essere


La natura fisica del pensiero ne fa una cosa come un’altra. Il desiderio -che così non sia- fa di noi le vedette di eclissi e fortunali, miracoli, insorgenze e visioni. Ma non spunteranno rivelatori di divinità. La biologia cerebrale di per sé è priva di splendori. È l’essere umano la novità. Come parla di sé. Il coraggio dell’illusione di un senso della vita. Quando la biologia si produce in voli di ali rarefatte. Costruisce il catamarano: barca inutilmente superba. La forza del vento viene catturata sulla vela e scaricata giù in fondo ai bulbi delle derive. Tutto il progetto e tutta la bella forma natante descrivono la delicata forza del pensiero. La forza misurata di una biologia ben protetta che si trasmette all’esterno con graffiti di caccia e suoni di parole come frecce che traversano l’aria. Da dentro a fuori, dal mio nome il tuo. Il mio nome taciuto e te evocata a gran voce. Dal bulbo sommerso muto che tiene ritta la barca si innalza il grido del vento sulle vele. Il prodiere è unico marinaio. L’asta del timone è un arco sottile stretto nella sua mano. Lui, tenuto in vita da un nodo scorsoio, offre ad un dio celeste il corpo fuori bordo. Prende l’onda alla nuca l’isteria oceanica. Il navigatore insonne esercita l’arte della dimenticanza.

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Senti la ‘Musica notturna di Madrid‘ di Boccherini e scopri che non esiste incompatibilità di tempo nel campo delle armonie sentimentali. Vedo code di cometa sopra la nuca delle donne. Ci saranno state a scivolare scarpette ricamate e piedi nudi quelle notti. I tempi lento, mesto, maestoso, allegretto, vivace, presto sono le invocazioni esecutive di quelle maestre d’orchestra. Maestranze maschili seguono o fuggono sguardi di invito e proibizione sulla piazza della crudeltà d’amore. La chiarità danzante in notte ampia. La rete sensibile tira su note corrispondenti. Oggi si chiude il cerchio, durante l’ascolto della notorietà.

“Quando si chiude il cerchio tra la premessa teorica e la conferma scientifica?” ci siamo chiesti stasera. “Si dovrà avere una lavagna per scrivere le parole della ricerca quando si presentasse una variazione: per misurarla e per inferenza cogliere la verità: il passaggio di eserciti di particelle attraverso i nostri corpi inconsapevoli.”

Gli ultimi quarant’anni sono stati sprecati e se si vuole ristabilire la continuità si torna agli estremi giorni del 1972. “Istinto Di Morte E Conoscenza”(*)  è una “premessa teorica”. Quarantatre anni sono la musica notturna nelle strade di Madrid. Ma il primo ‘giro’ dello svolgimento non si è chiuso perché, non essendosi trovata l’unanimità attorno ad una conferma scientifica, non possiamo godere un’ascolto di piacere condiviso. Le affermazioni sulle due forme di pensiero: del feto nell’utero e del bambino dopo il parto, non sono state accettate dal mondo accademico. Non lo saranno finché la ricerca neurofisiologica non avrà individuato la funzione primaria alla nascita: che trasforma l’attività mentale del feto, che riflette un equilibrio esclusivamente energetico, nella capacità, del neonato, di sostenere il rapporto col mondo esterno freddo rumoroso e frammentario. L’io del neonato è in grado di immaginare l’esistenza di una realtà umana fuori di sé in opposizione al mondo. L’io dev’essere(**) in quanto è in grado di ristabilire l’omeostasi ‘impossibile’ tra soggettività-unicità del singolo essere umano e:

-1) l’impegnativa vicenda del parto

-2) la fredda insensata frammentarietà del mondo materiale.

Di umanità, nascendo, non si ottiene conforto: non un’esperienza che si sia mai avuta in precedenza.

“Ed allora” – si disse – ” la si realizza come forma immediata di pensiero durante il parto come dire che l’io si autorizza subito da se stesso per sua natura: all’origine, prima del latte della madre e prima dell’acqua del battesimo del sacerdote”.

