barche


un amore impossibile


Posted By on Gen 12, 2012

il linguaggio si ha per sempre appena lo si ha – nessuno certifica l’acquisizione delle parole per tutto – della condizione nuova dopo l’assenza precedente – comunque poi si riuscirà col linguaggio acquisito a sciogliere il vincolo, la corrispondenza biunivoca tra parole e fatti – ‘cavalcano pesante i signori della libertà dalle lacrime sulla mia terra’ – devo valutare i valori – attribuirli con dei cartellini – designare in modi differenti tutte le volte – arrivare in profondità, se possibile – indicare i componenti linguistici mutati – grazie alla sensibilità – devo approfondire come si fa ad aumentare la sensibilità umana durante lo sviluppo di una professione di terapia – tenere presente l’identità necessaria – far notare che, bene o male, una identità è annidata persino nei paragrafi delle costituzioni dei paesi dopo le pacificazioni.

insomma devo lavorare nello stesso modo come si tiene presente l’esattezza delle proporzioni quando si misura una casa – devo pretendere di ‘spiaccicarmi ai corpi con le mani di crema’ – raccontare che ‘ho scoperto le donne col corpo addensato dalle scadenze dei ricatti di usura mese dopo mese’ – riferire con precisione ciò che esse dicono da molto vicino – che ‘parlare non è volere ragione‘ – quando riferiscono, perché io a mia volta ne riferisca, dei ‘signori dalla cavalcata pesante‘ – ‘le cui scorribande si possono deflettere mediante l’addensamento del fuoco‘ –  devo narrare come io provi ad aggiungere  ‘col ballare quando serve‘ – e di come loro mi rispondano ‘con l’intendersi quanto è reso indispensabile‘ – per correggermi, penso .

 il mio lavoro?: pulire la tastiera – poi via – non c’è la libertà nel senso di un enorme spazio di fronte agli occhi – semmai camminamenti – l’esattezza delle proporzioni nel misurare qualsiasi cosa – non è lavoro come si è sempre inteso – neppure arte – c’é di mezzo una terapia medica santo cielo – sensibilità – non trovo altra definizione – sensibilità e differenze tra le persone – quando c’è la sensibilità non c’è la libertà – bisogna designare e indicaresegnare e indicare – niente a che fare con i disegni di figure – il linguaggio si ha tutto appena lo si ha – come la sensibilità che è implacabile in quanto è muta come un brivido – il mio lavoro è dire: ‘l’interpretazione non è una metafora‘ – dire: ‘il pensiero del sogno non è una metafora‘ – dire: ‘il non cosciente non è una metafora‘ – dire: ‘metà della nostra esistenza non è una metafora della sua parte restante‘.

il mio lavoro: dire quello che si presume non possa essere detto – dire: ‘ciò che si riteneva indicibile può essere detto‘ – aggiungere: ‘però forse se non era mai stato detto può essere che davvero non avesse la propria esistenza‘ – poi ci sono i sogni – sono una grande parte del mio lavoro – suonano i sogni ‘…cavalcavano pesante i signori della libertà dalle lacrime…’ – i sogni affermano  ‘essi cavalcano sulla vallata e la spiaggia senza scendere senza arrestarsi’ – ‘compongono trottando i signori e cavalieri‘ – ‘essi gridano di scrivere un intero libro per i suoi occhi‘ – altri sogni dicono ‘ogni ragazza spiaccica la crema sulle dita’ – ‘si profuma la pelle’ – ‘poi via’ – ‘spiaccicati’ – ‘spalmati senza un millimetro di distanza’ – ‘senza spazio per una lacrima o un esitazione’ – il mio lavoro?: interpretare – interpretare in questo caso è rispondere: ‘il linguaggio si ha una volta per sempre’ – ‘non si perde mai’.

