adesso


Ciò che sono è un nome. Mi invento l’etimologia. Nome. Numen. Divinità. Persona. Sacralità della persona. Non nominare certi nomi invano. Cosa è invano, a questo proposito, cerco.

“Non vanificare il nome. Non polverizziamo con dichiarazioni fasulle, tipo >amoreamoreamore< la frontiera del senso. Aspetta… aspetta!” 

Ho lasciato risuonare definizioni come genio, scoperta, finalmente, vittoria, sapere. Ogni volta sulla spiaggia onde che bagnavano e si ritiravano ma non tingevano, non lasciavano traccia. Non erano come uomini e donne  con merce di civiltà oltremarine.

È restato invece il blu sulla tela antica. “Un tubetto di quell’azzurro scuro là, si… quello!…grazie“. Dodici anni. E andare via con i cilindri di alluminio dei colori ad olio nelle tasche: fuori un aria piena e schiere di pittori in giacca ampia su colline al vento.

Mani già nodose come poi ora a settant’anni o quasi. Nomi per strada. Borghi che agli incroci delle stradine hanno divinità locali.

Un’urbanistica politeista: ecco cosa traversai. Ancora traverso le medesime vicende. Nessuna storia. Mi evolvo qua da sempre.

Sempre‘ comincia nel 1976 quando conobbi Massimo Fagioli: lui che è diventato quarant’anni con le dita colorate di un’onda blu. Il resto non ha influito gran che.

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essere bravi


Posted By on Feb 9, 2017

  1. Imparare ad essere bravi non è miglioramento: è evoluzione, indietro non si torna. È facile rimanere bravi. È impossibile smettere di esserlo: non per uno sforzo etico ma perché il vallo evolutivo resta insormontabile.
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la spiegazione dei disegni


Posted By on Gen 6, 2017

Ora che tutto ha preso la sua destinazione vedo bene i campi e i rilievi trascorsi. Mi fermo un momento. Più che altro è l’idea di un arresto ma posso solo rallentare perché la natura del viaggio non consente interruzioni. Veder bene vuol dire in modo univoco senza dubbi con la certezza di ciò che è stato. In una lunga storia tanto bene distesa alle spalle che non c’è più tempo per cambiarla neppure la speranza è necessaria e alla fine vale la gioia andare avanti senza esitazioni.

Avere tra le mani la conclusione, questa conclusione: l’avanzare dopo l’ultima porta. Mi spiego: il territorio va lungo una costa che non è l’ultima sulle mappe. Ma è ultima, per uno che cammina con le proprie gambe. Poiché sono la latitudine e il clima che chiariscono  la previsione certa: che io sia nel mio definitivo territorio.

Potrò spaziare libero sapendo che gli errori saranno ininfluenti. Il punto oltre il quale ho capito non è individuato in un luogo una curva o un angolo prospettico. Cioè la mia attuale comprensione delle cose non è avvenuta per un’illuminazione. Anzi ha radici nell’intera storia precedente. Affonda nella serie di vicissitudini della mia vita. Sboccia come un’idea di un albero disegnato lungo una linea che poteva crescere in ogni suo punto perché la linea è fatta di punti generativi.

Però la consolazione è che sia nato, finalmente. Sfuggito alla possibilità di non essere mai.

Questa latitudine ha il suo proprio clima. Ed il pensare disegna nuvole in cielo. Essere umani che trasformano continuamente la meteorologia dei giorni nella serie di stanze e padiglioni di un museo d’arte. E oramai chi capisce questo non sa tornare più a prima.

Così procedo sicuro che non potrò più scegliere di essere di meno di questo poco che sono diventato. Tutto il tempo è un grano di sale sotto la porta che tiene aperto il varco. Il discorso fin qui uno spiccho di luce….

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È troppo, è stato detto. Così il freddo vuota la spiaggia. La veranda del ristorante sul mare è impraticabile. Il vino bianco è sconsigliato dal cameriere, con questa temperatura. L’uomo ne ordina comunque uno di gran pregio. Il soggetto di storie bisogna che abbia coraggio.

