al centro dei pensieri nuovi


dialoghi


Posted By on Mar 11, 2014

Alessia ha scritto questo commento all’ultimo articolo

“Gioco con il mio avatar ..lei ha coniato un nuovo vocabolo: “Ho pianto un matasso.“ dice. Perché la matassa di lana è abbondante, ma il pianto è maschile. Qualcuno capirà …. Giocare mi stanca quasi quanto studiare e allo stesso modo mi libera. Il vecchio dalla lunga barba, con il suo elastico, ci faceva frizzare i polpacci. Tu hai inventato un nuovo modo di parlare al vecchio e lui ha liberato l’oriente, la tua origine. Sei un bambino d’oro. Adesso svegliati e parlami un pó.”

Rispondo.

“Nel deserto o nella tundra devi avere un punto di riferimento. Ma sono quasi tutti punti immaginari. È quello che sembra di vedere, e devi avvicinarti, per essere certo che era qualcosa di reale che avevi percepito. Il fascio dei fotoni, in viaggio da quell’area minima di orizzonte, collassa parzialmente sulla superficie irregolare della seta di sabbia portando con sé la polvere d’oro che la sabbia diventa sulla poetica degli strati di cellule retiniche. Per quei riflessi, forse miraggi, qualcuno decide di risalire fin là. Ora si sa. C’era la bellezza, che si può misurare. Ci sono voluti decenni e non ne so molto più che all’inizio. Si trattava di insistere. Il linguaggio cambia l’anatomia sottile dell’universo encefalico. Si scrive come scrivi tu. Io capisco quello che dici: che si può non essere più soli un momento prima che sia ‘troppo tardi’. Poi allora, forse, la stanchezza diventa una traccia di sessualità. Quanto resta ancora possibile, per cui vale la pena. Qualcuno capirà….