Così nel 1972 la scoperta proponeva la vitalità riferendosi a una funzione cerebrale nuova. Non, come d’uso, per riferirsi ad azioni di forza muscolare. Si diceva: “Deve(**) esserci una attività generale diffusa e specifica della corteccia cerebrale umana che sviluppa le forme successive di creazioni immediate e imprevedibili, di strumenti per vivere. E poi il superfluo: che smentisce il riposo, il contentarsi.”

Vitalità è una carezza elettrica che deposita una mantiglia sulle circonvoluzioni cerebrali e rimane dalla nascita per sempre(***).

Fu, suggerisce la licenza poetica, la proposizione di far intendere in modo del tutto nuovo una parola antica, senza sapere quanto tempo sarebbe stato necessario per verificare la veridicità della proposizione.

Le definizioni che ne sono scaturite sono numerosissime e incalzanti e la funzione non si mostra mai in modo lineare. Non vale, per le manifestazioni già innumerevoli della vitalità, il principio della fisica classica di ‘realtà locale’. Essa non è mai una volta per tutte in un unico luogo.

È opulenza agile e insonne che non si ferma e dovrà essere trovata, come il bosone di Higgs, attraverso la misura di tutto ciò cui ha dato luogo. È una dannata funzione fondamentale! Che impegna migliaia di psichiatri in definizioni progressivamente migliori e più puntuali della scoperta della cosa nuova della quale si era ipotizzata l’esistenza necessaria  con esperimenti di pensiero (speculazioni) a partire dalle forme di una realtà umana ancora paradossale e sconosciuta.

Forse provocherà qualche sentimento di disdetta  l’eventuale conferma definitiva che quella famigerata funzione esiste.  Sarà un tragico trionfo per la antropologia corrente, quando si traccerà, negli Istituti Superiori Di Ricerca, l’evidenza della funzione che consente (e corrisponde a) l’origine dell’io neonatale.

Per adesso si tratta di insistere a ridefinire per avvicinarsi.

“Essere al mondo”

La frase va pronunciata lentamente, con premurosa attenzione, dando aria agli spazi tra le parole, guardando nella mente succedersi i passi dei componenti il quintetto d’archi mentre percorrono simultaneamente, con medesimo aggraziata danza, strade differenti, verso una stessa piazza.

Non è sùbito (oggi) il momento della musica piena.

note:

* (di Massimo Fagioli)

**(è un ‘dovere‘ inteso per inferenza: una esistenza ‘necessaria)

*** (non sempre, purtroppo, perché l’invidia è una attività contraria che aggredisce tutte le forme di originalità.)

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“io sono : tu sei”


Posted By on Mar 27, 2015

Tiro via i pacchi legati con fiocchi di corda. Dal marciapiede attraverso gli occhi fino in mente. Il latte ha le proteine e il caffè bruno spinge più veloci i mediatori della passione. Cammino sulle case e i tetti. La realtà psichica ha natura fisica. La passione migliora le prestazioni della vita mentale. Tiro su i fardelli di sogno che portavi da me quando ti eri ammalata. Ti spiegavo i miei pensieri in proposito alla tua variabile presenza là di fronte a me inclinando la testa per avvicinarmi a te: che non sentissi, nella mia pretesa di esattezza verbale, solo la mente scientifica. Non dovevi percepire la gravità del disturbo in quel momento, ma solo la grandezza di cui potevi (avresti ben presto dovuto) essere capace: il bello della estrema difficoltà.

Si impara dai suoni a parlare in tenera età: così sfruttai quella innata qualità di ciascuno. Non era importante mettere in chiaro un programma di terapia. Troppo dolore. Le tue ossa rotte scricchiolavano e coraggiosamente ridevi. Era l’inconscio malato di fronte al quale ponevo volontà intenzione e coscienza: il ricordo della formazione che dice “bisogna sapere cosa fare, perché si deve farlo e con chi lo stiamo facendo”. Questo implica che il medico deve essere capace di accettare di più della formalità teoretica per realizzare una capacità di pensiero individuale: io ero certo ormai, in quei giorni, che il non cosciente sarà in ordine ogni volta che saprà tacere e assentire rendendosi leggero come il cielo di primavera sui fiori di ciliegio delle stampe giapponesi: stucchevoli fastidiose ma, infine, perfette!