Che uno sia umano, vuol dire, in questa visione di autunno inoltrato, che lui, o lei, bisogna che si espongano in modo non metaforico al vino e al vento.

Ordinare inaspettatamente, insistere, eccedere appena, o il molto lavorare, l’industriarsi, mai in un travaglio ma sempre nell’insistenza di riproporre un’intuizione come fosse certezza, volere con il sorriso sono attitudini del soggetto del coraggio.

Lui/lei, cioè, sulla spiaggia del romanzo, chiunque ogni volta ‘andando’ allo svolgimento delle proprie frasi s’affretta e s’adopra a definire e scandire l’operazione di precedere il compimento delle proprie stesse procedure linguistiche con parole o inflessioni della voce o rappresentazioni in manufatti operosi, è: -sia il giovane visionario riparato dalla sua miseria all’angolo di strada -sia il fante di trincea che sperimenta, a causa di una giovinezza impulsiva, la fatalità fino a dove essa diventa sanguinaria.

C’è un ansito, nello slancio dell’assalto delle mani sulle opere, della stessa potenza dell’immobilità di un cantante cieco all’ombra di un portico.

A volte, il giovane o la ragazzina che siano scampati alla guerra dell’obbligo della propria adolescenza, sono mendicanti con occhi finalmente guariti.

Essi si gettano in un lampo all’assalto dei fianchi l’uno dell’altro che si intravede oltre un lembo di stoffa e il bagliore lunare di un sorriso. Nella Città del Tempo, Via della Capitolazione Nuova.

È, quel coraggio inconsapevole, un caso del soggetto grammaticale: eroe (o eroina) della sintassi essi soggetti esplicano l’eterna esplorazione di sé del sé. E portano avanti il progetto di un mondo invisibile che serbano in mente.

Scrivere è scrivere la Storia del Futuro. Fornire una definizione di essere umano progressiva e mai definitiva. Chi scrive deve avere il coraggio di costituirsi come conseguenza di gesti di iniziazione ripetuti. Sapere di essere esito ed esperienza di atti intuitivi ricorsivi. 

Il soggetto ha il movimento della crisi determinata da un desiderio e -all’opposto- l’imprevedibile gesto di guarigione dal desiderio nella cessazione della scrittura. Questi atti sono due tenui fessure traslucide sulla buccia scura dei semi narrativi.

Non è plausibile la scuola di scrittura creativa che è un inganno se il soggetto non si fonda sulla buona volontà cosciente ma sulla capacità di svolgere il tema dettato al soggetto da un precedente motivo.

Semmai dovremmo studiare alla scuola di guerra e di canto per tirare a campare le frasi come figlie di eventi involontari.

L’iniziativa verbale di un gesto dichiarativo (“yo te quiero“) e la flessuosa muta distensione del rifiuto di chi va via (“yo no te quiero màs“) sono l’accettazione e il rifiuto: i punti su cui si addensa tutto il coraggio delle proposizioni che disegnano le svolte decisive delle narrazioni e gli archi di portici ombrosi.

Tangente a quelle curve il cipiglio dell’attore impavido al vento della veranda interamente aperta sul mare autunnale risponde alla domanda di un dispotico sommelier : “Chi assaggia il vino d’inverno alle porte?”

Il regista dietro la macchina ronzante è preso da un dubbio. Se il soggetto sono la donna e l’uomo che agiscono pieni di impulso nello spargere sguardi lampeggianti davanti a loro e se ne vede bene l’impeto esplorativo, però non si vede il seme che genera l’intraprendenza.

La natura fisica della vita biologica che tiene e esprime la potenza del pensiero necessita di un nuovo attore: “Deve essere Omero all’angolo della strada”, ordina alla segretaria di produzione. E comanda una pausa.

Nella pausa ricordo. Venni verso di te spinto dal calore estivo e specialmente a causa di un raggio di sole che mi batteva i fianchi. Fu un gesto di guerra che non generò morte seppure fummo vittime di qualcosa che però era buona perchè entrambi ci teneva assieme.

Una parte di quel qualcosa era la storia: come eravamo arrivati là. Una parte era la temperatura: l’erotismo umido della pelle accaldata.

