barricate


Definiamo la formazione cura dell’identificazione. Vuol dire che si dà per conclusa la ricerca su una prima terra inesplorata che la barricata l’abbiamo costruita. Abbiamo costruito una barricata lungo il sentiero nella foresta. Dove andremo. Tra ritmi latini e lo studio della forma sonata. Suonando e ascoltando e fischiettando per far passare il terrore della noia e sognando fotografie romantiche in bianco e nero e riflettendo sulla fisiologia della retina e su quello che, solo dopo la nascita, viene fuori anche dalle vibrazioni improvvise sul timpano.

La formazione nella lettura dei dati scientifici. Lo stimolo è il luogo fisico della nascita. Lo stimolo luminoso sulla retina è il luogo fisico di origine della perturbazione della materia del tessuto cerebrale periferico dei coni e bastoncelli depositati al fondo dell’occhio. E’ la barricata sul sentiero. Noi con le nostre cerbottane, con flauti oboe e clarinetto completamente armati. Strambe derive di scimmia con legni ben disegnati. L’oboe e le navi. Il flauto e la pirateria. La barricata è la nascita che spreca il buon senso e per la vita del pensiero determina la distruzione dei salotti e il disinteresse.

Lo spreco costruisce e viene incontro ai fratelli. Non si sa mai. Le scatole stanno addossate al muro. La stanza per il resto è vuota e luminosa. Il pensiero, una biblioteca, le mattine quando il sasso non ricade sulla testa di mia madre né dei miei figli, io sono solo con il destino del tavolo dei caffè non avendo che l’imbarazzo della scelta. La formazione va altrove. Sale. Fa l’utopia perché sfugge alla vista. Portata via nella schiuma del cappuccino.

Se pensiamo alla nascita che sia la divisione tra prima e dopo noi stiamo dopo. Prima non c’eravamo. C’era l’esistenza della realtà materiale del corpo. Prima c’era la realtà materiale del corpo. La realtà fisica di una speciale conformazione della materia. La biologia resta grossolanamente uguale ma la fisica cambia. Non si sa come. A livelli profondi cambia. Durante il parto, sembra. La fisica subisce delle variazioni: avviene insieme al passaggio del feto nel canale del parto, dicono.

Dicono vuol dire: non ci resta che pensare così. Prima c’è una realtà materiale, un feto. Poi c’è la nascita del pensiero e allora c’è il bambino. Nessuno vuole ufficialmente ammetterlo. Sembra un’eresia. Che dove studiosi, eminenti teologi, filosofi e medici si sono scontrati in una assenza di accordo si possa trovare un momento della nascita. La natura specifica dell’essere umano. Ma questo è un problema annoso e forse è ciò di cui non si può parlare. La guerra delle barricate. I clarinetti.

L’oboe. Le barricate. La foresta. Le strade di Parigi. Di Roma. Le città. I movimenti. Il lavoro collettivo. Il sentimento. I legami tra la nudità parziale dei ribelli, la città, la letteratura, i vicoli, i mobili ammassati nelle barricate e la legittimità del diritto dell’uscita dalla disperazione. La formazione è la costruzione di barricate. Pensiero che cambia la topografia della città. L’amore è una distribuzione ottimale del disinteresse. La sua felicità è un’opera di ingegneria sinaptica.

Per via di te. Come sempre.

Ciò di cui non si può parlare. Poi comunque parliamo. Dopo un certo tempo parliamo. Improvvisamente siamo una spianata di idee. Siamo la piazza prospiciente i mobili ammassati per la strada nei moti rivoluzionari. Il tumulto inevitabile. Poi gli anni della formazione: le volte quando scopriamo un modo di essere senza confidare in una identificazione. Quasi senza amore. Quasi senza bisogno di nessuno. I legni della barricata ammassati senza organizzazione e successione. Non un senso. Non un manuale con figure di monumenti ed eroi. La formazione è un punto dentro il gomitolo dello sguardo.