le donne con il corpo addensato dalle scadenze mensili dei ricatti di usura fanno figli senza il certificato di nascita – li tengono comunque appiccicati a sé per i primi anni – per sicurezza di non doversi pentire in seguito – fanno nascite in paesi senza anagrafe – con i figli appiccicati spiaccicati a sé per i primi anni la sensibilità sviluppa in modo inspiegabile – e l’anagrafe si scrive sui cocci dei vasi di fiori – la madre ha le dita affusolate nel buio della terra trai semi – la sensibilità registra quello che resta – poi quello che manca e fa il tè – il mio lavoro è di far conto di quello che resta e di quello che manca – di quanto ‘non si sarebbe pensato’ – le parole che denotano e circoscrivono le assenze – il sonno alla fine di quello che si vuole finire – io riesco a restare di fronte al buco nella terra – sognando l’albero sradicato e portato lontano – poi voltarsi – sparire.

ti ho lasciato accanto al letto la foto di ieri – la fotografia della luce delle due che, mi sono detto ieri, ‘ha fatto finire tutto‘ – appena l’ho vista era già tutto finito, ieri alle due – ho pensato ‘è come l’orgasmo che viene su‘ – le parole designano la realtà delle cose – le cose, per come siamo capaci di pensarle, sono differenti dalla loro realtà materiale – esse sono percepite grazie agli stimoli che salgono per le vie afferenti dagli organi di senso – poi vengono trasformate dalla sensibilità, appena sono percepite sulla corteccia cerebrale – ti ho lasciato accanto al letto la foto della luce di ieri – l’orgasmo – il pensiero venuto alla luce – io che vedevo lo scorcio che ti ho lasciato nella foto – la natura non cosciente di quanto avveniva – la sensibilità di quello che manca – rivolto alla natura bellissima della visione – con un brivido che nasceva da dentro, dal contenuto non cosciente della mente – io ho pensato che mancavi tu.

ho segnato in terra la spirale – ho lasciato intatta la natura non cosciente del pensiero mentre era tutto finito già alle due di ieri – per lasciare intatta la natura non cosciente del pensiero di ieri ho fatto una spirale – ho fatto la scala a chiocciola disegnata dagli architetti in amore – la scala a chiocciola da scendere nell’allattare – l’orgasmo della luce alla nascita – le donne con i ragazzini spiaccicati addosso perché ‘non si sa mai’ – per non avere pentimenti – il linguaggio che si ha intero appena lo si ha – ‘dev’essere la traccia delle poppate felici ‘ – penso – quando si vince l’oscurantismo: ‘io non sono mai stato amato‘ – e si scopre che ‘non è vero‘ – l’orgasmo sale ancora una volta – le dita sulla maniglia della porta – non c’è spazio per una lacrima – affermare cose sulla vallata e la spiaggia – poi via – senza smontare da cavallo – senza arrestarsi.

la natura non cosciente del pensiero porta l’attività cosciente del linguaggio verbale ad affermare che: ‘di fronte alla percezione della bellezza della natura, gli esseri umani sani non realizzano l’esistenza di dio, ma l’esistenza dell’altro essere umano’ – ‘implicita in un sentimento (notissimo ai più) di nostalgica mancanza’.

è la realtà del sogno ricorrente di un amore ‘impossibile’.

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i lieti calici


Posted By on Dic 24, 2011

i lieti calici

il pensiero al risveglio, il ricordo irritante e implacabile di un sogno d’amore, dice:  “l’identità è la storia della felicità e l’ io un mare blu scuro traversato dalle petroliere”.

io per conto mio, ormai del tutto sveglio, aggiungo: “l’io l’identità il pensiero il mare e l’amore hanno nei loro tratti costitutivi la natura fatale del tempo”.

solo l’amore fa le dicotomie a partire da una felicità. le cose umane sono blocchi solidi di esperienze. ma una strada di grande comunicazione quasi sempre divide il paese in fazioni nemiche.

la perdita della coscienza della capacità di dormire, e la coscienza di ricordi implacabili delle cose sognate al risveglio, sono l’oggetto della indagine scientifica svolta con metodo per trenta anni.