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close to you


Posted By on Nov 6, 2013

La temperatura delle scoperte ha il calore degli incontri. “Close to you” canticchio e il suono della voce si spande intorno come il profumo di una frittella di passione. O come le canzoni schiamazzanti durante gli incontri dei sedicenni al luna park. Nascita allattamento svezzamento visione dell’essere umano diverso hanno il profumo che avvolge il gazebo della carne alla brace. Faccio caso in quanti modi posso mormorare e variare la timbrica della composizione scrivendo e cantando. Nella musica, nella metrica della lingua parlata e nella composizione letteraria c’è sempre qualcosa di autonomo che è un ‘in più‘ connaturato alla neutralità delle leggi dell’acustica e alla fissità delle regole sintattiche e grammaticali. Musica scrittura e linguaggio possiedono una libertà di ‘aura’ e sono irripetibili le voci e i canti. Musica voci e scrittura ci si librano attorno come semi e pollini e non si saldano definitivamente mai più alla memoria musicale e alle idee pensata dalle quali vengono. “Close to you, appiccicato a te“. Le parole accostate hanno una forma leggera e indistruttibile e una direzione irreversibile. Questa libertà consente una serie numerosa e intransigente di interpretazioni e innumerevoli diventano i significati del discorso. “I mulini della tua mente” dice la canzone. Senti già il titolo ruotare, tuonare le macine della fabbrica chimica di ogni cellula. La moderna psichiatria si orienti alla scoperta dei meccanismi delle funzioni che generano il pensiero più che all’interpretazione delle figure perché comunque nessuna figura ha un significato unico e non può regalarci alcuna soddisfazione scientifica. La musica la letteratura la poesia e l’arte nascono precisamente grazie alla libertà di aura che si libra attorno a ogni cosa che sia ordinata e ragionevole. Si generano nelle aree di deriva. I teatri e le sale di concerti sono porzioni di mare nelle quali ci troviamo insieme confluendo durante le rotte di ciascuno e la nostra libertà ha una legge fisica che la consente. Vale e dura fin quando i parapetti delle barche sono in vista. Poi rientriamo nella solitudine degli obblighi e delle necessità.  Non si deve sbagliare fallendo i nostri sforzi: perché la biologia non può essere desunta attraverso la decifrazione della storia. La cattedrale d’aria dei Carmina Burana che pare soffiata direttamente dai mantici medioevali è una scenografia tempestosa, la perfetta messa in scena delle taverne inondate dal vino per le messe. Ma come sappiamo reinventare il passato è l’oggetto dello studio. Non dovremmo credere che il pensiero sia creatore di miti che costantemente ritornano. Il pensiero gioca con il passato portandolo in scena per avere la libertà di sognare altro. Da qui si stende il pavimento fatto con poligoni irregolari di materia inerte, che non pavimentano la via di accesso al non cosciente, semmai svelano al medico come funziona la presa d’atto della realtà fuori di noi e anche, ai limiti, di noi con noi stessi mentre viviamo. I sogni sono il segno della continua invenzione e non c’è nessun luogo dove potrebbero portarci. Magari c’è un ‘topos’ filosofico, un oggetto dell’ermeneutica, uno svago di sciarade, le mille e una notte di racconti come un tetto che ripara. Richiami tra soggetti che trascorrono da stanza a stanza. Ma resta, alla fine di ogni rapporto che sia amore o cura di una alterazione, che bisognerà saper vivere un coretto rapporto cosciente con la realtà per sentirci a posto. D’altra parte sogni non ce n’é mai uno uguale ad un altro. I sogni variano nei ricordi che noi abbiamo di loro mentre ci svegliamo, variano progressivamente come se stessimo continuando a sognar quello che essi sono stati. Da mattina a sera non smettiamo di sognare i nostri sogni nei buongiorno e nell’odio e nella passione e nel pensiero corrente nella corrente dei pensieri coscienti. Variano sempre e non abbandonano la costruzione delle architetture variabili delle passeggiate nella città e lo fanno con la libertà della musica della nostra voce che ci sussurra “Close to you” mentre poi (altro che appiccicata a noi!) essa si allontana e svanisce credo alla ricerca di una donna gentile e fuggitiva.

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Hilary Hahn

Hilary Hahn

Quello che ho capito è mai mentire. A qualsiasi costo. Mentire è per paura e malattia. Mentire mantiene il sorriso, ma il sorriso di mantenimento non è più buono a niente: come un ragazzino depravato troppo precocemente, che fa rabbia a vederlo, indiscusso capobanda di altri simili, solo meno rovinati, per ora.

Mi sono preso questa fotografia di una violinista. Un’oca di Lorentz ancheggiante sui parquet dei teatri e degli auditorium dietro al suono, che negli auditorium e nelle sale dei concerti echeggia continuamente. Echeggia sotto le volte alle sue spalle. Non so venire a capo altro che di queste piccole cose. Un viso, e una personcina aggraziata. Un’idea d’amore.

“Puoi promettermi un amore grande come un amore infelice? Se si, allora resta”. La misura della felicità è attraverso l’infelicità. Non so venire a capo altro che di queste piccole cose, ultimamente. Il benessere dovuto alla trasformazione della condizione mentale rende inutile quasi tutto l’indispensabile. L’indispensabile stinge al sole.

Ora segno le correzioni via via che cambio idea su termini e virgole. La pagina è una vigna grande del foglio e tra le righe passa il ragazzo apprendista di potature. Se torno a cambiare una singola parola compare una linea azzurra sul testo che resta.

La nuova parola resta accanto a quella precedente, che non sparisce ma viene traversata dalla correzione, e quella linea, a traverso la parola che non mi andava più bene, è l’immagine dell’intransigenza.

