L’angolo del grande palazzo in primo piano nasconde il corpo del saltimbanco quando si sposta sulla strada: il personaggio sparisce e riappare come nella mente delle persone ripetutamente fanno: la felicità, la fortuna, la salute, l’amore, la speranza di vita, la certezza della morte.
Il saltimbanco è il disegno di una cosa dentro la mia mente. È l’immagine silenziosa di gambe e braccia flesse secondo angoli acuti che delineano un corpo perfetto.
Lo sfondo ha un rigore sordo. I palazzi sono baleniere. Le facciate si concludono alla linea di prua di coteste navi pietrificate sul mare del progetto urbano.
Il saltimbanco invece, anche muto, grida. È infatti il disegno di un dolore. Il dolore quando il pensiero cosciente non ha le parole è soltanto movimento per esser certi di non morire.
Il disegno del saltimbanco -cioè questa certa rappresentazione del dolore indicibile- nasce dalla memoria del corpo trasformata da una azione della mente che viene definita fantasia-ricordo.
Abbiamo incisa addosso l’esperienza della nostra inermità perché siamo stati esposti, prima o poi, al rigore della distrazione. Una massa di aghi sulla pelle è il corteo della cerimonia degli abbandoni.
L’abbandono dà forza ai sogni in cui accadono cose che non dovrebbero accadere. Più spaventosa di tutte la vita senza amore. Se diventa certezza è la pazzia.
Ho fatto un saltimbanco, figura bislacca di una esclusione. La paura della morte fisica sono angoli acuti. Il mutismo é il lusso della mente sopravvissuta. L’energia del corpo perfetto è un insulto.
La figura è la vita che cerca l’amore tra navi metafisiche di acciaio cavo. La natura umana e la natura non umana, il rosso e il nero. È una scommessa radicale sull’ultimo banco di gioco all’ora di chiusura.
Una figura forte in precario equilibrio compare e scompare tra i palazzi di una città. Dalle finestre riflessi di luce accecante lasciano pensare agli occhi di vetro delle bambole.
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