l’idea del sonno è di una nave che si sposta su un onda musicale e inizia e si conclude con la risata di un neonato. vuol dire l’immagine del gelato che d’estate si rovescia ridendo sulla camicia immacolata. era dieci anni fa.

il sonno in questo anno si è sfarinato sotto l’azione psichica della scrittura e adesso mi nevica sulla testa facendo uno strano natale sul mare. questa neve ripara le dicotomie di cui sopra. vuole dire la cura dell’angoscia con atti ripetuti di restituzione.

questo sonno di neve immagino sia il sonno di pochi minuti alla volta delle transoceaniche in solitaria. quello di chi alterna i sogni e le previsioni del tempo atmosferico all’orizzonte per la propria sopravvivenza fisica senza la follia.

mi domando se l’azione psichica della scrittura abbia evitato la pedanteria della scuola di pensiero. perché la natura soggettiva delle scoperte scientifiche pretende una estetica della disciplina. dove la bellezza corrisponde alla giustizia della spartizione dei colori all’orizzonte.

la possibilità del sonno è ricordare capacità per lo stimolo dell’assenza di luce. il buio genera la passione fugace della coscienza di cadere. i brevissimi periodi di sonno di quei pazzi sulle barche filanti sono fisiologia differente. come una scoperta.

fila veloce la discussione della tesi su la nascita del pensiero per stimolazione della luce sulla materia. qualcuno prepara la stanza per l’arrivo. una formalità felice afferma che “i vincitori si immaginano per sè la consolazione al posto della morte”.

è una navigazione costante perché questo tipo di mare è in realtà il modo dell’infinito. è perché nella tua mano sul lenzuolo giallo mi parve di vedere il coraggio di un tuo convincimento. che l’universo potesse essere una immensa risorsa di lacrime.

senza volere ricamavi il cuscino per la notte di natale. a certe piccole cose – che mi parve fossero evidenti solo a me – sono sempre rimasto fedele. ed è la certezza di quelle immagini che permette questi sogni brevi che fanno la mia vita diversa. letteralmente.

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oche


Posted By on Ott 21, 2011

Musica struggente (*). La trasformazione di un pensiero in una voce che si armonizza  alla potenza di strumenti che imprimono all’aria una forma acustica.  La mattina non dà tregua, nell’orto le oche confuse per un imprinting sciaguratamente interspecifico mi beccano i talloni. Continuo a inseguire la grande creatura di un idea di donna che restituisca la quiete e a mia volta  infastidisco con domande alla sua gonna ondeggiante il nuoto sognante della grande regina del fango. Il sonno da me si paga in scaglie d’oro che vengono pesate il giorno dopo e remunerate solo se è  il caso. Il sogno viene donato come ricordo proprio per questo accordo di sfiducia tra i dominanti e noi. Non è concessa una dimensione di tempo regalato in anticipo e noi di fatto non facciamo altro che aspettare e ricordare. Le crepe fonde tra noi e il tempo  vengono arredate con l’arte del disastro e con strane posture impresse alle statue di marmo disegnate sugli abissi e dette capolavori. Ritratte sulle carte atlantiche servono a definire i percorsi secondo gradi differenti di terrore: mostri e sirene si spartiscono il mare. Per una disamina scientifica sistematica di tutte quelle creature l’amore scava una rete di gallerie d’arte sotto i nostri piedi e  la terra molle spinge in alto l’inquietudine che si amplifica e ci costringe a tutto quanto altrimenti non sapremmo volere fino al progetto delle astronavi. Si mette dentro una scimmietta e si sospinge tutto in alto e lontano per avere la scusa di distruggere l’eternità con un gesto decisivo. I gesti decisivi sono istantanee deludenti sempre. Così tra le oche dell’ansa del fiume dietro casa ho inventato trappole per conferire sfumature alle fotografie per contrastare tutta quella morte, tutta quella pasta di mandorle che è la Pasqua senza resurrezioni. Sono forme di lotta rifiuto le grida i canti i cori le precipitazioni: cadimi addosso è il cigolio che il clinico attento specialista di traumi sportivi ascolta alla flessione dolorosa del ginocchio colpito della seconda punta dell’Arsenal. Gli ricorda la fragilità della potenza della Quinta della Nona della Prima e la calma della superficie d’acciaio delle Fughe e fischiettando sorride a quel prezioso pezzo d’uomo che è, sarebbe, se lo volesse, una montagna di tempi differenti: una sinfonia e uno scherzo, spaziando sui campi di calcio con la leggera noncuranza di un aquilone.