Inchinavo il busto verso di te cullando le parole che poi soffiavo sul tuo viso e non vedevi che lanciavo baci a mia madre dal vetro posteriore della macchina la prima volta che volai via da lei. Si vuole dare la vita ai genitori da piccoli ma nella vita adulta razionale in pochi lo scoprono perdendo così molte funzioni della loro anima che resta povera e bisognosa. Volevo darti la vita. Non so se una prerogativa del medico abbia a che fare col gesto di dare la vita con un bacio da lontano. Con il volo di petali dei fiori dei ciliegi che durano un giorno. Se ha a che fare con la fatuità di un gesto unico e irripetibile che salva la vita e va via. ‘Medico’ dunque deve essere stato quanto riuscivo a pensare di me nel chinare il viso e il busto verso di te nel parlarti

“Può venire sempre in questo giorno della settimana proprio a quest’ora”.

Era la composizione del linguaggio verbale cosciente che esprime contiene e protegge l’immagine di sè differente da tutti. L’oro della facilità di un sorriso non alterava l’altra più potente certezza cosciente di stare realizzando un contratto. Il sorriso del normale inizio di una cura nascondeva l’altra consapevolezza: ora siamo legati per sempre ed io non potrò più stare male ed essere distratto o assente con lei. Avevo già le due poltrone blu che mi concedevo come unica esile certezza di realtà fisica ben composta nel timbro cromatico davvero notevole.

“Un gran bel blu!” come notasti, subito prima di annegare senza accorgerti nel mare di attese che avevi disegnato negli anni fino ad allora. Il resto dunque sarebbe stato fantasia, capacità di immaginazione e linguaggio verbale cosciente.

Bisogna star ‘bene’ per riuscire a non assentarsi. Dimenticare tutto per la non intenzionale prevalenza dell’interesse per l’altro. Nessuno si fida che sia possibile. E confidano nella natura di menzogna delle parole della relazione, e neanche verrebbero se non fossero certi nell’animo che l’interesse non esiste. Così anche con te la ‘menzogna’ terapeutica cominciò ad avere i suoi effetti: eri felice per una serie di bugie che raccontavi. Che era amore unico. Ed io non rifiutavo le tue idee. Lasciavo che si sviluppasse il ‘transfert’ positivo. Perché la realtà psichica ha natura fisica e la felicità è sempre una ‘cosa’. Qualunque ne sia l’origine.

Così nella stanza tu avesti la tua prima ‘cosa’. Tu (che avevi perduto il seno, e come tutte le persone normali portavi le tue promesse fiorenti gonfie di disperazione, come fossero al contrario seni gonfi: l’uno di latte e di miele il fratello) avesti inspiegabilmente quella ‘cosa’ -che credevi impossibile/sparita- in cambio dell’altra cosa che promettevi per nascondere la disperazione di averla perduta.

Ora che si poteva intuire una realtà diversa dalla impossibilità e dalla disperazione dovevo impedirti di distruggerla. Non ‘dovevi’ avere più il ‘potere’ di distruggere i ragazzini, gli amori e le parole, come apparve immediatamente evidente che avevi imparato a fare da tempo immemorabile. Non dovevi potere dico non secondo un ‘giudicare’ di ‘valori’, ma per sapere che -avendo la vita psichica natura fisica- la distruzione delle cose immaginate porta inevitabilmente ad una alterazione fisica invisibile che corrisponde ad una lesione di funzioni.

Allora, in piena coscienza e con ferrea determinazione, cominciai a disegnare quella cosa del tuo pensiero che era comparsa come felicità e come terrore dell’esistenza di una ‘fisiologia del benessere’. Cominciai a disegnare disegnando tutto quello che capitava. Era il mio contro/transfert. Disegnavo le cose che mi passavano per la mente. Non copiavo la realtà esterna. Era un modo di amarti continuando a mentire. Le bugie diventarono una galleria di spunti di inchiostro e acquerello. Fissavo il disegno delle cose che dicevi con le puntine colorate al muro grande bianco. Fissavo ‘la vita’ dei disegni sulla ‘morte’ bianca: la storia che non potevi dire: la tua morte per assideramento.

Io mi tenevo meglio che fosse possibile in quelle circostanze estreme. Quando andavi via restavo sull’isola australe a sud della Terra dei Fuochi. Studiavo i viaggi di Magellano. Il passaggio a Nord-Ovest dei pazzi navigatori che inauguravano gli oceani: avevano un oceano di impazienza più grande di quello che volevano solcare. Bisogna avere un orizzonte dentro la mente come un sottile filo che tenga lontano il pensiero dalla disperazione e dalla certezza del nulla per avventurarsi in quello che non si conosce. È l’attrazione per la ‘donna’.