Il gomitolo: il cuore, un serpentello avvolto su se stesso. Io che sono il tuo cuore. Dove mi sono annidato. In te mi sono rinchiuso a tenermi il corpo con le braccia, a tenermi il sole nell’illusione del calore delle mani sul corpo. Che è quando impedisco al calore di andare via grazie alle palme distese su aree piccole di pelle. Che faccio mentre accosto le mani. Ricreo una traccia di una calma cioè di un modo originario di mantenimento di me. Quando quasi del tutto, rischiando la malattia della mente, ritorno alla natura senza idee.

Quasi. Ormai sono nato e proprio tornare del tutto non è possibile. Nella follia lo è. Nella follia la fantasia diventa fantasticheria, attività malata di pensare che ciò che esiste diventa nulla. Non è inesistenza è delirio: irrealtà. Non è realtà dell’attività di pensiero è morte del pensiero nell’irrealtà dell’immobilità: come fosse pensabile la materia della biologia senza la vita dell’azione dell’energia. Dall’essere al non essere viene confuso (pensato realtà possibile) come fosse dall’esistenza al nulla.

Dati scientifici e ti regalo più di una canzone.

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tigri


Posted By on Apr 12, 2012

“Essendo te quell’accumulo di materia, quell’eccesso di senso di una super-simmetriaallora” – dico – ” la storia di un’amore non ha un centro, ed è solo sopraffazione.” (in operaprima: musica di altri momenti)

Così finiva l’articolo precedente di ieri. Così finiva ieri. E si ripropone, per via che da tempo non ci sono parole precise per dire, davvero, fine. Per essere contemporaneamente liberi di continuare. C’erano delle pretese. Allora ci siamo scelti. Si è scoperto che scegliersi vuole anche dire che da tutto il resto si era inesorabilmente differenti. Tra il pensiero e le cose della realtà, compresa la bella struttura anatomobiologica cerebrale, nella quale il pensiero nasce e si sviluppa, non si trova un confine preciso. La mano che carezza la pelle in qualche modo cerca all’infinito una distinzione, e poi si arresta. E poi torna domani, perché, nell’arrestarsi, non ha finito. Però tra le persone le differenze ci sono. Ci sono differenze senza fine. Che stabiliscono più che il tempo della vita, il luogo e la posizione spaziale delle specifiche esistenze.

Amiamo le differenze del sonno. Dello sguardo. Della postura. Ci si appassiona, ad un certo punto, che non ci si scelga solo per accordi di parole. Ma per i modi di sedersi, e di sfiorare con il dorso della mano il dorso della mano, e per i timbri di gridare o cantare, e per il flettere leggermente il busto in avanti senza cadere, ma proprio quasi assolutamente cadendo tuttavia, nella scortesia di andarsene -del tutto offesi dall’inconsistenza della proposizione- silenziosi e svergognati, camminando di lato come aragoste verso il corridoio laterale della platea. La ricerca è che siamo sgusciati dalla poltroncina quasi centrale della terza fila lasciando il convegno, il concerto, la messa di commemorazione, la parata delle celebrazioni del culto della personalità. Al massimo si è compiuto solo questo in effetti: il gesto di andare via. Senza spiegare niente. Facendo l’annullamento.

Non era che acqua oramai inutile. L’immagine, che non è figura ma vitalità incosciente del pensiero, determina di voltare le spalle. La rabbia l’abbiamo lasciata che mangiava a morsi piatti di spaghetti come non si deve fare. Di qua le ragazze disappetenti si cibavano in una famelica astinenza delle loro carni smaglianti di profumo. Il silenzio procedeva dall’alto in basso. Il benessere che era già fatto da anni che era fatto continuamente si scontrava fragorosamente con fari sbattuti in faccia. Con assenze indicibili. Assenze raccolte nella parola assenze. Non cose. Gesti psicologici in luoghi lontani da ogni possibilità di scelta. Ora è tutto un fiorire di altri atti distinti e convergenti. Ma, come sempre è, secondo la durata delle cose implicite, altri gesti, apparentemente distinti, differenti, non correlati ma tutti pieni di ebete stupore, causano a loro volta all’opposto un mal di testa che si dice sia per artrosi cervicali, virus, cambi di stagione, strane congruenze tra natura e riflessione non cosciente. Tutto quanto potrebbe anche esserci, di certo, e allora dovrà essere cercato.

