etica della corsa


non uccidere


Posted By on Feb 28, 2016

"subconscio" (a.b. undici anni)

“subconscio”
(a.b. undici anni)

Le mani: non uccidere, non far male. Lasciaci fare le cose e non opporti. Lasciaci in grembo a guardarci l’un l’altra. Sui braccioli di antiche poltrone. Sul piano di scrivanie ingombre di fogli. Ai lati dei piatti di ceramica bianca: mani buone apparecchiate pulite che sanno di sapone alla rosa.

Non uccidere non uccidere: le mani dei ragazzini che tendono le matasse di lana. I fili aggirano i polsi poi corrono nei gomitoli. Non uccidere. Non uccidere: il da farsi è altro.

Le mani affidano all’angolo delle case il peso del corpo. La fatica spinge il fiato di fumo caldo avanti nel cielo invernale. Non uccidere non uccidere: il maratoneta appoggia le mani sulle spalle dei corridori che via via incontra per spostarli dalla traiettoria immaginaria che porta al traguardo.

Non uccidere non uccidere: nelle mani con l’impazienza di una mente di fuoco. Le mani hanno spinto via tutti senza fare nessun male. Per ore che sono secoli. Non uccidere. Lui sorpassa l’ultimo concorrente alla testa dalla corsa.

Non uccidere: le mani che sventolano leggere infaticabili come ali all’estremità di un arto tecnologicamente perfetto. Che si appoggiano al vento. Sanno cogliere i punti di spinta alle pareti d’aria innalzate dalla velocità della corsa.

Non uccidere. Non fare mai male. La sofferenza fisica si distende sulla strada che si stringe e stritola le ossa dentro un vicolo senza uscita. Non uccidere: le mani perdono sangue. Non smettono: avanti indietro alternate. Obbedienti. Ecco il da farsi. Spingere la mente senza pensiero.

Non uccidere. Non uccidere. Non uccidere. I passi dettano la morale della corsa e della vita.

Poi. Viene la luce. È una porta di ferro colorato. Le mani si gettano avanti. Spingono sui battenti della porta inattesa. Il traguardo non era più nella mente. Solo il ritmo c’era. Per ottundere il dolore dello sforzo con l’illusione dell’innocenza assoluta. Non uccidere.

Non uccidere.

Le mani strappano le ragnatele: tutta la mancanza di libertà di una gara olimpica che costringe all’obbligo della fame della sete della fatica. Che dovrebbe rendere cattivi. Non uccidere, invece, è venuto alla mente.

Il filo bianco di lana si infrange sul torace. Ad un estremo è ancora tra le braccia distese del ragazzino che uno è stato, dall’altro estremo arriva fin qua dopo tanti anni e si attorciglia spinto dal vento e dalla sua leggerezza attorno ai polsi del vincitore.

Non uccidere. Non uccidere. Le mani continuano a ripetere. Strette sul petto. Non uccidere. Salgono al viso e si fermano alle guance scavate. Prendono tutte le parole spezzate durante la solitudine della corsa e le mangiano ora come il pane che è mancato lungo quaranta chilometri di silenzio.

Non uccidere non uccidere non uccidere: mani sul viso come la preghiera di un colpevole uguale alla gioia disperata di un vincitore incredulo. Si capisce sempre assai poco anche nelle vittorie sofferte. Non uccidere: perché sapere di potercela fare rende migliori.

Portano una bandiera. Un lenzuolo. Il vincitore non ci pensa su. Mentre lo stadio si vuota si addormenta sulla pista con le mani che tengono il viso e cantano l’odio che non c’è.

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