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cinque anni e gli arcangeli


Posted By on Gen 15, 2013

Gelsomina e Zampanò - La Strada - Fellini - 1954

Gelsomina e Zampanò – La Strada – Fellini – 1954

Mi devi offrire, regalare, uno sforzo di passione, un atto di compassione, un ascolto. Mi dicono che certe volte questa mia ricerca di base sul pensiero umano ha toni di bellezza. Allora perché, mi chiedo, dove sono le radici. Ho cercato come faccio sempre, e le radici sono in tante cose, nella vita come marmellata sul pane di tutti i giorni, nel gesto della mano che imburra le fette di pane caldo che può anche essere mesto, per raggiungere la misura giusta della contrazione muscolare adatta allo spessore dello strato di sostanza sottile da distribuire omogenea. Innegabile certa tristezza.

Ma le radici sono soprattutto nella progressiva riconoscenza. Nel pagamento che fa il ricordo, il coraggio di una versione della storia che non è sottrattiva. Non capisci?Peccato. Le radici sono le mani di qualcuno che toglie il cappio dal collo.

Le radici sono nei cinque anni, nel film La Strada di Fellini del 1954, sono radici musicali nella musica di Nino Rota, sono in Zampanò e in Giulietta Masina, in quel capire che ‘presto’  e ‘tardi’ è sempre nella vita di chi amiamo e non nella nostra, che il tempo non è la durata della nostra vita, è la durata della vita altrui. Il tempo non scatta all’inizio del tempo. Scatta nel momento di cambiamento e di rivoluzione. Il tempo scatta nel mezzo del tempo stesso, nel mezzo delle durate. Certe volte scatena il dolore perché scatta solo alla fine. Nella nostra comprensione tardiva delle cose degli altri: ed è la loro infelicità. Nella comprensione tardiva che gli altri riservano a noi: ed è quando è tardi per noi.

Speriamo che per te non sia tardi, ora. Che il tempo che è questo ‘adesso’ sia simultaneo al tuo ‘adesso’. Speriamo che il mio tempo stia nel mezzo al tuo tempo e così avremo l’amore la passione e la comprensione. Avremo le basi della ricerca.

Sono andato a vedere il 1954 che avevo cinque anni. Fellini per me, quando lo conobbi, fu insieme al mare senza divieti. Quando gli occhi non videro più i fili spinati tra me e il corpo femminile che ora disegno di bianco e di algebra febbrile. La radice delle parole che scrivo è in quei viaggi casuali per il mondo. E il mondo si estendeva tra la spiaggia e la città. E adesso non molto oltre.

1954 pone le basi per cui è venuto il tempo quando ho cominciato a pensare “ma che c’entra il destino nell’essere qui, dal momento che QUI è sempre la domanda legata al suo volto al suo riso e a chiacchierare con lei al sole e dirle una speranza di ripetere oggi anche domani…” Il destino un poco si sceglie noi, e un poco è quando gli altri ci scelgono. Il tempo sono lenzuola che si asciugano al vento, come avevo disegnato nei primi tentativi di scrittura su Operaprima. Ma avevo solo disegnato.

Per fare un esempio: nella scienza che regge la mia professione è fondamentale il concetto di vitalità. Ma non era destino che trovasi quella idea geniale che la vitalità è cutanea e non muscolare. E’ che nel trovarla io potei immediatamente capirla. E questo fu per via dei miei cinque anni. Grazie agli avvenimenti dei miei cinque anni.

L’avevo capita legando a me l’aria che trovavo appena uscivo fuori di casa ai cinque anni nei campi di periferia.. L’aria quando uscivo fuori di casa era il grigio invernale che splendeva come adesso è la geografia legata al linguaggio: mi serve nella psicologia, per determinare una azione fisica delle parole sulla fisica del pensiero. Ora dico: il freddo eccita l’aria che colpisce la pelle e suscita l’intelligenza delle balene quando, insieme nel setting, ci troviamo a guardare il mare di fronte alla veranda.