Forse il pensiero porta l’idea di una velocità superiore alla velocità della luce -di cui si bisbiglia in fisica- sfiorando sciaguratamente la religiosità orientale. Il margine del burrone dei rischi da correre. Le intimità -differenti dalle intimità private– si confrontano con la parola dialettica, che è una parola difficile perché si riferisce a una serie discreta di tempi successivi. Ma era tutto là prima e sapevamo, di sicuro, che sarebbe stato molto probabile che avvenisse una fine. L’unica cosa che potrebbe darsi si sappia fare, al momento, è assumersi le responsabilità che ha a che fare con l’arbitrio cioè con parole dure stridenti e presuntuose. La parola soggetto non è ironica. A disposizione -non percepibili come figure- le parole scritte ritrovano una esistenza di pensiero quasi come potesse darsi che la scrittura fosse la trasposizione, il disegno, della transizione tra biologia e vita mentale.

La parola tempo resuscita dal mal di testa con la parola finalmente. Il mal di testa muore. Non è pensiero quando scrivo “Eccola sulla linea del confine, sul filo del disegno, silenziosa, l’unica che valga la pena, che da sempre sorride come se non pesasse nulla.” Voglio dire: “Come se il nulla non pesasse più, come avesse trovato un modo migliore di stare al mondo.”

Se c’è un motivo di adesso è che allora presi questa decisione. Non è passato neanche un secondo. ALLORA…QUESTA non hanno nulla fra di loro. Stanno insieme da sempre anche se solo adesso si capisce. È una strettoia. Bisogna annullare. Perché era solo acqua che da indispensabile diventa inutile e gravosa. Perché non c’era mai uno che chiedeva, c’era la superbia. Ma soprattutto perché…. nella solitudine conseguente….

Cercheremo ora una terza tigre, ma come le altre anche questa sarà una forma di ciò che sogno, una struttura fatta di parole e non la tigre in carne e ossa che al di là di tutti i miti solca la terra. Conosco queste cose abbastanza bene, e tuttavia una forza continua a spingermi in questa vaga, irragionevole e antica ricerca, e continuo a inseguire ora dopo ora un’altra tigre, la bestia che non si trova nei versi.” (Jorge Luis Borges, ‘L’altra tigre’ – 1960): è nel quarto foglio, pagina 7, prima del Prologo, nell’edizione ‘I GRANDI Tascabili Bompiani’ – anno XX n°772 – di ‘Le Ore‘ – Michael Cunningham.

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la lunga storia della parola (amore)

Nello spazio infinito della sala con i muri spessi come mai se ne videro altro che nei sogni, si fanno avanti due rappresentazioni: l’idea di massa cerebrale come massa biologica in azione caotica e l’altra idea della incomprimibilità del tempo. Un po’ distratto poi ripenso che da due anni c’era nell’aria che respiravamo insieme con quelle persone – che non sono mai diventate tantissime – l’altra idea che il tempo riguardasse il pensiero perché anche il pensiero non ha nessuna massa: esso è, come si dice con la chiarezza delle evidenze scientifiche, ‘realtà non materiale’.

