dio


se dio vuole


Posted By on Mag 14, 2016

So cosa pensi di me. Si vede bene da fuori. Dagli occhi o più precisamente dallo sguardo. Ci metto di mio. Certo. Ma non tutto. Non si dovrebbe guardare gli altri se si vuole mantenere una soggettività che si può presumere a proprio rischio col vantaggio di non piacere a scambio di una certa libertà di pensiero. C’è chi dice il sacro è proiezione della umana follia. Che non conta che dio ci sia. È che si è deciso che è l’ipotesi meno pericolosa per mantenere una illusoria differenza interspecifica. Nella riflessione anonima filosofica dio riguarda il sacro ma nel pensiero popolare dio si è voluto implicarlo definitivamente e marxianamente nella religiosità sottoproletaria e proletaria cioè nella gloria del poco quotidiano e là alla fine dei conti sta nel ‘corpo’. Il corpo noi si può anche ridurre dentro il ‘troppo’ della forma individuale singolare, che è troppo per via che quello che siamo ai bordi insomma al confine di noi sui deserti dell’aria esterna è non finito e infinito. E infinito è appunto una qualità di dio. Che qui mette insieme corpo storia e pensiero. Quotidiano singolare indivisibile ma non definitivamente concluso ognuno dopo essersi separato da se stesso chiarendo e confessando amori e opposizioni spiacevolmente o troppo ingenuamente è (siamo) l’idiota infallibile, il segno letterario di formule di un dialetto sociale tutto proteso in fuori: un tuffatore di scogliere che vola fidando nel suo assetto aereo sulle ali del discorso e della intuizione. Allora traversando l’universo va verso la parola dio senza paura sapendo (il corpo volante lo sa) che dio è l’altro mentre gli si parla guardando nel suo sguardo per riconoscersi e sapere chi noi siamo solo transitoriamente ma con una certa qual soddisfazione infantile neanche avessimo vinto una lotteria ed è sempre ogni volta al massimo durante quel girare il cucchiaino nel caffè nero mentre il bar ruota e affonda nel brusio delle dieci come ora che mentre scrivo distratto intanto sono al servizio del re nelle stalle ciclopiche dei mercanti e dei mercenari e tronfio di finali non concluse voglie guardo la ragazza impossibile tutto quel ben di dio e dio diventa l’unico referente per esprimere la pienezza di stare al mondo mentre niente è per fortuna ancora finito.

Lei mi porta a te. E ti penso che mi servi per scrivere e immaginare il tuo ascolto. Ai bordi sei il mio ‘altro’. Il mio confine. Ti scrivo: saliamo saliamo sulla cima. Ti dico: mettiamo la culla sopra una montagna di libri caso mai nostro figlio ne avesse vantaggi. Mettiamo i nuovi pensieri e le attuali conclusioni sul profilo frastagliato delle alpi che svettando di fronte alla finestra sono la cresta illimitata sotto il cielo che è, la cresta frastagliata, come le isole in fondo al mare nei giorni che ha piovuto.

Ti dico: lascia correre il pensiero e scopri che per sempre -una volta intrapreso il progetto di restare sempre al limitare tra noi- non si tratterà più solamente di definire flusso di coscienza questo ostinato limitare i confini e ridisegnare i contorni con riproposizioni di sfumature sempre più esatte ma invece si tratterà di -avendo tolta alla sperimentazione artistica la sua durata ragionevole- viverla da lì in avanti come nuova forma di esistenza e originale imprevista civiltà di rapporto.  In questi giorni passo dal sospetto sicuro che non solo la conoscenza è inevitabilmente impastata di una attesa di una aspettativa e di una proiezione di bellezza o inferno ma che -proprio avendo concluso che l’infernale bellezza dell’altro è dove noi confiniamo ed è dunque la terra sulla quale facciamo le sentinelle per difendere le nostre terre- è su quella conclusione che dio svanisce mentre si consuma in abbracci e saluti lo spazio tra noi e gli altri fino anche al sesso e alla conoscenza. Se dio vuole.

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fotodinamismo futurista - Marco Crupi -

fotodinamismo futurista – Marco Crupi –

“Contrapposti alle traiettorie dinamiche stanno i processi che tormentano la materia.” (Prigogine/Stenghers – ‘La Nuova Alleanza’ – Einaudi – 1995 – pag.199)

Perché esistiamo solo dio lo sa. Allora bisognerà scoprirlo, per avere accesso alla mentalità divina. Perché ad un fisico non importa se dio esista, importa sapere cosa dio abbia in mente e soprattutto cosa avesse in mente al momento della creazione. L’incomprensibilità viene definita singolarità. 

A me interessa in quale punto di quella mente si colloca la questione etica. Il limite tra uguaglianza e sovrapponibilità. Le funzioni psicologiche corrispondenti alle garanzie al diritto. Diritto alla discrezione. Mi interessa, certo, se nella mente di dio stia la sua istantanea permanenza, ma mi chiedo la misteriosa fisiologia di quel procedere riverberante.