Gli strumenti hanno la potenza di imprimere all’aria forma di musica. Come l’assenza di te crea l’immagine e fa il movimento del pensiero che diventa immediatamente scrittura e genera la coscienza prima che essa possa aver realizzato un giudizioso controllo a proposito delle conclusioni cui arriveremo nel palazzo delle parole, su di noi che scriviamo, che in verità sono solo io a scrivere, per arredare la grande frattura tettonica che si è stabilita alla generazione di una vita umana tra la vita biologica e il tempo della realtà psichica.

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le macerie delle onde oceaniche


Posted By on Lug 11, 2011

le macerie delle onde oceaniche

Musica di clarinetti atlantici prima di doppiare il promontorio. Cerco un al di qua, un paesaggio praticato. La nave deve avere il parapetto del ponte di prua stabile, vernice azzurra sul manufatto di acciaio che sarà opportunamente assicurato al tek del piano con dadi e bulloni grandi e squadrati: torniti e affilati da specialisti. So che tutto questo è possibile e cerco sul mare delle scoperte. Si arriva dovunque scendendo da Gibilterra. La discesa per i giardini a piani successivi ampiamente arcuati attorno all’asse della terra fa perdere la testa e l’orientamento e porta all’Africa o all’America del sud. Per me resta d’essere un narratore del rientro in me stesso, una specie di raccoglitore di alghe -al margine tra la tempesta del disordine malato e la quiete delle guarigioni. Io rimango a lungo tra le grida dei trichechi, tra onde dai colori acidi e lucidi a tracciare la mappa linguistica delle spiagge di marea. Metodo: prima lasciare che sia completata l’evaporazione delle acque, la sublimazione dell’arca pietrosa sulla vetta, il consentire programmatico, la pigrizia chimica, i cristalli di sale, i miracoli ottici del bianco assoluto, il bianco assoluto. La musica delle coste dell’Europa mediterranea mantiene una sua composta aristocrazia. Oltre Gibilterra -se si sale – altro che Caraibi !! si va al grigio piombo pragmatico. La musica delle coste atlantiche d’Europa e d’America fa il pensiero vasto e auspicabile. La musica della traversata svolge il rammendo tra realtà e materia: la fisica dell’affetto così ben evocata dai jazzisti allampanati, dagli sguardi sulle onde, dal ponte di prua con il parapetto azzurro, dalle lenzuola di cotone grezzo con i disegni all’inchiostro di china. Il pensiero del suono di improvvisazione compone nuvole alte: poi, regolarmente, viene giù il cielo e ci troviamo fradici, seduti nei bar di fronte al tè con l’uvetta nei bicchieri piccoli arroventati di vapore con la menta, in genere un manico di metallo attorno al vetro trasparente. La cultura araba diffonde la luce dovunque: avendo sviluppato la grazia della scimitarra affilata curva sghemba dal taglio ineccepibile, un’ arma – voglio dire – con la forma del sorriso che posso fantasticare anticipazione squillante della musica lirica e  dei fiati rivoluzionari mozartiani. Percorrere le coste occidentali  dell’America del nord, traverso l’atlantico verso occidente trovo le coste del mare del nord d’ Europa, scendo al mare di verde smeraldo portoghese dopo il mare del colore delle ali di aeroplano del Regno Unito, poi cado addosso al colore verticale dell’Atlantico francese. Le coste mediterranee di Spagna e dell’Africa invece hanno il colore dei soffitti degli attici di Parigi, Madrid, Malta: per via che l’Europa mediterranea è quasi per intero una Facoltà Universitaria per la formazione di arredatori, architetti di urbanistica, clarinettisti, sarti di tendaggi per terrazze e padiglioni delle feste, e arredatori di piatti di molluschi crudi per la cena delle otto e mezzo- subito prima del teatro all’aperto-. Se ho pensato che fosse irredimibile la scimitarra, penso subito ad estendere quella qualità a quanto si associa, nel pensiero, all’arma curva, al sorriso tagliente e al tuo sapiente profilo: irredimibili, dunque, la cicatrice che origina dal taglio del filo sottile, l’origine delle cose nel tempo che trascorre, la fondazione esplosiva del tempo medesimo, le lame d’aria attorno al profilo di noi ad aspettare un bicchiere di vino. Il silenzio alla fine dei drammi di Ibsen – da questa parte del mondo – è anch’esso senza tregua e senza redenzione. Questo pensiero accentua l’eleganza algida dell’imperdonabile, la grazia ferrea del grigio dell’atlantico nel suo centro più lontano dalle coste. La non redimibilità – di fatto – dà alle cose un tocco di definitiva perfezione, le tinge con un carboncino assai grasso, con tracce di impronte, con rintocchi di materia colorata, le invita a tornare al di qua della curva eleganza delle incisioni dei chirurghi, al di qua dell’omicidio, sul filo del bisturi e della cannula per il salasso. Sul mare si dispongono portentose porte di pietra e cristallo per segnalare le soglie dell’impetuosa sospensione delle vite dei musicisti, costituite da inarrestabili onde di indecisione. Mentre i tamburi proiettano addosso alle mura delle città di costa il rombo d’aria delle pelli tirate, io disegno, nella grafia della lingua italiana, le tracce di una attitudine alla comprensione non cospiratoria.  Mi immagino che essa sia, con la stessa fantasiosa complessità ingenua del Castello errante di Howl, l’impressionante realtà di una psicologia sottile ed abile dei terapeuti. Sarebbe, se esistesse -ma questo si deve ancora acquisire- un costituente indispensabile della mentalità più genericamente medica, per studiare ulteriori vie di accesso ai segreti della materia, per scoprire le non ancora note e forse ancora impensabili condizioni fisiche della degenerazione e della guarigione. Mentre scrivo suona nelle orecchie il Clarinetto Atlantico e poi il Quartetto dei Clarinetti, la cui suadente persuasiva dissonanza mi colpisce con l’idea di essere in presenza dell’ultimo dei soldati che erano andati alla guerra, ora guarito e abbracciato al fratello ritrovato in questa musica.