Perché il quinto anno di vita fu un promontorio, il Capo di Buona Speranza. Gli altri a cinque anni furono buoni con me, buoni verso di me, furono i compagni di gioco sulle scale del palazzo popolare nei giorni di pioggia che non si può uscire. E ora grazie a loro posso dire che un palazzo è un maglione azzurro: che serve, e dunque esiste, solo in inverno. In estate ci si toglie, correndo fuori per trovare tutti, come si leva il vestito prima di dormire.

Nel 1954 l’aria deve avermi colpito con grande forza. E deve essersi legata a quanto è accaduto nella mente quando ho definitivamente imparato a decifrare, una per una, le frasi alla radio. O le altre frasi, quando gli adulti parlano come se tu non ci fossi, di cose che non dovresti poter capire. Quanto accadde nella mente in quei frangenti non lo definisco più, adesso, un processo inconscio, quanto un processo inevitabile e necessario. Un processo fisico che adesso mi permette di scrivere: condensando storia personale e comprensione delle cose, linguaggio attuale soggettivo e universalità di teorie consolidate (IDMEC)

Dai cinque anni sono quasi sessanta anni che, ascoltando la composizione del linguaggio, la pelle vibra di intemperanza: salvandomi sempre dalla prigione dell’incomprensibilità del mondo -che capisco benissimo invece- e, al contrario e in contrapposizione, non riuscendo mai a sottrarmi da un certo imbarazzante senso del ridicolo.

Si inizia a  leggere e scrivere a cinque anni, quando la vita si stende davanti agli occhi, fino ad una camera ammobiliata in affitto ad aspiranti attori e cantanti. L’aspirazione è per tre quarti capacità di rappresentarsi il futuro. A cinque anni la realtà è un fazzoletto pulito di cotone blu. Bene mantenerli i cinque anni. Nel film “La Strada” Giulietta Masina interpreta una Gelsomina che è tante cose: un’invenzione certamente inattuale, non moderna, addirittura antimoderna: ma neanche allora lo era. Non c’è mai un tempo adatto all’attesa senza sfiducia.

Cinque anni, scommettiamo che tutti sono d’accordo, è l’età in cui si scopre l’esistenza di strani amori senza uno statuto perché compaiono in cielo, sopra alle nostre teste ispide, arcangeli luminosi e cantanti: sono i fratelli delle madri e dei padri. Essi, per quello che a cinque anni se ne sa, fanno il giocatore di biliardo in doppiopetto e, nella vita che a noi mostrano, sorridono sempre dopo averla detta grossa. Sanno trasformare in epiche conquiste ogni singola speranza di essere baciati. I fratelli delle madri e dei padri hanno un lavoro, e tu puoi toccarlo, mentre ti tengono sulle spalle, proprio come si tocca il cielo con un dito.

Non c’è il destino: l’idea che mi feci del lavoro ha il profumo di lavanda e di dopobarba del barbiere di uno zio e quel dopobarba fondava la necessità di studiare le parole per amore, per raccontare di che sa uno zio, di cosa può sapere una storia, di cosa può valere una ricerca. E poi sempre l’avventura e il sesso talvolta, e la libertà sempre, e l’amore quando lo merita…. sono rimasti come il suo sguardo quando mi veniva a liberare da tutti: fresco e bruciante. Un’ortica medicinale.

Per quell’amore il lavoro secondo le stagioni è gabardine e cammello. La vitalità è la pelle del volto di un uomo giovane che profuma di bellezza e racconta che si poteva dire di no. La storia sta sotto la vitalità: la storia sono I muscoli magri del collo. La fantasia di ricordare i cinque anni con riconoscenza dice che la storia non è destino. La ricerca scientifica mi ha sempre suscitato un sentimento di fedeltà. Nella ricerca comune si sta insieme senza fare economia. La fedeltà è una coerenza come l’io narrante del testo di un romanzo.

