegli rituali, un tizzone ardente del falò che si è acceso la sera precedente la notte prima del mattino in cui i naviganti dovettero partire, portando ognuno con sé il fuoco in forma di brace sulla cima di piccoli bastoni.

Una processione luminosa taglia il quadrilatero irregolare della pianura, con la diagonale delle traversate grandi e piccole di ogni epoca. Si ride con un riso sussultante e inquieto perché si ignora la misura di quello che sta arrivando. L’istante iniziale di ogni cosa è talmente piccolo e sfuggente che non sappiamo niente di quello che contiene e che sarà

Per questa faticosa ignoranza del futuro si era deciso di andare noi incontro al tempo e questo divenne transumanza perché era evidente che il tempo era  uno dei costituenti essenziali dei monti e dei mari.

Così si calmava il timore del domani ma si doveva sempre camminare traversando quei mari e quei monti: e l’unico momento mistico che i carovanieri grandi e piccoli si concedevano ogni tanto era l’osservazione del dondolìo ipnotico dell’apice bruciante dei rami tolti dai fuochi.

Questi bastoni arroventati sono stati i primi orologi. Il tempo veniva scomposto in frazioni uguali alle oscillazioni di quegli alberi infuocati. Di quelle lanterne povere. Eppure a quei lumi si vedeva bene rosso pulsante battere il cuore del viaggio: l’addensarsi della fatica nelle falcate dei nomadi.

Tutto quel camminare delle tribù di esseri umani migratori su strade assenti è il fondamento del pensiero collettivo e del primo accordo sociale.

Molto dopo, senza che ora noi si possa capire come e perché, venne il perdono e l’idea che il tempo si potesse misurare anche senza la fatica del cammino. Si arrestarono. Coi bastoni accesero nuovi fuochi. La mente svegliandosi dal rollio del viaggio cominciò a ricordare.

Il tempo del riposo che noi abbiamo adesso è coscienza: ma non ha precisamente la qualità del pensiero distratto, la qualità della coscienza del sogno, la gioia inconsapevole dell’ipnosi che allora stordiva la fatica rendendola sopportabile. Lo stato di stupore fluttuante di quel pensiero sottile che lottava contro il rischio costante della morte fisica.

I crinali di estenuazione sono stati l’unico baluardo dei popoli schiavi dell’ignoranza contro la loro estinzione. La tensione al limite dello scontro tra uomo e natura generava in tutti loro quotidianamente una coscienza fine sottile esangue e impalpabile e questa coscienza -attualmente a noi ignota- consentiva l’accesso di ognuno ad una vigilanza distratta.

Il pensiero derivante da quella coscienza e quella vigilanza svelò ben presto la costituzione atomica della realtà fisica. Noi, adesso, abbiamo queste due cose: la natura fisica della realtà umana, e la natura non umana dello spirito.

Read More

leggero irreversibile


Posted By on Feb 26, 2015

Nessuna domanda più se si vuole inaugurare una relazione modernamente possibile. Promettere la cosa più improbabile: tacere. Promettere di smettere di fumare e di ubriacarsi. Promettere di vincere il suicidio quotidiano. Guardare i volti e sapere che è finita finalmente, ma non è la fine. Guardare gli altri senza nostalgia. Abbiamo concluso quanto dovevamo concludere. Fatto quello che andava fatto. La leggerezza dell’irreversibile schiarisce lo sguardo. Non c’è altro che lo consenta. Ci sono cose che non tornano più mentre ancora viviamo. Sono quelle imparate per sempre affondate nelle scie. Alle spalle i lacci interrotti.