Stanotte, nella festa, la musica non è che le giubilanti macerie delle onde oceaniche. È questo che anche noi siamo.

(il cartoon cui fa riferimento la figura dell’articolo: qui)

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forma di passione


Posted By on Mag 18, 2011

forma di passione

Spettatore restando quasi immobile inchiodato alla poltrona di fronte allo schermo i suoni vivi del canto di ragazza con l’uomo che corregge amorevole una ingenuità d’amore che non sta nella promessa definitiva che vuole ancora di più senza che sia la bramosia d’un accumulo solo la graziosa lucidità d’un chiarimento ci sono archi azzurri alle spalle dei due che rifulgono di giallo e pesca caldo nel cuore delle figure davvero rifulgono perché così si era impressionata oltre la lente lucida degli obiettivi a cannocchiale la superficie verticale dove riponemmo la fiducia nella registrazione del ricordo intanto stupirmi delle poche cose indispensabili una posizione reciproca una dedizione affettuosa una educazione al canto che è quando la nostra voce dovrà far fronte all’impertinenza di salire di qualche tono e una vicinanza per lati dei corpi un non affrontare di petto ma obliquamente e alla fine io permettermi di alterare il fermo immagine in cui ero quasi senza respiro per non perdermi neanche una parola sorridendo e scuotendo il capo quando realizzo qui che la saggezza è obliqua senza compromessi che i due fanno un angolo penso ‘quasi novanta gradi’ per scambiarsi ricette indispensabili negli anni futuri a tutti coloro che dovranno cucinare triglie guizzate sulla barca mais tuberi dissodati a mani nude giusto per arrivare al fuoco con gli altri la sera ed esprimere pubblicamente la pretesa :