Per questo guardo la notte e il giorno quali siano gli eterei sfrigolii corrispondenti alla sua impulsiva eternità. Come fa a ruotare la macina del mulino dell’annichilimento. Se sa che noi ci siamo trovati descrizioni del pensiero come un ruotare di pale di un elicottero. O che sospettiamo d’essere sognati e sognanti allo stesso tempo.

Che intratteniamo commerci con la vita mentale delle farfalle, e che restiamo in una inarrestabile impercorribilità. Se ride nel vedere come ci siamo fatti oggetto della cappa di preoccupazioni a proposito della sua natura. Le preoccupazioni sono perché ce lo rappresentiamo, insieme, possente e demente. 

Qua, dentro la mente di dio, di fatto, non ce la caviamo mai del tutto da soli, nè con facilità. Riguardo alle certezze dico. E’ che abbiamo la mente intera sotto forma di implicito sospetto, di grande fragilità (che è anche quello che ci rende reciprocamente disponibili) di ricamo incontestabilmente delicato. Abbiamo la mente sotto forma di idea di non essere mai definitivamente affrancati. 

Mai ancora definitivamente nati, o almeno, sviluppati fino ad un compimento. Non sappiamo risolvere se per caso non siamo a nostra volta sognati, mentre ci si adagia per immaginare la compassione che è piena di ostilità, e l’indignazione che è degnazione di impotenza. 

Per quanto ci riguarda dio è una semplice farfalla. Tanto non si è risolto il perché noi pensiamo costantemente questa farfalla che ci pensa mentre la pensiamo pensarci, e abbiamo l’amarezza filosofica, metafisica, che nessuno ci può assicurare come si debba pensarla una tale farfalla. Questo è il guaio. 

Che esista o meno, questa specie alata di grandi intuizioni su di noi, ciò che conta sarebbe essere a conoscenza di come convenga pensare il suo atteggiamento nel pensarla pensarci. In questo lavorio, in questo tormento, stiamo al margine. La psichiatria si volge in farmacologia. La cura in timida prevenzione assistenziale.

Fuori dai tormenti a proposito della natura del pensiero, di dio, e delle farfalle, le scienze ‘esatte’ -ovvero le scienze rigide- si sono prese il panorama circostante. Come un grande baobab ombreggiano a macchie la savana. La savana macchiata rispecchia bene materia e antimateria reciprocamente ma del tutto asimmetricamente distribuite.

Le scienze rigide, dopo il cedimento delle scienze umanistiche alla pura letteratura divulgativa dei sentimenti, si sono prese il pensiero carezzevole e il pensiero caritatevole. Il pensiero carezzevole e caritatevole allora si sono accomodati dentro le scienze esatte, con agio stanno sulla poltrona del principio di indeterminazione.

Pensiero carezzevole e caritatevole riposano nel nido del concetto, solo apparentemente  confortante, di complessità. Le scienze rigide, a loro volta, nello svanire della trasformazione, nella caduta dentro la coppa gelata dell’entropia, finisce per augurarsi, prima della fine, un nuovo ma non inedito dio. Questo dio non alato è ciò che, complessivamente, l’universo sospetta di noi.

Dio è adesso questo sospetto nella mente dell’universo, a proposito di tutto. Della realtà fisica e della legittimità di noi. La natura è dove risiede dio: che dobbiamo pensare sospettoso ed incerto. Una esplosione si accalca al centro del cielo. Una improvvisa folgore è il riposo dal lavoro degli uomini, dove sono ancora loro, tuttavia, la posta in gioco.

Materiali precari, pensati nella biologia del sogno di una farfalla, siamo coloro che parlano, per raccontare di avere noi, -e solamente noi in quanto umani, cioè capaci di segnare confini-, l’idea della farfalla che ci sogna, e il dolore della tristezza delle sue imperdonabili distrazioni a nostro danno. 

Abbiamo idea di un dio che ha idea di noi. L’idea che dio ha di noi è nel dio che è in noi. Non siamo stati capaci di fare meglio: pensare un dio che non ci pensasse, che non ci avesse a cuore. D’altra parte non si tratta di sdolcinatezze di una fede provvisoria, se anche al centro della cosmologia, una logica antropica ci mette al centro del senso universale: se ci preoccupiamo del mondo vorrà dire che c’è una certa ‘necessità’ che noi ci siamo in questo mondo. 

Il mondo prevedeva noi come materia necessaria al suo perfezionamento. (*) Data tale cosmica centralità della provvidenza, anche se siamo in periferia, (ma tanto un centro neanche c’è), sappiamo ogni tanto, regolarmente, dormire. Questo meccanismo dello svanire della coscienza, il sonno, è per una inconscia e congenita disposizione all’astrofisica del genere umano.