Si vuole dare la vita alla madre nel dare il nome al mare che si perlustra. Riservavo al padre la poltrona degli sconosciuti. Mio padre era la maschera del cinematografo che ci accompagnava alle poltroncine di velluto: fino ai tredici anni del mio desiderio. Le interpretazioni sono sempre il primo bacio. Si mente nella cura che si riserva alle parole. Quello che Freud non avrebbe potuto poi dire mai più. Dopo infatti lo trovammo fuori di sè a allucinare una continuità tra la funzione cerebrale del feto e la vita mentale del neonato dopo la nascita del pensiero alla fine del parto. Quando nascono cose nella mente a causa della nascita. Quando nasce la mente alla nascita. Inavvertita/mente.

Stamani tiro su pacchi allineati sui marciapiedi chiusi dallo spago colorato e mi ricordo improvvisamente solo degli ultimi cinque anni. Il blog di Operaprima come contro/transfert.

E ci sei ‘tu’ nella strada e ci sei sempre stata. Forse ci sei da quando volai via la prima volta da mia madre e la vidi allontanarsi dal vetro posteriore della macchina di mio padre che mi portava a giocare lontano. Da quando riuscii a salvare qualcosa dal dolore, dalla paura di morire. Da quando pensai che non era detto che lontano da me, non più protetta dallo sguardo magico del mio amore sarebbe morta. Da quando l’angoscia di essere cattivo si attenuò e potei pensare ad un oggetto non distrutto e dunque non precario. Potei distrarmi forse. Pensare a me libero dal dovere del mio amore magico onnipotente. Fondare la necessità della scienza e della conoscenza. Da allora ci sei e di fatto sei in quanto resta di identità personale per vivere la mia vita che nacque allora come pensiero non più disperato  dell’incurabilità.

Ora posso mettere insieme vita personale e comprensione progressiva della ‘scoperta scientifica’ e sono certo che la vita mentale ha natura fisica che se non viene distrutta annientata e dispersa nel vento dei campi di sterminio allora poi cresce si sviluppa e si può averci a che fare fino a farle trovare la capacità per scrivere:

“Io sono : Tu sei”

E le cose saranno più facili e meno dolorose. Anche se nessuno ci aveva sperato. Si cresce anche senza amore. In attesa di quello che poi arriva. Tale possibilità di immaginare la legittimità del proprio amore senza oggetto si definisce, nella ben nota teoria della nascita, “certezza che esiste il seno”. La capacità di immaginare del neonato è attualmente riconosciuta come patrimonio della specie alla nascita. È risultato per adesso, in ambito scientifico, che essa è indispensabile per la cura della malattia psichica e, in ambito artistico, che è alla base della realizzazione della bellezza. Non sappiamo se -o quanto tempo dovrà passare fino a che- essa sia in grado di difendere poi per sempre la salute ritrovata  e le opere alla fine realizzate… dalla pulsione di annullamento: che è quanto le si oppone come specifico disumano dell’uomo.

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come può essere?