Così leggevo romanzi che lo zio leggeva, che non sottraeva e non nascondeva. Che leggeva solo lui. E che poi ho letto anch’io. E adesso dico che la fedeltà è a mezz’ora di strada a piedi. Non è irraggiungibile. Ho scelto i cinque anni perché studiando la vita di chi si è dedicato alle figure nel cinema e si è dedicato a rappresentare la storia della formazione di una idea narrativa che è anche etica e scientifica, attraverso il movimento dei corpi nella recitazione, ho trovato La Strada –  Fellini e il 1954.

E ho pensato che avevo cinque anni e che imparavo, cercavo di imparare a leggere e a scrivere, e che cercavo anche di capire il linguaggio dei grandi e stavo sulle spalle di un arcangelo. E ho pensato che certi miracoli tornano, e ho immaginato la realtà di Fellini che ha potuto fare La Strada perché, come negli anni ’30 il mio arcangelo adolescente sfidava il potere e il conformismo del padre, rifiutando la parate fasciste; negli anni quaranta Fellini restava a Roma sfidando la sorte, avendo rifiutato l’adesione al partito, e la sottomissione alla leva.

Due miracoli: uno nella mente che è riconoscenza del profumo e della lucentezza della brillantina, si fonde  all’altro: quello di una figura che posso realizzare come idea perché mai io l’ho vista, alta asciutta: e con andatura dinoccolata essa traversa Roma cinematografica e filosofica, bellissima e pericolosissima. Come gli arcangeli traversano la mia mente costringendomi a scrivere i motivi di una comprensione.

Guardavo Zampanò che spezza le catene, ma non capisce la potenza di una figurina di donna, che ha il miracolo della fedeltà. Avevo pochi anni, appunto, diciamo cinque. Allora anche adesso ho cinque anni. Il tempo non passa. Lo spazio si volge, si gira, si avvicina e si allontana. Il tempo non passa. Il tempo ci avverte costantemente, continuamente, il tempo è pensiero. Il tempo esprime la fisica della funzione mentale. Delle funzioni mentali che passano dalla veglia al sonno e viceversa. Sono quelle trasformazioni i laghi di memoria. Dove si impara che le cose possono anche essere diverse. Sono arcangeli, figure create per riconoscenza.

Einstein dice che non avrebbe potuto scoprire la relatività se non avesse letto il “Trattato sulla Natura Umana” di David Hume. Che negli anni tra il 1902 e il 1905 si occupava di capire l’azione di Dedekind contro l’induzione nel processo delle scoperte o delle proposte di teoria nella scienza. Che era importantissima la visione di Ernst Mach. Pare, insomma, un certo modo di pensare il mondo sia sostanziale e inderogabile per migliorare la nostra intelligenza, il nostro amore. Nella scienza la riconoscenza è sempre una scoperta.

Ho ancora bisogno di un sacco di tempo. Per tutto il tempo che mi serve prendo l’amore degli arcangeli. Prendo a prestito l’amore degli arcangeli, per intanto… Il pensiero è gabardine e ortiche splendenti, è la guancia profumata di un giocatore d’azzardo che racconta, come fossero conquiste, tutte le speranze dei baci, tutti i suoni del proprio desiderio. Come fossi in un film di Fellini ho questo arcangelo circondato di figure femminili che danno un corpo ai concetti filosofici. Un arcangelo è l’idea di poter essere senza la perversione. Mi insegna a fidarmi. Il bello deve sempre ancora venire.