E certo per questo ciò che poi è stato di noi e fra di noi fu anche evaporazione, al soffio dei tempi, che ha ridotto il divario tra dentro e fuori ed ha ricreato un equilibrio intorno al movimento storico dei nostro corpo politico, e addensato e conservato il calore in fondo alle fibre più intime dei nostri antiquati corpi biologici.

Oggi, a proposito del coraggio, prerogativa degli agenti di ogni storia, mi chiedo se la ricerca potrà mai chiarire in quale proporzione il calore estivo che sferzava i corpi fu causa (e ‘soggetto‘ …!) della nostra promessa d’amore.

Se fui io o quell’estate particolarmente afosa a vincere le opposizioni che sempre frapponiamo al nostro e all’altrui desiderio.

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il secondo giorno


Posted By on Gen 2, 2016

mari e monti fatti di tempo

mari e monti fatti di tempo

Ci accoglie, il secondo giorno, una pioggerella fina fina che ci infradicia progressivamente e senza che ce ne rendiamo conto. Dunque non fermiamo il cammino e però intanto i vestiti bagnati si scaldano al calore del corpo e cominciano a fumare.

Visti dal crinale siamo quei fumanti bozzoli scuri: o, semmai, i resti di un falò i cui tronchi hanno cominciato a camminare ed è questa, mormora il pastore, la nuova propagazione dell’umanità sulla terra. La transumanza di ogni anno nuovo. Che ‘nuovo’ è il dopo, quanto segue la festa, il rito, la segnalazione e il fuoco di avvistamento.

Ognuno di noi è, in questa scenografia dei risvegli rituali, un tizzone ardente del falò che si è acceso la sera precedente la notte prima del mattino in cui i naviganti dovettero partire, portando ognuno con sé il fuoco in forma di brace sulla cima di piccoli bastoni.

Una processione luminosa taglia il quadrilatero irregolare della pianura, con la diagonale delle traversate grandi e piccole di ogni epoca. Si ride con un riso sussultante e inquieto perché si ignora la misura di quello che sta arrivando. L’istante iniziale di ogni cosa è talmente piccolo e sfuggente che non sappiamo niente di quello che contiene e che sarà

Per questa faticosa ignoranza del futuro si era deciso di andare noi incontro al tempo e questo divenne transumanza perché era evidente che il tempo era  uno dei costituenti essenziali dei monti e dei mari.

Così si calmava il timore del domani ma si doveva sempre camminare traversando quei mari e quei monti: e l’unico momento mistico che i carovanieri grandi e piccoli si concedevano ogni tanto era l’osservazione del dondolìo ipnotico dell’apice bruciante dei rami tolti dai fuochi.

Questi bastoni arroventati sono stati i primi orologi. Il tempo veniva scomposto in frazioni uguali alle oscillazioni di quegli alberi infuocati. Di quelle lanterne povere. Eppure a quei lumi si vedeva bene rosso pulsante battere il cuore del viaggio: l’addensarsi della fatica nelle falcate dei nomadi.

Tutto quel camminare delle tribù di esseri umani migratori su strade assenti è il fondamento del pensiero collettivo e del primo accordo sociale.

Molto dopo, senza che ora noi si possa capire come e perché, venne il perdono e l’idea che il tempo si potesse misurare anche senza la fatica del cammino. Si arrestarono. Coi bastoni accesero nuovi fuochi. La mente svegliandosi dal rollio del viaggio cominciò a ricordare.

Il tempo del riposo che noi abbiamo adesso è coscienza: ma non ha precisamente la qualità del pensiero distratto, la qualità della coscienza del sogno, la gioia inconsapevole dell’ipnosi che allora stordiva la fatica rendendola sopportabile. Lo stato di stupore fluttuante di quel pensiero sottile che lottava contro il rischio costante della morte fisica.

I crinali di estenuazione sono stati l’unico baluardo dei popoli schiavi dell’ignoranza contro la loro estinzione. La tensione al limite dello scontro tra uomo e natura generava in tutti loro quotidianamente una coscienza fine sottile esangue e impalpabile e questa coscienza -attualmente a noi ignota- consentiva l’accesso di ognuno ad una vigilanza distratta.