Posted By on Nov 14, 2013

Disaccordo con le figure di potere. È cominciato inavvertitamente da un certo momento in poi, come possibilità non remota di separazioni senza rabbia e annullamento. Pronuncio i comandamenti: Sono dio sopra di te e sopra ognuno degli altri. Non avrai altro dio all’infuori di me. Mi cade a terra quello che stringevo. Manciate di semi. Siccome inaspettatamente non si determina la rabbia, la mano non tiene il pugno contratto e capisco che è in questo ‘lasciare la presa’ che stanno certe altre possibilità. L’aquila che volteggia senza fame non è più ‘rapace’. Le ranocchie sul prato vivono giorni stranamente ininterrotti. L’aquila ha dimenticato fame e sete forse a causa di una transitoria anomalia metabolica. Fatto sta che non compie il gesto impulsivo della caduta. Questa aquila simbolo, rivela una funzione nuova del pensiero, e -come io feci trent’anni fa- seguirà altri voli. Andrà salendo a precipizio e gettandosi verso la lana di una nuvola/agnello sarà un uomo che non uccide. Aquila che non ha il riflesso del lupo. Trenta anni fa -non come un predatore forse per quella nuvola di anni di terapia- almeno una volta ti ho seguita e ho fatto quanto ti avevo visto fare.  Una sola volta ma una volta per tutte: come dev’essere, credo, nella disposizione di voler bene. E come è bello che possa essere non ho avvertito né rischio né sospetto. Con te ipotizzavo che stavolta poteva finire senza l’omicidio. La biologia, quella volta, ha escluso la mitologia. Durante le sedute della cura del mio rapporto malato recuperavo l’allattamento e, grazie alle parole dell’altro, grazie al canto di suoni differenti della ‘sua’ voce, non c’è stato tempo per organizzare nella mente la prospettiva del nulla cioè la picchiata dell’aquila rapace su Sisifo incatenato. La ‘sua’ voce rompeva nella mente la concatenazione degli eventi che in genere disegnano la prospettiva culturale di un ‘pensiero unico’: il punto di fuga essendo il nulla (il nulla nascosto nell’agire giudizioso delle previsioni così acconcio di menti prudenti). Avveniva il contrario: avvenne che il benessere relativo all’intimità dei corpi si riflettè alle pareti della grotta col ricorso a disegni ma non a simboli verbali. La stanza del medico alle mie spalle assumeva significati differenti ogni volta, per lo più arcaici. Stavo per lo più disteso sul cotone che copriva la seggiola lunga all’ombra di infissi forti. Tranne camminare due passi e mezzo dalla porta al lettino e distendermi dopo essermi appena volto verso di ‘lui’ a rubare un’espressione mimica qualunque, poi rialzarmi distendendo le gambe forti e, recuperata la stazione eretta dirigermi confuso verso la porta da cui ero entrato per regredire e innamorarmi, quando era possibile. Negli anni che sono seguiti, mai li ed allora, l’intimità fisica del corpo del bambino con il seno è assurta ad una scena di rincorsa leggera di rami rotti di ossa fragili di prede che volano sulla pietra. Allora né ‘lui’ né tanto meno io, avevamo abbastanza poesia, cioè non avevamo abbastanza competenza scientifica, per trovare una tale espressione a proposito del primo anno che si ripercorreva. Adesso faccio la ricerca sull’assenza, nei disegni di caccia alle pareti delle grotte, di segni corrispondenti ai fonemi del linguaggio accanto alle cronache dei giorni. Forse un’altra anomalia durante lo sviluppo del pensiero umano verso la propria completa espressione. Dico così: “Allora, sebbene cacciatori, essi avevano menti non rapaci e disegnando nel buio preistorico non hanno mai cancellato niente. Hanno aspettato e aspettato e aspettato come nelle favole. Hanno aspettato il disegno che corrispondesse al suono delle voci umane”. Forse sbaglio ad immaginarmi che essi avessero già tutta la civiltà. Che i segni che vennero poi, corrispondenti ai suoni della voce umana, contengono il silenzio della pazienza che li aveva preceduti. Nell’interpretare i sogni e le dinamiche del rapporto ‘medico-analizzando’ resta una traccia di mutismo, di silenzio, un segno invisibile di rispetto per il mistero della genesi del linguaggio. Al centro dell’insediamento si guarda il fenomeno inaudito di un’aquila che sale a prendersi le nuvole. Un essere senza la reazione dell’istinto. Come può essere?

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“essere”

Adesso che non ci sei più, che ti sei presa i giorni e gli anni della vita futura, ho i miei momenti di dolore. Non che fossero tutte rose e fiori, prima di adesso. Ma non era dolore. Era altro, come un ‘normale’ mal di testa o una infiammazione nervosa. Adesso è come morire, riconoscersi fragili perché la luce e la materia -inanimate- sono troppo potenti non avendo quella natura il pensiero. Ora è chiaro: una distrazione può determinare lesioni mortali. Quanto ci vuole per tornare quello che ero e non avere dolore?

Dicevi ‘…vieni, non sei bastato, vieni…

E seppure io adesso mi sia persuaso che tu esagerassi il tono della recitazione telefonica, la scelta delle tue parole era accurata ed esse -le parole- erano così adeguate al mese di agosto che non osservammo i nostri cambiamenti, non demmo peso alla nostra incipiente capacità di immaginare una differente magrezza. Capacità che aumentava, giorno dopo giorno.