Mi viene alla mente che avevo pensato: ” Il tempo -che non ha una massa ma solo realtà ‘fisica’ di una rappresentazione mentale- deve avere, lui si, una natura non caotica e allora potrebbe essere il solo elemento in grado di realizzare una trama sicura per l’esame della realtà e il sostentamento del mondo”. Dico adesso a me stesso che dunque non è la solidità della realtà materie degli oggetti e dei corpi a fare una rete certa per intravedere e tenere insieme i continenti e te che mi traversi gli occhi con passi eleganti e promettenti:

“Chi avrebbe detto che le cose e i corpi amati, le carcasse dei miserabili che nessuno vuole prendere mai in cuore, e i seni delle femmine che abbiamo accarezzato, e  il pene eretto che loro costantemente desiderano e accolgono sciogliendoglisi attorno in un profumo che fa la vergogna impenitente e la vittoria che ci guarisce sempre della peste della astinenze da preti – chi avrebbe detto che non quello mai avrebbe sostenuto la potenza dei solai, né l’altezza sfrontata degli attici dai quali si esercita il peccato di superbia del linguaggio e dell’immagine che lo sostiene, insomma volgio dire: il tiro della balestra fino al cratere…”

Mi dicono: “Il tempo si misura con la luce, con la frequenza di una vibrazione di una cosa fisica che non ha nessuna massa”.  Così dicono le voci delle persone nella stanza dove ci ritroviamo da quasi tre decenni seduti di fronte e così tanto assidui che molti sono invidiosi di questa storia: di noi che non sappiamo smettere. Mi parlano del tempo restando incerti.

E mentre loro si riferiscono sempre di più al tempo -come si deduce dalla trasformazione accaduta alla forma dei loro sogni che sono divenuti brevi concisi densi senza una trama evidente ma capaci di far tremare la loro voce- io sento che se ne va la parola amore, si allontana, si nasconde perché è gelosa della parola tempo che avverte più antica, venuta alla nascita con l’insorgenza del pensiero. Ed io stesso, insieme alla parola amore come se mi fossi per un attimo confuso con quella parola… rivolgendomi a me stesso : “Il pensiero ha natura di tempo e allora forse si potrebbe scoprire che essi sono sinonimi di una stessa ‘cosa’. Forse potremmo se, appunto, sapessimo fare la ricerca fin quando risulti necessario”.

Io che sempre fingo di parlare d’amore ad un amore – ( dato che per fare scienza devo ersprimere una metodica inclinazione verso la certezza di esistenza e di conoscenza che chiamo ‘amore’ ) – io – quando loro pronunciano la parola tempo o semplicemente lasciano tremare la loro voce al suono dei racconti di sogni differenti da sempre – vedo la parola amore come una figura di donna che si allontana e pieno il foglio di segni di tristezza per esprimere l’immagine della mente. Perché quando resto solo l’immagine della tristezza è differente dalla scenografia di commiato e separazione dalla figura di lei che va via.

Ma fondo le basi nuove di futuro traversando la tristezza inevitabile di un discorso inevitabile anch’esso perché ancora il tempo non si è legato alla parola pensiero. Non ancora definitivamente. Non irreversibilmente. È un’idea per adesso. Non so dire però è un assillo grande quando le cose non hanno la chiarezza delle parole. Comunque mi salva il lusso della smagliante rete tessuta in fibre nere di carbonio della intelligenza che ho avuto in cambio di una costante marginalità. Mi protegge dalla disperazione e trasforma la luce opaca della precedente tristezza in tenebrosa eleganza di nero dolore . Trasforma in colore nero traslucido la superficie senza riflessi della confusione di trenta anni prima di ora.

Ora l’identità non pensa più in termini di coscienza e controllo e si distende.