Ma invece: per quale motivo il mio amore per te deve stare in un sistema provvidenziale? Non basta che t’ami e che mi manchi e che ti mandi le lettere ogni giorno? Mi manchi è che ogni volta che mi sveglio non è l’ultimo giorno d’amore. È, al peggio, e al massimo, solo il penultimo giorno. Il penultimo giorno è il penultimo avvertimento. Una previsione inconsistente.

Ogni affermazione è il penultimo giudizio, non ci sono condanne, anche se il tempo lo è. Ci amiamo e ci si fida di quanto non è conclusivo. Noi innamorati, in attesa dell’avvento, presa in noi l’intelligenza scabrosa e antipatica di ogni popolo eletto, pensiamo all’amore secondo i canoni estetici della retorica scientifica, e alla bellezza secondo l’eleganza del discorso matematico. 

Nell’esprimere il mondo invisibile, troppo vicino e troppo lontano, noi troppo lenti e ancora poco amati, siamo il popolo della penultima possibilità e di un non ultimo incontro. Siamo il risultato di una esitazione. Siamo quello che diciamo di poter essere, poiché questo è ciò che sappiamo oramai, definitivamente ed irreversibilmente, scrivere e comprendere. Ma siamo ancora un po’ troppo delicati nel comportamento pedagogico verso un universo fisico in adozione.

Siamo i capaci di pensare forze e materia, e il suo rallentare, e il nostro imprimerle accelerazioni attraverso l’applicazione di una forza. Pensiamo la materia come idea senza figura, come suono sapiente e sicuro di una parola definitiva. Stanti le leggi del pensiero per cui fondammo il concetto di inerzia, secondo una immagine, prima che diventasse la parola inerzia. 

Questo amore per la scienza è prima della simpatia per gli amori e prima della passione di sottomissione ad una divinità. Però questa idea fissa di un dio da patire si oppone, da quando si è realizzata, alla possibilità di comprendere una non precaria nascita. Per questa ignoranza scientifica a proposito della nascita umana, l’esitazione trepidante della fede si è malignamente associata alla vocazione d’amore. 

Il turbamento della materia che si oppone alle traiettorie dinamiche non ha paura di niente nel cercare le leggi nuove. E’ l’attività del pensiero, la salute mentale nella riserva di mari azzurri e nei cieli polverosi e nelle gelatine d’aria che offre la geografia del mondo. L’idea di dio sta nei ciottoli, nella funzionale disposizione dei pavimenti di cubetti di porfido. Nella perfezione incomprensibile dell’agire umano.

Nella bellezza tremante dello sguardo che vede i cubetti di porfido ‘tutti uguali e tutti diversi’ traversando una piazza romana.

Pensando alla creatività del pensiero si rischia sempre un poco la pazzia. Ci piacerebbe essere sfuggiti una volta per tutte alla incertezza. Avere il per sempre dell’incorruttibilità. Avere nelle tasche, noi non credenti, mucchietti di quel ritrovato officinale che fa il pensiero opposto a quanto chiamiamo dio. Ma di fronte al massimo di bellezza e di chiarezza noi siamo capaci, per adesso, solo di esitazioni. Il balbettio filosofico e la confusione scientifica.

Pure, se c’è un tempo, se c’è, nella traiettoria dinamica del pensiero coerente delle dimostrazioni, una irrimediabilità che rende irripetibile la condizione iniziale, quell’irrimediabilità ha a che fare con le esitazioni. Con le collisioni. Non con le soluzioni. Per questo, che è intuitivo, noi dovremo sempre vedercela con i turbamenti della materia

Se dio avesse deciso di dislocarsi proprio là non ci sarebbe scampo. Ma, in quel caso, parlarne si ridurrebbe a questione nominale. Accartocciato lo splendore nella carta da forno di un arrosto brunito, celebreremo l’eucarestia: io con la mia mano sul tuo seno e tu con la testa sulle mie ginocchia, come una pietà a ruoli alterni, che attende il completamento della cottura.

E sappi che comunque non saprò mai dirti tutto fino in fondo. Mai fino in fondo posso esprimere la modestia necessaria per amarti come vuoi. Appartengo al popolo che è attesa, e l’attesa porta via tempo. È, anzi, ogni volta che mi pongo il sospetto della mia penultimità, solo quando sono in presenza di un superamento che non sia ultimativo, che mi innamoro. 

Stringendoti la mano e accarezzandone le vene azzurre del dorso eccitato, per una ingenua noncuranza, potrei una volta non accorgermi che sotto la panchina dell’appuntamento, o nella linea di sovrapposizione di due nuvole, mi sto consegnando all’armonia della soluzione. Allora di certo dirò quello che volevi sentire: che è per sempre. Sarà come fossi io la divinità, padrona delle durate. 

 

(*)In questi arroganti infantilismi le farfalle non sappiamo se abbiano respiro, ma dio ci sguazza, è evidente.

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