Il pensiero derivante da quella coscienza e quella vigilanza svelò ben presto la costituzione atomica della realtà fisica. Noi, adesso, abbiamo queste due cose: la natura fisica della realtà umana, e la natura non umana dello spirito.

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sesso sulle scene


Posted By on Apr 24, 2014

Francoise-Gilot-Sono-l-unica-amante-che-si-e-salvata-da-Picasso-lasciandolo_h_partb“Niente di te discosto/ La poesia nella sintesi/ Il sesso nella recitazione/ Gli attori non potrebbero/ Fingere passioni docili/ Fingere d’esser bravi…”

©Robert Capa

Più di questo sole è il senso dell’acqua, che riposa. Le onde e i secchi straripanti per pulire le croste di sabbia lunare. Guardiamo gli amici sulla barca a sfidare. Dobbiamo accordarci sull’uso di verbi transitivi senza oggetti. Ci mancano luoghi in cui riposare le azioni delle quali i verbi transitivi (che implicano di compierle) costantemente ribollono. Abbiamo in mente le azioni sospese nel corpo dei verbi di pertinenza. Il pensiero ribelle sa far uso inappropriato di sé, e questo è scrittura quotidiana: incantare in gelatina di sguardi i pesci tirati su dal fondo della barca dove guizzano stanchi da che li abbiamo pescati, o ripararsi il sole che brucia gli zigomi con le vele delle mani aperte sulla fronte. L’indifferenziato impatto energetico dei raggi ultravioletti brucerebbe torrenziale fino dentro la preziosità degli occhi e tutto ciò che incontra se non lo riparassimo. Il sole contro una nave di legno troppo dolce e secco. L’indifferenziato impatto addosso alle navi e ai marinai brucia tutto: è il fuoco dell’ideale inesistente del pensiero ‘puro’.

Appena appena contro questo sole il senso freddo curativo dell’acqua. Il freddo che risulta dalla differenza. Stare nell’acqua fino al collo, galleggiare, essere ammalati e fantasticare: vincite alla lotteria, tempo disperso, strusciare al muro, alcolismo minore, scommesse, senza il tramonto l’odio dei climi medi di non essere nati e fare finta. Rifletti: i bravi attori protagonisti si baciano e finiscono a far l’amore. La macchina rumorosa del set non molla: cerca, stringe -spremendo- l’arancia di lei sotto la forza muscolare del ragazzo, e poi lei afferra lui, con dita ardimentose più di quanto lui sia stato pieno d’ardore: e allora lui splende di nero e violetto come una prugna sottomessa alle ‘sue’ labbra.

E a quella cima d’albero d’ogni frutto conosciuto una luce sprizza dalle loro mani, e finta non potranno fare più. Dopo, avvolti nelle lenzuola, ridono felici che la verità non li ha travolti. La bellezza dei naufraghi e dei naufragi si misura dove non parrebbe il caso. Nel fuori scena della recitazione d’amore che ha l’umanità assoluta. Semmai saranno i vezzi quotidiani a confonderci apparendo spettacoli e finzione. A questo si oppone ‘sto Scrivere Quaderni e Quaderni di Ricerca in Psicoterapia come azione di lotta. E’ che il setting, come il set, costringe a non fingere e insomma alla imprevista coerenza, divenuta ineludibile, tra parole e contenuti, tra ‘affetto’ e ‘conoscenza’.

Sotto le luci del palcoscenico fisiologia felice del tuffo è la nascita perché è massima stimolazione. Questa estrema variazione è ricordo dell’aria e della luce del primo momento fuori dall’utero. Inconscio/fuoco in aria e fiamme dagli occhi chiusi di passione. La finta che sia ‘tutto questo’ soltanto, e soltanto ‘questo’ sia, non è finzione: è l’unico modo di procedere. È una scienza il linguaggio e dunque, appunto, come s’era iniziato, ti ripeto e ripeto ripeto come un’onda  il senso che ho dell’acqua:

“Niente di te discosto/ La poesia nella sintesi/ Il sesso nella recitazione/ Gli attori non potrebbero/ Fingere passioni docili/ Fingere d’esser bravi…”

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