Nella stanza dopo trenta anni mi raccontano che studiano e si laureano e che è difficile ugualmente. Che la malattia di un tempo non era peggiore della normalità con la quale devono fare i conti. Se riattivo la magnificenza dell’inganno amoroso io mento sorridendo, ma piango dentro di me e voglio che torni la parola amore. Ma non torna perché ora bisogna continuare la ricerca per trasformare l’idea del tempo che sarebbe proprio della realtà della vita mentale della specie umana: il tempo è creato dall’uomo alla nascita come pensiero che dopo torna sempre ogni momento. Per esempio è ricreazione della mente nel vedere la luce che tanto amiamo e che inseguiamo poiché la luce è l’orizzonte. Per esempio torna sempre ogni momento nel vedere svanire la luce oltre l’orizzonte dietro le linee amiche perché quasi sempre oltre le linee che la luce disegna sulla materia c’é un amore indimenticabile.

Lavoro sulla linea di separazione tra te e me. Su noi che sappiamo tenere accanto i ragazzini per interi giorni nelle vacanze estive e nelle passeggiate sul mare a Natale con il cielo bianco opaco. Lavoro sulla linea di separazione tra te e me sulla linea di orizzonte e, si capisce, lavoro su affetti che sono uguali a certi tagli di luce. Ho lavorato tantissimo senza parere per scrivere che l’orizzonte è espressione del rapporto tra luce e materia: che l’orizzonte è una velocità. È consistenza di relazione quando si è lontanissimi uno di qua e una di là dal cielo, di qua e di là dall’equatore, e l’orizzonte separa il tempo dallo spazio e il dolore evita la pazzia e l’assenza crea l’immagine e l’immagine fa la figura e il pensiero verbale e i segni sul muro le tracce del granchio gigante sulla sabbia che di traverso ci chiama poi si seppellisce come un uomo che si addormenta

Sono passati veloci questi trent’anni iniziali di lavoro.

Ora forse torna la parola amore.

Forse torna la parola amore se resto ancora così quasi immobile a rischiare l’equivoco dell’odio che mi ha pensato morto solo perché la distrazione di realizzare la fermezza per la certezza aveva tenuto le persone dello scarso interesse ad una distanza che non poteva sentire il calore con le carezze e il respiro con le labbra. E hanno scambiato il sonno con la morte, l’immobilità con la paralisi, la noncuranza delle cose ragionevoli con la follia di una perdita di rapporto con la realtà.

Invece la vitalità della resistenza nel tempo è determinata dal fatto che la ricerca era cominciata trenta anni fa con una favola che diceva solo questo:

“Sul mare giacciono le sagome di tre figure umane e una è morta e non si può fare più nulla – e una dorme e sogna e non si deve fare nulla perché essa è sana – e la terza figura è ammalata e si deve risolvere la sua impotenza ad alzarsi per venirci incontro.”

Bisognava distinguere, certo. Però adesso mi domando se non fosse quella la parola (amore). Amore.

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il nostro segreto amore tutto in lei racchiusa

Arte della cartografia. Devo disegnare una specifica discontinuità. Un salto sopra un burrone o più esattamente una meraviglia di fronte. Non c’è più il tempo di stupirsi e diventa immediatamente amore o rifiuto. È stata una perdita definitiva di stati psicologici di compunta euforia e il manierato entusiasmo -ahimè- è in fondo al mare in pezzi. La cartografia oceanica, delle aree disabitate, dei deserti, i piani senza differenze altimetriche, il giallo arancio dei mondi regionali di nessuno, il disegno bruno della crosta pura senza vegetazione, poi il color nero dei burroni dove la precipitazione è fame e sete e si muore di noia con il corpo che si secca e si consuma fino al regalo di forme dei fili d’erba o alla consunzione essenziale delle zampe di un trampoliere. Sono questi risultati che bisogna ottenere nella ricerca sulla forma sicura del pensiero: stare su colorati di piume rosa a far niente a creare ogni momento l’ascetica realizzazione di parole ben asciugate.

