campi d’orzo


Rosso Fiorentino lo tengo qua accanto per il suo nome inarrivabile. Per i toni del rosso.  “Lo Sposalizio della Vergine”.  Bisogna vederlo poi non servirà parlare troppo per concludere che è un pittore assolutamente moderno. Ha la specialità di non apparire un gigante ma di essere evidentemente libero. Sullo scaffale della libreria si nota. Un certo tono di colore. Uguale, del tutto corrispondente al timbro delle parole della canzoncina intitolata Via del Campo ….

Jannacci che l’ha scritta con De Andrè ma in pochi lo sanno. Musica e parole e timbro rauco si intonano perfettamente con il motivo scandaloso del SanGiuseppe giovane che va a nozze nella composizione del Rosso Fiorentino che tengo sulla libreria con l’amore per chi è poco notato e resta sempre solitario come l’altro che, per quanto sia l’autore di una canzone universale, resta eccentrico. Come è possibile è un mistero ma a volte forse al contrario non è un mistero perché deriva da una scelta. Una serie di coerenze. Di pretese chiarezze. Di violenta presunzione. Come dire “io… sono diverso da te e lo vedo che tu sei più bello ma non mi cambierei ..”  Nella stanza del setting ho messo tutte le cose, tutti i mezzi di lotta, tutti gli strumenti che mi sono sembrati necessari per tendere a vivere la vita come un regalo giusto, un regalo che ha il valore del prezzo di questa monografia in edizione economica che ha stampato sulle pagine i toni di questi rossi delle vesti di madonne edificanti- Il volume l’ho messo di pancia sul terzo scaffale. L’ho messo lì dove potevo pensare che potrei mettermi io nella vita. In una posizione che corrisponde a noi che si vive in una terra secondaria, in una periferia pre industriale. La mia ricerca fino a questi giorni è approdata qua con il movimento preciso di una grande barca che doveva attraccare ad un molo di cemento grigio con gli anelli di ferro verniciato. Sto giorno dopo giorno esattamente al centro silenzioso e calmo di un terzo mondo venturo, già proprio come sul capitello di fango di una terra promessa, sulla gobba grassa dondolante in cima al crinale delle alluvioni. E’ un monticello che ora ha l’aria di una collina di quasi deserto. A guardar bene si comprende che qui la cultura non ha attraversato le vigne e i campi di orzo. Non ancora e forse mai più.

Ci si sta bene e rivela, nella dimensione conclusa, che da tempo avevo capito che non sarei riuscito a non sentirmi comunque banale. Il mio modo di pensare fatto di banali silenzi, di inconsistenti allegrie, di confidenza con l’umiltà e la ovvietà del desiderio della donna più bella. Di confidenza con i racconti favolosi. Sono rimasto così a lungo scontato e deludente che ora che ho l’età della libertà ed ho persa l’automazione urlo da attore e vado in deliquio neanche fossi su un qualche palcoscenico. Ma il mio deliquio è anche la mia forma di suonare ed il raggiungimento, l’ottenimento di un ripiano ombreggiato e secondario così che sia possibile sciogliermi lentamente a terra come un ghiacciolo al sole. Come capitava alle adolescenti alle corti rinascimentali ogni volta che la lunghezza eccessiva della  cerimonia toglieva il respiro. Dopo quasi trenta anni ho potuta ottenere la trasformazione delle resistenze e dei vari meccanismi di difesa nel silenzio della perplessità e nell’imbarazzo della pazienza e nella cautela dell’attesa e dico che insieme ora danno luogo alla forma dell’identità. Non si vede, l’identità. Non ha figura. Non si intuisce. La conoscenza è conoscenza e scoperta in silenzio di una scultura complessa di venti e incanto, e di quieto tornare della mano -che si era levata per salutare o carezzare- in grembo o sul dorso dell’altra mano o a chiudersi negli scrigni delle tasche. Ho perseguito senza averne coscienza lo sviluppo del pensiero ed ora il lavoro torna con la compostezza e la potenza mesta e regale di un requiem per concludere le ultime incombenze della cura che ha chiarito le differenze tra annullamento e pazienza, tra perplessità e difesa, tra la tensione di una resistenza e il mio accorato respiro al pensiero di noi. 

La strategia psico-farmacologica aveva pensato di poter abolire il setting. Invece la testardaggine della ricerca ha trovato le parole per la cerimonia della cura: il tristemente famoso arco isterico che abolisce la fluidità elegante del movimento di seduzione, l’impaccio dell’inibizione depressiva, i rituali ossessivi per la cerimonia dei controlli sulle cose e sui sentimenti, le deformità dei disturbi della personalità gobbe anchilosi zoppie frettolosi sguardi guerci e ancheggiare storpio. Il rigore del discorso normativo dell’odio. La vacuità estrema che allude allude ed è il vento che si alza dal terreno e va al cielo e perde la mente. Li so bene, posso raccontare le sfumature della difficoltà, le tante, non indefinite seppure innumerevoli, attenzioni necessarie, le speciali variazioni del toni del linguaggio, le movenze delle parole, l’armata di fanteria leggera per l’indagine del terreno della relazione che bisogna imparare a condurre come una ballerina miope e molto ingenua per rimanere in rapporto con il variare dell’ideazione, dell’affetto e poi degli stati d’animo e infine dei comportamenti che sono evidenti solo nelle posture dato che qui il movimento è praticamente abolito. La ricerca negli anni ha scoperto un tunnel per vincere la distanza tra parole differenti che un tempo non erano neanche sospettate di potersi collegare una con l’altra. E poi anche un’ultima cosa è emersa per ora.

Inatteso è sorto il gioviale amore per il padre che non va a concludersi nell’identificazione e la rabbia perché lui, il padre, in questi trenta anni che ci separano da lui giovane dell’inizio del mio lavoro, si è scavato la galleria della sua vita ed ha portato la sua vita così avanti nello sfolgorante chiarore della miniera! Tanto avanti, da farci pensare che l’abbia quasi esaurita, quasi tutta costruita scavata perfezionata pulita che noi temiamo un poco per lui, ma non sappiamo vedere dove finisce. Ora studiamo come fare a ricavarci la nostra bella galleria nuova perché essa non potrà essere identica all’altra, al massimo magari sarà sulle tracce dell’altra. Alla ricerca del tempo del lavoro e della perfezione delle cose esatte. E’ lontano l’esito della sua vita e non sappiamo pensare la sua fine. La sua morte, morte dell’oggetto amato, l’abbiamo scagliata via dai nostri occhi. Per questo non possiamo più identificarci con quella meravigliosa costruzione di prassi e durata che è la vita altrui. Prassi e durata. Voglia e lavoro. Socialità e solitudine. Rapporti e distacchi. Il rosso e la voce. Le vergini e il loro matrimonio. Il rosso e la trasparenza. L’amore infinito per la nostra incapacità di pensare la morte dell’amato che toglie il punto di conclusione alla vicenda. Restiamo li accanto al viadotto, nella profondità del cuore, come volpi quiete. Non è il buio della reinfetazione e non è l’immobilità dell’anaffettività: al contrario, abbiamo ricreato il tunnel luminoso che, per la via del suono delle favole e delle canzoni della madre innamorata, ci conduceva al sonno.

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