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Oh ti sei abituata a parlare per fregarmi. Sembra che hai sentimenti per me, invece. Io ho taciuto, sono rimasto zitto da un bel po’ di tempo, come avrai notato anche se hai fatto finta di non aver notato nulla per cui continui a parlare, per negare un cambiamento. Per non fregare nessuno taccio da tempo. Per non fregare soprattutto, precisamente, nessuno di quelli che amo. Per questo fine cerco la forma del silenzio. Non so come altro dire di quanto è alla fonte del silenzio degli ultimi tempi. Degli ultimi anni. Ho scritto certe pagine perché cerco una cosa per giustificare di non dir niente di oggettivo quando parlo. Così, scrivendo, so che faccio il mio compito preciso preciso come più di cinquanta anni fa, cinquantacinque anni fa, al tavolo di cucina di fronte alla porta finestra della piccola unica terrazza, e con le spalle alla parete dove c’era la porta verso il corridoio e, appoggiata al muro di fianco alla porta, la macchina da cucire con il mobile di mogano che stonava con lo stile dei mobili di formica e acciaio del resto della cucina. Crescevo durante parecchie ore là. Crescevo studiando nella cucina. E alternando allo studio la merenda col vino schizzato sulle fette di pane bagnato con lo zucchero.

Crescevo studiando con fermezza contro la tentazione furiosa del rumore dei ragazzi nel prato subito sotto la terrazza e, alle spalle, mi consolavo con il muro caldo: il tepore che aveva perché dava sulla parte delle camere e del corridoio ben protetto dal freddo, chiuso al cuore della casa, senza finestre, che poi portava alle camere piccine piccine dove non entrava neanche una scrivania. Aveva, quel corridoio/cuore, la porta principale dalla quale potevo uscire appena finito di leggere e scrivere. Crescevo sapendo che non ci si mette in cammino se non a cose fatte. Che non è divertente per davvero (così si diceva) giocare, se non hai fatto quello che devi fare. Che è furbizia che si paga, dopo. Anche molto dopo. Taccio perché non so spiegare come era ma io lo sapevo che certe cose vanno fatte subito. Che bisognava non perdere tempo. Dopo, ma questo non lo sapevo ancora, quasi sempre devi combattere contro quelli che invece hanno perso tempo, che sono invidiosi, e non ti perdonano del tempo che non hai sciupato e per questo vogliono fartelo sciupare adesso, il tempo migliore che hai, il tempo che è la risultante del tempo che non hai perduto, che sarebbe tempo della gioia della propria identità.

Ma lasciamo perdere questi ricordi. Dunque tu continui a parlare per farmi credere che hai interesse. Io da tempo me ne sto in silenzio perché io non ho nessun interesse per la maggior parte delle parole e per la maggior parte delle persone. Le rispetto, ma non suscitano in me alcun interesse. Forse allora dire che le rispetto è solo una forma verbale nell’illusione di non escludermi, con queste affermazioni troppo radicali, da una speranza di essere un poco capito. Ma è inutile: so da me che certe speranze sono una vera e propria forma di conformismo, come se davvero essere radicali fosse essere ‘eccessivi’. Come se il mondo fosse possibile prenderlo con una radicalità inferiore. Che non è vero. Il silenzio corrisponde proprio a spingermi avanti senza incertezze. E’ un aspetto diciamo rivoluzionario nell’ordine del discorso. E’ un silenzio di chi la sa lunga. Un silenzio in cui echeggiano i pomeriggi quando studiavo con il viso verso la finestra, e le spalle alla parete che dava sul corridoio, e le mani di ragazzino abili a scrivere sui quaderni con la penna ad inchiostro zuppata nel calamaio. C’era già tutto questo oggi. Riconoscersi nei propri ricordi è la felicità. La sicurezza che era questo il famoso futuro che si voleva, questo essere capaci, avere una storia convincente che permette di tacere una volta per tutte. Che permette di non fare, non solo dunque di tacere e basta. Anche non fare di adesso, rifiutarsi di fare qualsiasi cosa è adesso come un gesto rivoluzionario irreversibile. Un gesto che genera una rivoluzione. Non avere bisogno di replicare, non entrare in scontri dialettici, non accanirsi a persuadere, non essere -a causa di certe insistenze- petulanti.

