la dote delle parole


Jafar Rouhbakhsh (riproduzione vietata)

Jafar Rouhbakhsh
(riproduzione vietata)

Mente, coscienza, auto-consapevolezza, identità. Le parole si inseguono, in uno spolverìo di pulviscolo dorato, al passare del podista silenzioso. Sviluppo il benessere legato alla figura del panorama ridondante di dune infinite. Certe figure hanno, implicite, idee che possono farci stare bene o male. Il deserto -quello geografico come quello delle pareti quasi nude che ho voluto esporre al muro delle ultime pagine- porta con sé l’infinità asciutta di dolori evaporati cui sono state asportate bisacce gonfie di ulteriori lacrime. Il deserto è la nostra pelle che abbiamo salvato, l’epidermide restituita dalle cure dei bendaggi. Lo svelamento di una cicatrice pulita e guarita.

La ricerca delle oasi, uniche non ambigue certezze di vita, è una necessità accettata una volta per tutte. Un impegno alla passione pur in assenza temporanea di un oggetto d’amore. Le esili silhouette dei nomadi ondeggianti in cima alle loro magre cavalcature, non si sa perché, rassicurano che il peggio non accadrà. Nessuno sa perché il sole dei deserti ha sulle figure umane l’effetto di una riduzione della massa senza sottrazione di forza. Poi la figura umana, addensata attorno alla linee dei suoi segmenti cinematici, trasmette a chi la guarda esercitare il movimento, una inspiegabile sensazione di fiducia.

Si deve dunque affermare che il deserto sia popolato di invisibili presenze, anime di coraggio ed esperienza della stessa composizione delle anime delle guide di alta montagna. La solitudine, per tale predetto motivo non disabitata, fa del deserto una realtà geografica metafisica differente dagli stilemi  pittorici. In un’infanzia che si è salvata dalla distruzione, sono con noi, nel deserto, esseri pratici dei pericoli degli ottomila metri, che qui cavalcano muti, a livello del mare e talvolta più sotto, questo mare di sabbia.

Hanno occhi neri grandi che maturano tra i rami di alberi rovesciati le cui radici sprofondano nelle luminose fornaci del bianco di calce tropicale. Nel formarsi del reticolo dei rami le infiorescenze abbelliscono le rughe dei volti di quegli abitatori erranti. Più in basso la crescita, che produce fioriture in schemi prescritti dei rami nuovi, lascia individuare i segmenti delle braccia e delle gambe di ciascun componente la tribù in marcia. A guardarli così gli esseri umani sono frutti pendenti, regali.

Mente, coscienza, auto-consapevolezza, identità. Le parole si inseguono in uno spolverìo di pulviscolo dorato ma ora, dopo che il pensiero -con la natura di durata- ha risolto l’attesa, suscitano meno timore. Non sembra più che un giorno non si possa riuscire a fare chiarezza. A farci un idea di come potrà essere un essere umano che ora non si riesce a pensare gran che diverso dai presenti e vivi.

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