– ” Io te vurrìa vasa’ ” sospira la canzone, ma prima e più di questo io ti vorrei bastare, io te vurrìa abbasta’, come la gola al canto, come il coltello al pane, come la fede al santo io ti vorrei bastare. E nessun altro abbraccio, potessi tu cercare, in nessun altro odore addormentare, io ti vorrei bastare, io te vurrìa abbasta’. ” Io te vurrìa vasa’ ” insiste la canzone, ma un pò meno di questo, io ti vorrei mancare, io te vurrìa manca’, più del fiato in salita, più di neve a Natale, di benda su ferita, più di farina e sale. E nessun altro abbraccio, potessi tu cercare, in nessun altro odore addormentare, io ti vorrei mancare, io te vurrìa mancà. – ( Erri De Luca )

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non lasciarmi


Posted By on Apr 21, 2011

non lasciarmi

“Ciò di cui non sono sicura è se le nostre vite sono così diverse da quelle delle persone che salviamo. Siamo tutti completi. Forse nessuno di noi capisce realmente ciò che abbiamo passato o sente che abbiamo avuto abbastanza tempo.” (‘ Non Lasciarmi ‘ di Mark Romanek – basato su un racconto di Kazuko Ishiguro)

Potrei lasciare solo questo perché il resto, il prima, è una possibilità offerta per arrivare almeno a questo. Potrei lasciare questo, e potrei smetterla di dannarmi le giornate e gli anni, perché ho capito che è proprio vero che ciò che diciamo, che ci riguarda di più, che è ciò che intimamente noi siamo – e che è pochissimo, in spazi inesistenti solo pensati, in tempi brevissimi seppure perduranti – dunque so benissimo che è vero che solo chi già è stato capace di pensare in quei termini può capirlo. Noi siamo solo ciò che altri sono già stati capaci di pensare in ordine ad una condizione plausibile di esistenza: si tratta, per me, di puro materialismo e di fare i conti con l’amore e la passione e il desiderio comuni. Puro materialismo vuol dire materialismo aumentato da una medicina che scopre il legame della derivazione del pensiero dalla biologia, ma in termini romantici, cioè in modi in cui manca una specularità ed una corrispondenza biunivoca. Allora io vivo la gioia di essere riconosciuto dall’altro per via che c’è una anticipazione, e l’altro s’é venuto a trovare là quasi per me, dico sebbene sia vero che in realtà io ho scavato con le unghie, per decenni, e poi è apparso e mi è sembrato riconoscibile, riconducibile ad un modo di esistere ben noto, ma dovessi dire, viceversa, che sapevo quale strada prendere e quale campo attraversare e quale carcassa di nave osservare accuratamente per trovarmi a quell’appuntamento, non potrei farlo. Aggiungo, per un solo secondo, che io addirittura sono proprio definito da ciò che mi manca per raggiungere una comprensione di come si fa. Io sono tutto ciò che mi manca per fornire le prove di me, in quell’assenza di ragioni, assai più di quanto, di me, ci sia nella certezza di trovarmi di fronte ad un miracolo di realtà umana, che mi si è appena configurata come realizzazione completa secondo un’immagine. Non c’è una ragionevole corrispondenza tra i mezzi e i fini e l’altro, che fa il miracolo per via di esserci, sa di me ciò che mi serve, sa esattamente di me quello che non so avere, che potrebbe essere che ci sia da amare in me, come attesa inesauribile, come accostamento ad una banchina di carenaggio appositamente costruita di mare e pietra per il brigantino dell’amore appassionato. Nel materialismo romantico le assenze diventano decise carezze, e sapienti avvicinamenti spudorati. Si sa che si deve parecchio insistere col sesso, in modo non allegorico o simbolico, bensì in forma di lettere scure sui fondi di carta di riso, e di incisioni su muri di milioni di piante addossate di papiro. Si deve insistere, per strappare al pensiero l’idea che tutti