assistenti di spiaggia


IL REALISMO LIRICO DI CARLO CARRA

IL REALISMO LIRICO DI CARLO CARRÀ

La donna si era alzata, alla fine, lasciando sul tavolo il foglietto bianco che aveva piegato lungo una linea mediana precisa. Ho aspettato. Il tremore è l’idea alla base del pensiero mentre aspettavo. Il tremore sosteneva l’attesa. Il comportamento dell’attesa era di restare quasi immobile in una riproposizione di lavoro ripetuto, di impegno continuato, continuando  a guardare via via se qualcuno torna a riprendere il foglio lasciato sul piano tondo che circonda l’ombrellone.

Ho sempre avuto quel tremore di fondo. In ogni occasione in cui il movimento muscolare rallenta o si ferma per lasciare il posto al sonno o al pensiero riflessivo. Io. Tremore è la mia idea dell’attività  del pensiero, come posso concepire, sia esso ideazione di affetto o emozione. Esistenza. Tremore e chiarezza del proprio tremore. Piccole onde che fanno un tempo interminabile. Tutto intorno un universo indescrivibile nei particolari ma sufficientemente quieto che vi si possa cogliere la minima propagazione. Increspature.

L’incosciente ritmo del respiro e i frangenti delle sue increspature e poi la coscienza che chiarisce la linea di un pensiero preciso, come è stamani. L’attesa non si interrompe mai. Sul precedente tremore, da un punto differente, un’eccitazione ulteriore semina altri piccoli sassolini e il quieto universo di noi diventa una trama. Aspettiamo, figurandoci la cosa, una flessione impercettibile del busto della nostra vicina durante lo svolgersi della proiezione cinematografica, o uno sguardo di intesa durante l’opera o il concerto. Aspettiamo un segno di accoglimento in società mentre osserviamo le cattedrali di bignè allestite dai pasticceri nel bar delle capitali. Aspettiamo qualcosa vibrando nella piazza dei paesi che sono capitali minori di ogni valle e di ogni valico. Aspettiamo durante i lunghi spostamenti nei viaggi di turismo e di emigrazione. Non è aspettare perché si sia realizzato che esiste fuori una cosa desiderabile. La trama dell’attesa riguarda forme di cose intime. È un ‘sarebbe bello che tu ti piegassi appena in qua come un albero mosso dal vento’.

È, il tremore, un sentimento dell’azione. Non è una attività utile, da cui ottenere risultati misurabili. È fisiologia che presiede senza possedere figure di potere. Genera trame di pensiero sulla superficie di una voluminosa distesa. Si ripetono le cose di sempre. Ma ciò che tiene la mente lontana dalla pazzia durante il riposo o nella coazione di movimenti del dovere è una trama di increspature che scuotono la superficie di masse voluminose di attività psicologiche silenti e coesistenti.

Giorno dopo giorno la creazione di successive modulazioni di tali tremanti silenzi amplia i margini delle rappresentazioni del possibile e la libertà di pensiero. Torno ogni volta a vedere se qualcuno ha preso il foglio lasciato alla spiaggia dalla bagnante distratta. Il foglio bianco resta là, sotto la pietra bianca che la donna aveva messa a guardia. Potrei prenderlo ogni volta. Ma non l’ho mai fatto. Invece ogni giorno comprendo meglio una delle funzioni del mio tremore: esso aumenta con la vicinanza a oggetti che io ritengo significativi. Essi diventano nuclei gravitazionali in un universo di sensibilità reticolari.

Sono un addetto alla spiaggia e un rabdomante. Il tremore, alla cui natura posso dedicarmi in queste giornate fintamente oziose, riguarda la natura fisica delle azioni conoscitive in assenza di rapporto materiale con l’oggetto. Ho pensato ai radiotelescopi, a quello di Hubble, il più potente, che vede più lontano degli altri nello spazio e cioè più indietro di ogni altro nel tempo. Quando arriverà, un telescopio migliore, che veda più lontano, l’umanità saprà perdere la vista fisica per sapere quello che c’è da sapere sulla natura della realtà?

Sposto materiale, sistemo mucchi di sabbia da un punto all’altro, vernicio, ristrutturo corde e finimenti di cabine, riattivo la potenza e l’elasticità di molle e congegni di porte e tiranti delle vele di canapa per le scenografie estive… E intanto, sentendo addosso la forza del vento mi dico “il tempo è diffuso nell’aria, inesteso, è tuttavia un sicuro punto di appoggio di acrobati saltimbanchi ed equilibristi.” Quegli equilibristi che camminano sul filo trai grattacieli sorridendo: mentre il tremore invisibile, della tensione che si origina tra la punta del piede e la corda di acciaio ritorto, sale a inondare e rendere elastico il corpo intero.

E il corpo lassù è sicuro nelle maglie della trama della ricerca di base che scarica tutte le forze in gioco, lungo i filamenti della rete di sensibilità, giu fino ai fondamenti al suolo. La base della ricerca, un reticolo orizzontale di cose che non servono a niente uguali a questi mucchi di sabbia su cui mi arrampico o scivolo. Per un accidente, una visione non a me destinata, ho ricevuto la donazione del foglio sotto un fermacarte occasionale, una pietra chiara.

È la donazione di una cosa che addensa spazio in un punto vicino a me. Affinché, viene da dire, io possa misurare le dimensioni e le forme della mia pazienza. E durante quella misurazione, trovare confidenza con la solitudine degli assistenti di spiaggia fuori della stagione estiva. Io penso al vento delle invasioni barbariche, alle sfuriate di creme abbronzanti, al suono delle canzoni dell’anno prossimo. Ancora un poco e la donna tornerà a prendere quanto aveva lasciato.

È bene che io abbia rinunciato a spiegare il foglio per leggerne il contenuto. L’attesa ha creato un tempo non sottomesso alla passività della speranza in chissà chi o che cosa.

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