Chi ascolta il silenzio ha sempre nella mente dei sospetti delle incertezze o addirittura una vera e propria confusione, se tacere sia per non aver niente da dire o sia rifiutarsi di dire qualsiasi cosa per vari motivi. Questo è perché quasi nessuno centra la comprensione sul movimento mentale corrispondente al silenzio e al non fare nulla. Al non parlare più e al non fare nulla oltre quanto si è già fatto e detto con grande evidenza. Io invece, al contrario, ho centrato tutto l’amore (ho puntato posso dire) sulla comprensione di questa posizione di silenzio e di quiete quasi immobile. Ho centrato l’amore su una posizione che si sostiene su motivi vari non meglio precisati, che sono il modo come si è usato il tempo. E ho centrato l’amore su una sicurezza che è per certuni evidente: che il modo come si è usato il tempo -che porta il silenzio e la quasi immobilità dove si sente solo il calore della pelle e il battere del cuore- prelude ad una speciale identità di non fallimento, di non sconfitta. Ho centrato l’amore sulla comprensibilità di motivi vari alla base del rifiuto e su quella comprensibilità ho cercato l’amore. Una volta che avevo centrato l’amore medesimo nel modo di pensare una immagine -nascosta nella affermazione dell’esistenza di motivi diversi, numerosi, che chiamo i motivi più vari- poi lì in quel centro ho anche cercato l’amore. Ho centrato e cercato, nella potenza del rifiuto di parlarti per spiegare che non mi ami, e anche nella fine delle corse verso casa tua in ore strane, la conoscenza atomica delle cose.

La conoscenza atomica delle cose è una frase sottratta ad un mistico orientale. Rende bene l’idea che mantengo che la conoscenza è una realtà fisica. Da certe frasi si capisce come il linguaggio verbale possa allontanarsi, e quanto lontano possa arrivare dai pianeti e dai sistemi solari o anche dalle galassie dell’ignoranza. Il silenzio diffuso, e il restare qui a scrivere lontano, fisicamente lontano e distratto otto metri sopra il piano della strada -una strada diversa che non è più la stessa di quando avevo cominciato– dice la modalità attuale dei legami tra gli atomi componenti le molecole in gioco nella mia chimica cerebrale. Il modo attuale non è riducibile esclusivamente agli atomi delle molecole che determinano legami nella biologia del tessuto nervoso: è al contrario, voglio dire nel verso opposto a quello riduzionistico, espressione e manifestazione di una condizione psicologica, di uno stato (irreversibile) della mente, raggiunto ora, dopo cinquantacinque anni -cinquantasei- da quando facevo i compiti di prima elementare.

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firma digitale


Posted By on Nov 11, 2012

La prima risposta di fronte all’enormità di certe cose è il silenzio. La tristezza è un pilastro del pensiero. O dell’umanità. Non si pensi una tristezza malata. Solo quella dei cieli dei quadri. Magritte Chagall Carrà. La pittura è silenziosa. Il silenzio dei cieli dipinti è la tristezza. Un pilastro. Il pensiero si forma nel cielo perché non si sente il rumore della anatomia cerebrale che occupa lo spazio. I sogni sono il rumore. Il pennino degli encefalografi è il profumo delle immagini non coscienti. Il lavoro azzurro e nero dell’inchiostro è la grafica del silenzio. Gli artefatti radiografici sono la tristezza della rilevanza scientifica del cuore.

 

Il nocciolo delle domande è il pilastro grigio della riflessione notturna sul destino di una domanda di grazia, una petizione, una richiesta di amore, di una concessione mineraria, dell’ offerta d’affitto di un fondo di terra da lavorare. Il mondo è traversato di silenzio. L’etere del cielo nella pittura può essere squillante azzurro rinascimentale ma è falso, in quel modo. Il cielo vero, il cielo moderno, dopo gli eccessi espressivi, è complesso e indescrivibile, è metafisico, è terra rovesciata invisibile. Il pensiero vero -prima che si capovolga nel linguaggio del pensiero cosciente e dei modi consapevoli di agire- è cielo acceso di febbre. La carne del corpo delle figure è un riflesso dei pilastri.