Per intromettermi nel tuo stomaco, al cuore del tuo sistema, nella tua stanza di combustione… per sperimentare dell’amore il lato scientifico, che ha la certezza del latente perché l’amore è anche intrusivo, penetrante, sovversivo, strafottente e superbo in maniera addirittura umiliante quando è tanto. Una volta sola rivolgermi alla strega: poi da ragazzina a donna lascerò stare, mi farò pungere, ferire, senza la rabbia: starò in attesa, distratta, sul ponte sospeso alle liane appiccicate alle foglie appese al ramo che si staglia controluce e non si vede mai l’asola di una sicurezza… ma adesso nella caldaia! al fondo del pozzo scuro degli occhi cattivi delle streghe! al cuore del sistema per sabotare l’anima nera dei sabotatori! … poi da ragazzina a donna ridere di cuore per ritrovare il cuore…” così Cappuccetto Rosso alla nonna famelica (che non è affatto un lupo, tutti lo sanno i lupi sono animali fedeli e buoni, diversamente dalle vecchie streghe asociali.)

Il mare sulla carta è apparentemente almeno una pausa. Di qua e di là improvvise coste danno luogo alla necessità assoluta del discorso. È subito un guerreggiare, scambiare frutti acqua spari colpi di lancia tiri promesse indecenze, certezza di stragi, dominio sottomissione attese secolari, evangelizzazioni croci fucili chiacchiere, fratture, medicine false, guarigioni miracolose. Fino a che l’ansia del silenzio porta la scientificità della pretesa di una mai conosciuta decenza. La trasformazione che avviene sul ponte sospeso, in cui non c’é tempo per lo stupore, è sbarco della tanto nominata grazia, amore a prima vista… e conoscenza. Azione non istintiva l’amore del sabotatore rischia le mani negli ingranaggi e fa uso di tutto quanto egli ha.

Aaah! fossi in grado di porre fine ai tempi delle attese della miccia che non finisce mai di bruciare al culo del fucile… abbiamo una scienza imperfetta signor Generale, signorsì: e sparare somiglia ancora troppo ad un gesto di innamorati, alla militanza dei soldati appostati per fare l’imboscata alle candele dei campanili e alle casematte del nemico. Abbiamo orologi imprecisi e sperperiamo il tempo della guardia a lei che arriva: arriva lei, il suo pensiero è un ovale dentro il quale scorre il movimento: ha gli occhi sui propri passi, ha lo sguardo legato -all’altra estremità- alla punta delle sue scarpe: uno, due, uno, due marcia senza i tamburi, senza niente: tutta in lei racchiusa. Noi soldati di un reggimento di cose esclusive, per non perdere la testa, cominciamo a pensare forme geometriche di solidi…”  così l’archibugiere. Poi la scintilla raggiunge la polvere, l’esplosione dentro lo spazio angusto della canna fa lo sparo, una nuvola bianca allo zolfo che entra fino alla radice del naso nella testa. Il soldato scompare nella nuvola di fumo, scompare  e nessuno più lo vedrà. E’ una scomparsa che non genera crucci. Una magia di guerre di altri tempi.

Il fumo di uno sparo dentro cui vivere con passione è la realtà umana dei fucilieri e nostra. Mia soltanto? Ogni tanto qualcuno finisce dentro le conseguenze del proprio incantesimo. La palla infuocata diretta al cuore arresta insieme una vita e la spinta omicida. Cupido fa innamorare, e si confonde anche lui, ansimando di passione subito con la vittima.

Ti amo perché mi mancherebbe la certezza di sapere questo adorato sentimento asciutto che tutto al suo interno concede e soltanto li. Non avrei avuto, altrimenti, che l’orientamento delle preferenze legate ai gradi diversi del piacere. Dentro le nuvole degli spari adoriamo ciascuno il nostro segreto amore -tutto in lei racchiusa- tanto che nessuno vede. L’ago magnetico indica un unico luogo vibrando: egli è infatti intollerante agli spostamenti, ai passi, alle derive dunque protesta scuotendosi tutto ed ha degli attacchi veri e propri, manifesta la sua passione rigorosa e intransigente in forma clinica di una attrazione mancata sulla curva invisibile del campo magnetico. Ho maturato la qualità di oscillazioni mirabili senza incertezze. Un accordo unico e avversioni graduali tutto intorno” Così l’innamorato, il medico, il cartografo, l’archibugiere, il timoniere della nave a vela.

