impertinenza


chutzpah


Posted By on Ott 15, 2014

‘Chutzpah’ in israeliano significa ‘impertinenza’. Come avessi trovato una statuina di sabbia nella traversata del deserto la raccolgo e cerco di pronunciarla. In Israele, sotto la certezza delle bombe e la minaccia continua della morte, c’è il più altro concentramento di start-up del mondo. Senza speranza prolifera l’intelligenza. Raccolgo la parola, il suo suono, dunque non per caso. Ma per la simpatia di una somiglianza di attitudine. So bene la grande differenza di misure. So bene che il paragone è formalmente indegno se visto dalla parte di una popolazione a rischio per (anche e non soltanto) le decisioni dissennate dei suoi governanti. Tuttavia. Raccolgo la statuina di sabbia nella sabbia, la parola di suoni incomprensibili tra altri suoni riconoscendole una somiglianza con le idee cui si riferisce perché anche nel mio mestiere si impara a lavorare senza speranza. Da me si lavora sempre dove non c’è speranza, coi sottoprodotti di terre desolate. Si lavora letteralmente senza la speranza. Insieme a persone che non c’è l’hanno più, la speranza. Si lavora con caparbietà. Con volontà e dispetto. Aggiungo che si lavora anche con chutzpah. Lasciamo alle braccia dei coinquilini di consolarci. Ai larghi sorrisi che si va a procurarci e che alla fine ci rivolgono le ragazze che non pensano a noi perché esse guardano i fidanzati bellissimi asciutti e sfrontati. Si cerca nelle spine come si tende il braccio alle more grosse viola alte vicino al cielo e senza alcuna pretesa. Senza speranza, ripeto. Vecchi e giovani siamo uguali, ugualmente attempati da tutto questo cercare di tante sere. Si cerca con gusto sprezzante di una identica condivisa vecchiaia. Con divertimento si sfida l’idea di una fine impossibile. Che non sta da nessuna parte nel reticolo di miliardi di cellule neuronali. Che si perde tra i centomila miliardi di connessioni tra loro. Appena ci si ferma a bere alla fontana si pensa ad uno slalom dei cuori sulle cunette e alle giravolte sulle piste d’argento di velodromi periferici. Dicevamo da tanto di evitare il centro. Di scorrazzare sulle linee di fondo e portare la palla lungo le linee del fallo laterale da una porta all’altra. Sappiamo giocare oramai le partite. Nel post- tutto, in questo post tempo che succede alle scoperte si è desolati di non esser arrivati prima, di non aver anticipato il resto. Più che curarmi di una formazione eterna io guardo la strada correndo tra i campi che uniscono il mare e le colline. Sudore e musica. Urlo ai grilli, tanto alle una per strada non c’è quasi nessuno. Saranno a pranzo penso. So che la pesante digestione contrasterà i loro progressi di comprensione. Piango le sorti della civiltà occidentale e non vedo quanto sono desolatamente isolato. Sono quasi certo di diventare un girasole o un olivo uno di questi giorni. Questa quasi certezza accresce l’allegria e il disprezzo per le consuetudini. Volando come una rondine lungo i fossi di campagna per la provinciale mi viene in mente di disegnare un volto. Il concerto di un imprinting restituisce ai miei pensieri la dolcezza. Non è disumanità il rifiuto. La rabbia non c’è l’ho. Altrimenti non avrei saputo restare così tanto tempo a giocare il ruolo del cursore sulle fasce. Avevano sognato tanto tempo fa, nella forma di transfert calcistico, il più bravo libero del mondo. Trascurando l’idealizzazione il ruolo non mi dispiaceva. Deve essere successo qualcosa da allora se io invece mi penso un’ala tornante. Chissà quando tutto è cambiato? Questi ultimi anni, penso, per via del cambiamento del mondo. A causa del tempo rosicchiato dalle nuove frontiere dell’informazione. A causa della permeabilità dei confini di mondi non più inaccessibili e del tempo che tanto più si accorcia per la velocità degli scambi tanto più si addensa in me. Sono così giunto ad oggi, all’articolo oltre il numero ottocento. La conoscenza di altri suoni, parole di altre lingue, per dire concetti che conoscevo ma che in quel linguaggio sembrano voler dire altro. La densità del tempo come entità fisica quasi fosse una cosa con una sua massa rende l’idea di come il vento delle parole, che fa vibrare il timpano, possa poi tradursi in correnti elettriche lungo gli assoni delle fibre nervose e esercitare una azione fisica sulla materia cerebrale che consente alla funzione mentale di creare una differente immagine. O di trasformare immagini precedenti. Per questo con una certa fatica disegno. Sarebbe facile lasciarsi andare a spostamenti segmentari delle dita sullo schermo. Non lo è perché avverto che c’è qualcos’altro differente da una figura da disegnare. Ci sono idee che agiscono sulla attività corticale delle aree motorie che lasciando inalterata la volontà apportano variazioni alla figura. Impertinenza, cioè, per meglio suggerire quel che succede, chutzpah.

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