A questo punto del discorso si deve dire che avemmo lo stile magniloquente(*) degli attori del muto e le impronte dei protagonisti che calcano inquieti e inafferrabili le scene i giorni che fummo alla rotonda notturna del gelato artigianale e dire che insomma tutto è stato: sintesi di letteratura e seno e di rossetto dediche fogli e brevissime fughe, e tutto è stato anche: decisioni lampi strisce scure tagli al montaggio per la stesura finale del film subito prima della partenza.

La magrezza chiarirà cosa esattamente volevo dirti. Dirti che c’ero e che sarei diventato quello che volevamo che fossi cioè che sarei riuscito a dare corpo alle cose che capivi insomma, ma tutti lo sanno e lo hanno sempre saputo, che io sono così testardo che proprio fisicamente sarei diventato questo per chiarire i processi psicologici tramite una specie di ‘trasformazione’ ANCHE fisica. Ero, io, ‘complemento’ (= ‘oggetto’ dico !!) di già più che ‘soggetto’. Figurati mi fanno più niente ( innamorato ) -e già niente potevano farmi- le accuse di protagonismo pensando come sempre penso se almeno riflettessero sapendo cosa é lo sfondo teatrale della passione.

Calcare dunque la scena strascicando un poco l’andatura -sai, ieri- mi hanno dato da interpretare il personaggio che si perde nella sera insomma si perde svanendo nel trucco delle luci di scena che non semplicemente ‘muore’  ma appunto strascicando invece accompagna il lento ‘svanire’ la danza dei chicchi neri lo sparo della polvere di buio contro la scoperta del fuoco che regna e protegge il sonno.

Dice svanendo anche la voce: “Amo in te la figura esile di me che non trovavo e invece eccola adesso che devo esprimere di averti solo in apparenza perduta“.

Il dolore della vitalità ‘restituisce’: come un elemosina senza il disprezzo della pietà. E poi allora la vita sfida la falsa speranza o l’augurio malsano di una certa processione di concetti ottusi che sfilano sotto le due finestrelle dietro le quali mi sono ritirato all’inizio del morire di dolore. Sono certo ora che guarisco che sai vedere in esse i miei nuovi occhi e il trucco del prestigiatore si, la ragazza segata rumorosamente in due (me ancora ‘oggetto’ altrui come sempre dell’altrui attaccamento) che dorme invece salvata e intera alternando l’amore sicuro dei due divani protetta dal muro dei libri dei disegni dei fiori dalle zanzariere che sbarrano il passo alla malaria poi esce identica ad una cicala all’inizio dell’estate.

Così anch’io ora ho una brevissima nuova nota un tatuaggio agli occhi un nonnulla come si dice che devi venire vicinissima a vederlo bene oppure fidarti. Di noi. Che non solo di ammalarsi non si ha alcuna coscienza ma neanche del guarire. La sanità ci coglie quando pensavamo che quel buio fosse la fine ed era invece il primo sonno dopo così tanto non riposare. Non mi era restato che lasciar correre il buio. Questo volevo dirti che “scrivere è coscienza di quanto è tornato“: il sogno dopo il dolore che non mi pareva di sentire e chiamavo ‘bravura’. Adesso non c’è più perché noi esseri umani sappiamo trasformare quasi tutto in pensiero verbale per tracciare i segni della scrittura che riportano la nostra piccola anima nel pugno chiuso di un neonato nell’attimo in cui la tensione della presenza intenzionale si allenta e il collo si flette di lato per guardare le cose scritte come si valuta un disegno con benevolenza siccome quel movimento non è che il corpo che ricorda un giorno in cui appoggiammo la guancia sul dorso della mano della ragazza cui eravamo stati affidati da una giovane madre triste per quel primo nostro brevissimo distacco necessario. Sappiamo trasformare l’angoscia di separazione nella conoscenza dell’amore.

nota: (*) devo la locuzione -davvero geniale- ‘stile magniloquente degli attori del muto’ all’ascolto di un podcast di RadioRai riservato alle ‘Scandalose’: in particolare alla puntata riguardante Eleonora Duse.

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