Che mondo!

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escape


Posted By on Ago 5, 2011

escape (*)

Fate spazio ripete la pellicola delle figure disperse i merletti delle donne e le divise impegnative e il capo scoperto del futuro cadavere. Sarebbero stati scaraventati in alto per esempio di giustizia del potere gli impiccati. Io vedevo la gloria del cinema tutta riassunta nella precipitazione verticale della musica degli omicidi secondo la legge imperterrita come lo sguardo di una madre folle di fronte al pianto. Il collo di cigno avvolto dalle corde. I cavalli predisposti dalla natura alla corsa che innalzano l’amore scalpitante fino al cielo. Voler morire nelle scene di salvezza e di rivoluzione. Voler resuscitare nel ricordo dei registi impavidi per cessare ancora di vivere secondo la letteratura dell’ingiustizia. Adesso che ero libero in realtà assolutamente solitario potevo privarmi del giudizio. Quelle voci da inseguire per una rauca timbrica che alludeva alla solitudine che è aspra. Inutile dire il contrario. Dolce solo per l’idea che “…non si può mai sapere..” Una schiera di cavalieri distratti dalle uccisioni che attraversa una folla dei cui pensieri non si può sapere nulla tutto quello che si sapeva della folla era il livello del rumore la potenza del suono collettivo che avrà pure avuto una sua democratica forma di intuizione. Si trattava sempre di impiccagioni e la democrazia era tardiva. Come la scienza era successiva agli avvenimenti. I signori possono aspettare: in questo risiede il fascino del potere assoluto. Il potere è potere che riguarda la effrazione della cittadella temporale. Il potere altera le successioni. Prima viene il perdono e poi il delitto che ha la propria impunità. I tamburi esprimono bene la potenza del potere. Gli applausi dissennati dicono tutta l’indifferenza alla violenza. Riguardare la scena. Riascoltare gli spari nella loro obiettiva forza impareggiabile. Potremmo bere sempre alla forza urlante e becera del cinema che ricalca la violenza. Non c’è niente di più ingenuo e innocente. Solo le labbra di una donna innamorata che avvolgono un pene senza sapere oramai più i tratti del volto. Il volto è la folla democraticamente eletta dai potenti. La folla democraticamente distribuita nelle piazze con l’ imperfezione della serie casuale che se non assicura il diritto garantisce la serietà delle corrispondenze tra storia e matematica. Amore trascendente e sesso ben fatto. C’è una simmetria recondita e scandalosa – come una giustizia imperdonabile – tra soggettività della decisione e accuratezza del cappio anestetico della impiccagione verticale.
E’ scattata in alto: una corda al galoppo. Ero insensibile e sono stato elevato in una aspirazione alla morte aerea per soffocamento. Pendevo tutto anima e cuore. L’anima non era nella testa. L’anima era diffusa. Era la pelle. Privo di pensiero per ischemia dirò una storia ragionevolmente priva di sensi: tanto si sa che sono cose differenti storia e ragione. Sono differenti testimonianze. Oggi che sono salvato questo parlare è segno di commossa riconoscenza. Musica forsennata e calmissimo sentire. La mancanza d’aria del cappio niente mi ha fatto dimenticare di noi. Non ha toccato il pensiero delle belle carezze, delle regioni delle forme dei volti sognanti: non il suono precipitato delle parole di passione.

Riposavamo notti intere senza prendere pace da noi. L’ingiustizia solo può caderci addosso e mettere pace tra l’uomo e la donna che si erano decisi a trovare uguaglianza e diritto nell’amore. Ora non siamo che musica.

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