 

I pilastri sono tristezza e distesa opaca dei cieli dipinti. Ma non è malattia: prendiamo la ragazzina triste incastonata invisibile nel silenzio aereo e portiamola via, trasciniamola per mano in una piazza di Belfast e di Bogotà e di Città del Messico. Parola per parola si ritroveranno i giorni. I giorni non saranno allora più visti come rumorosi numeri in successione. Dopo il loro ritrovamento, i giorni sono sfondi di cielo dipinto, carne di corpi umani riflessa in chiarore, pilastri, colonne portanti in numero di due e più. Oggetti consistenti: coesistenti.
Le colonne affondano in alto viste da qui per l’inversione logica che crede di avere la conoscenza del mondo attraverso giustificazioni retroattive. Ma si capisce che possiamo solo portare la fisiologia nella storia non viceversa. Scopriremo del mondo solo quanto preordinatamente saremo e da sempre siamo stati in grado di concepire. La libertà ha ambiti già stabiliti. Si estende fino alla periferia di noi: dal cuore, alle costellazioni notturne della vita mentale del sonno.

Poi disegnamo tele e affreschi per fare il cielo, per esclamare l’umanità. Per definire l’intensità dei nostri confini. La tristezza dei cieli colorati nel miglior modo possibile è una misura dell’onestà scientifica. La misura dell’onestà della verità della voglia di fughe e di musica. Nel cielo c’è la stessa consistenza del silenzio che avviluppa la nostra vita immaginifica, entro cui si sviluppa la riflessione di noi. Il cielo, silenzioso com’è, è uno squarcio nella continuità storica. È consistente e denso come un masso di terra. È luogo di campi energetici: la luce, fai conto.

La discontinuità del cielo è fantastica: il taglio nelle tele di Fontana, un Urlo, l’immagine della Scoperta. Una nascita, cielo e silenzio, tristezza e onestà, sfondo e taglio e margini affilati. La traccia scura dello zero, cioè tra le altre cose il pensiero che si distribuisce con l’inchiostro nel definire linee illusorie di rumore attribuite alla inesistenza di qualcosa che, altrimenti dal nostro tracciare il cerchio sulla pagina, potrebbe anche essere.

Contro lo zero ecco dunque il grande grigio-azzurro nella parte alta degli sfondi di affreschi e dipinti ad olio. I cieli sono vie di fuga, spiagge nostalgiche: hanno la tristezza delle promesse di una terra di vacanza. Il silenzio di te che sorridi. E non prometti il benessere definitivo di una storia esclusa dalla natura umana, non la quiete esultante platonica o neo-platonica. Sorridi ‘definitivamente’, tu. Differente da tutto. La pretesa del desiderio. La tristezza della conoscenza che non si può eludere. La concretezza dell’amore: che vaga senza fine ma entro limiti umani. Non naturali.

Mi sono inventato la mia firma digitale contro e in opposizione al cerchietto di inchiostro dello zero muto. Essa, la firma digitale  è una impronta, meglio sono alcuni cerchietti ovali di impronte digitali invisibili lasciate da te sul bicchiere e sul pacchetto blu Di sigarette. Noi conosciamo solo il nostro mondo umano, quella meravigliosa opera che deriva dal traboccare del silenzio della mente sul chiasso di mille forme naturali. Noi siamo il pilastro grigio e azzurro indicibile.

Io sono l’altoparlante che gracchia le parole che leggo nei tuoi movimenti. Fitzcarraldo che trasporta le navi oltre le montagne. Solo per sfuggire la natura tristemente geniale della creazione delle parole dal cielo della materia. Ma la tristezza dell’identità e dell’intelligenza, che portano inevitabile la solitudine conseguente al rifiuto, si fermano nella necessità della scienza degli affetti, perché ho bisogno di te, perché le colonne devono essere due, e più….

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