hanno della sua  sospettabile natura d’essere privo di materia. Per questo ci si inventano le parole staccandone il disegno dal papiro, appunto, dal bassorilievo e dalla pergamena, oppure dalla pittura murale, dai cunei sull’argilla. Leggiamo con gesti amorosi, pensando tutto ciò che c’è da pensare, per decifrare quanto scritto, ma anche contemporaneamente pensando ‘ …sei tu i cunei fatti con la sottile paletta di osso bianco liscio sei tu il conteggio dei sacchi di grano e il racconto delle battaglie vinte e la cifra suggerita per dire i nemici fatti servi portatori di macerie e tesori -la stessa cosa in fondo….’ Penso sempre il mondo e nello stesso momento penso anche ciò che sei, e per necessità di conoscenza scrivo in me il pensiero che poi posso segnare sulla carta, sotto forma di un disegno di tratti corrispondenti a gesti di arrendevolezza. La precarietà del pensiero, tutto quanto mi si fa incontro, la tua imprevedibile meteorologia, così come l’incomprensione quasi totale che ho maturato per le cose dello spirito, mi permettono di pensare il mondo e realizzare la gioia di una vita affettiva della quale è paradigma e scenario una decisiva attività di esistenza soggettiva, che mi porta alle foglie leggere, agli aerei nei grandi capannoni, alle barche restituite con la chiglia appoggiata alla spiaggia col mare lontano anche se non si sa mai, alle inquadrature di singoli volti o di figure secondarie quando sembra che la natura sia tutto, quando la natura piena lo schermo come a dire che noi siamo niente, anche se noi proprio siamo sicuri invece che non è vero che noi siamo niente al cospetto della natura e che anzi noi siamo tutto, quasi tutto, un tutto che ha esigenza della costanza di essere sempre ridefinito da ‘te’. Te spesso ti penso per rendermi legittimo questo cercare la cosa che lega la biologia rossa di sangue al vento impetuoso e incolore, le chiglie delle navi inclinate al senso della bellezza che deriva loro dalla loro distanza dalla linea di costa, l’idea di alcuni aerei di leggero fasciame di legno di nave quando stanno allineati e pronti in enormi costruzioni di cemento chiaro. Te, spesso -sempre- ti cerco, a tua insaputa, quando penso di cercare e anche di scoprire da dove deriva tutta quella possibilità di aggiungere continuamente elementi umani alle cose che stanno là fuori – cose costruite da noi o luoghi che abbiamo scelto. So che io spesso non sono altro che uno che cerca e pensa ed ha una vita psichica a tua insaputa e all’insaputa di tutti, e so che comunque noi esistiamo sempre un poco dietro le quinte delle nostre più appassionate storie, che poeticamente vorrei dire esistiamo in una estesa infinita linea di costa e penso che la bellezza della nostra esistenza sta nel riuscire a distendere su quella linea tutti i perché cui non siamo riusciti a trovare una patria, quel nostro essere un attimo in anticipo sulle nostre domande, tutto quell’essere sempre all’insaputa gli uni degli altri, e tutto quel chiamare amore la richiesta di perdono, che rivolgiamo gli uni agli altri, per non essere stati capaci di rinunciare a quel modo di stare al mondo, che proprio quando domanda si ritrae appena, quando quel nostro domandare assume i toni della pellicola che fissa per sempre – ma innocente perché è perché per sempre si possa ripeterne l’espressione impareggiabile – il volto dolcissimo di un adolescente, che è deciso ad aspettare tutto quello che ci sarà da aspettare…..

Per adesso direi che tu sei una grammatica ufficiosa in costante rilegittimazione sintattica che impone continuamente una nuova diversa idea di tempo e mi rende trascurabili gli atteggiamenti assertivi a proposito delle regole del mondo.

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