Read More

chutzpah


Posted By on Ott 15, 2014

‘Chutzpah’ in israeliano significa ‘impertinenza’. Come avessi trovato una statuina di sabbia nella traversata del deserto la raccolgo e cerco di pronunciarla. In Israele, sotto la certezza delle bombe e la minaccia continua della morte, c’è il più altro concentramento di start-up del mondo. Senza speranza prolifera l’intelligenza. Raccolgo la parola, il suo suono, dunque non per caso. Ma per la simpatia di una somiglianza di attitudine. So bene la grande differenza di misure. So bene che il paragone è formalmente indegno se visto dalla parte di una popolazione a rischio per (anche e non soltanto) le decisioni dissennate dei suoi governanti. Tuttavia. Raccolgo la statuina di sabbia nella sabbia, la parola di suoni incomprensibili tra altri suoni riconoscendole una somiglianza con le idee cui si riferisce perché anche nel mio mestiere si impara a lavorare senza speranza. Da me si lavora sempre dove non c’è speranza, coi sottoprodotti di terre desolate. Si lavora letteralmente senza la speranza. Insieme a persone che non c’è l’hanno più, la speranza. Si lavora con caparbietà. Con volontà e dispetto. Aggiungo che si lavora anche con chutzpah. Lasciamo alle braccia dei coinquilini di consolarci. Ai larghi sorrisi che si va a procurarci e che alla fine ci rivolgono le ragazze che non pensano a noi perché esse guardano i fidanzati bellissimi asciutti e sfrontati. Si cerca nelle spine come si tende il braccio alle more grosse viola alte vicino al cielo e senza alcuna pretesa. Senza speranza, ripeto. Vecchi e giovani siamo uguali, ugualmente attempati da tutto questo cercare di tante sere. Si cerca con gusto sprezzante di una identica condivisa vecchiaia. Con divertimento si sfida l’idea di una fine impossibile. Che non sta da nessuna parte nel reticolo di miliardi di cellule neuronali. Che si perde tra i centomila miliardi di connessioni tra loro. Appena ci si ferma a bere alla fontana si pensa ad uno slalom dei cuori sulle cunette e alle giravolte sulle piste d’argento di velodromi periferici. Dicevamo da tanto di evitare il centro. Di scorrazzare sulle linee di fondo e portare la palla lungo le linee del fallo laterale da una porta all’altra. Sappiamo giocare oramai le partite. Nel post- tutto, in questo post tempo che succede alle scoperte si è desolati di non esser arrivati prima, di non aver anticipato il resto. Più che curarmi di una formazione eterna io guardo la strada correndo tra i campi che uniscono il mare e le colline. Sudore e musica. Urlo ai grilli, tanto alle una per strada non c’è quasi nessuno. Saranno a pranzo penso. So che la pesante digestione contrasterà i loro progressi di comprensione. Piango le sorti della civiltà occidentale e non vedo quanto sono desolatamente isolato. Sono quasi certo di diventare un girasole o un olivo uno di questi giorni. Questa quasi certezza accresce l’allegria e il disprezzo per le consuetudini. Volando come una rondine lungo i fossi di campagna per la provinciale mi viene in mente di disegnare un volto. Il concerto di un imprinting restituisce ai miei pensieri la dolcezza. Non è disumanità il rifiuto. La rabbia non c’è l’ho. Altrimenti non avrei saputo restare così tanto tempo a giocare il ruolo del cursore sulle fasce. Avevano sognato tanto tempo fa, nella forma di transfert calcistico, il più bravo libero del mondo. Trascurando l’idealizzazione il ruolo non mi dispiaceva. Deve essere successo qualcosa da allora se io invece mi penso un’ala tornante. Chissà quando tutto è cambiato? Questi ultimi anni, penso, per via del cambiamento del mondo. A causa del tempo rosicchiato dalle nuove frontiere dell’informazione. A causa della permeabilità dei confini di mondi non più inaccessibili e del tempo che tanto più si accorcia per la velocità degli scambi tanto più si addensa in me. Sono così giunto ad oggi, all’articolo oltre il numero ottocento. La conoscenza di altri suoni, parole di altre lingue, per dire concetti che conoscevo ma che in quel linguaggio sembrano voler dire altro. La densità del tempo come entità fisica quasi fosse una cosa con una sua massa rende l’idea di come il vento delle parole, che fa vibrare il timpano, possa poi tradursi in correnti elettriche lungo gli assoni delle fibre nervose e esercitare una azione fisica sulla materia cerebrale che consente alla funzione mentale di creare una differente immagine. O di trasformare immagini precedenti. Per questo con una certa fatica disegno. Sarebbe facile lasciarsi andare a spostamenti segmentari delle dita sullo schermo. Non lo è perché avverto che c’è qualcos’altro differente da una figura da disegnare. Ci sono idee che agiscono sulla attività corticale delle aree motorie che lasciando inalterata la volontà apportano variazioni alla figura. Impertinenza, cioè, per meglio suggerire quel che succede, chutzpah.

Read More