teatro


17 gennaio 1904, Mosca, la ‘prima’ de “Il Giardino dei Ciliegi” di A. Chekov. Si conclude col rumore di un cavo spezzato. Stanislavsky (il regista) lo ottiene percuotendo tre cavi di metalli diversi insieme ad un breve rullo di tamburo. Chekov ammirato della riuscita dell’effetto scenico promette: “Scriverò un’opera teatrale che comincerà così: ‘Che meraviglia che silenzio! Non si odono né uccelli né cani né cuculi né civette né usignoli né orologi né campanelli e nemmeno un grillo canterino…’ ” Fu ironia per sottolineare la perfezione esecutiva di Stanislavsky. Che sarebbe stato privato di ogni rumore dal silenzio. Ma noi andiamo alla ricerca di sfide. E pensiamo che ogni mattina il sogno è affidare uno stato d’animo ad una traccia che è solo rumore di figura. Che rumore di figura già è coraggio di fantasia, ed essa è condivisione e consenso alle conseguenze del sonno. Cerchiamo sugli esiti e le circostanze e le cause di ogni transitoria privazione di coscienza e parola, di autocritica operante e linguaggio parlato. Aderiamo con convinzione allo scandalo: il miracolo della percussione che realizza lo strappo e invita a vivere momenti inevitabili di perplessità avviandoci verso l’uscita del teatro. 

I lampioni all’aria nevosa (deve esserci stata la neve a Mosca il gennaio di quell’anno) stanno a rischiarare una ulteriore espressione scenica neanche più rumore e vibrazione. Privata anche del cigolìo di una intenzione, perché dovrà sentirsi la composizione della panna dell’assenza dei suoni, all’apparire della figura dell’attore. Una imposizione non appena si alza la luce dell’inizio. Uno scherzo, il silenzio: che, in genere, è un fragile tiranno uguale, per ferocia inconcludente, all’assenza di un padre. E trasformare ‘quel’ silenzio, in silenzi e segreti di un personaggio diverso, meno fatale, o addirittura benefico, che impone il dominio con mani lievi, che tolgono tutto quanto era stato, e al cui passaggio il tempo viene invertito. Un silenzio come un tempo tirato su come una rete o una vela, scomparso come acqua assorbita in grani di sale che diventa umidità da saggiare con la mano che affonda nel sacco di grani grossi. O da misurare secondo la tavola dei colori, un estratto rosa nei chicchi di riso. Una tintura appena rilevante. Il silenzio che sia morte dei soliti suoni e fine della realtà abbandonata. Il bianco di un anno di stenti e di freddo che muore tra le braccia e sul viso di un ombra imbiancata di luce. Un’assenza differente dal buio.

Insomma l’altra faccia di un cavo che si spezza e al di qua la restituzione di un padre. 

I neuroni sono affollati a forme di stella -e non secondo strisce di chiaroscuro- nelle aree afferenti della percezione del silenzio, la quale costituisce una autonoma configurazione molto attiva nella composizione delle masse di lavoro durante la fisiologia a scoppio -o esplosiva, meglio dire- che reagisce alle assenze improvvise e all’ira immediata delle sparizioni, che è così specifica che anche la distribuzione anatomica ne viene implicata. Perché il silenzio non è innocente. E diventa organizzazione non solo della gerarchia delle cose del mondo, ma anche dentro, dentro di noi e là dentro dunque diventa struttura e poi funzionamento e dunque addirittura l’autonomo prodursi di uno stimolo fisico che realizza un inevitabile conseguente modo di pensare, subito dopo che gli ammassi a forma di stella dei neuroni specializzati hanno misurato il sufficiente grado di quiescenza. E si compone l’idea di un genere di eroina sporadica, un faro nella sabbia. Le forme del romanzo ricalcano il disegno anatomico stellare, solo che qua fuori è una cicatrice. Il segno di uno sparo sulla spalla. La forza di lesione delle punte sui fogli. 

Il silenzio è la messa in scena dell’immobilità di un esercito di marionette. L’eco degli arti di legno caduti insieme in un applauso storpio. Un non finito degli amori impotenti e anche tutte quelle morti nella guerra. Piacerebbe dire la grandezza del pensiero in faccia alla neve che non è freddo e nemmeno negazione ma storia appassionata. Per questo bisogna che gli scenografi lavorino a costruire platee accoglienti. Trascurando gli attori. Fidando in un pubblico migliore. Ora siamo minacciati intellettualmente. Non stiamo comodi dove stiamo e abbiamo necessità di essere circondati di forme migliori dove sederci. La stanchezza è una forza che agisce da fuori. La crisi di panico è l’inizio della guarigione perché nella campagna si è sentito un grido terrificante, una bomba di pezzi di legno è caduta vicino simulando una voce umana e ora bisogna parlare a lungo del silenzio. Inventare un suono che si sciolga in scenografia palcoscenico illuminazione e figura. E poi dare inizio a tutto ciò che resta senza spiegazioni. Riuscire è gratuito. 

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Il 17 gennaio 1904 va in scena la ‘prima’ de “Il Giardino dei Ciliegi” di A. Chekov. al Teatro d’Arte di Mosca sotto la direzione di Kostantin Sergeevič Stanislavskij e di Vladimir Nemirovič-Dančenko. Si concluse col rumore di un cavo spezzato. Stanislavsky lo ottenne percuotendo tre cavi di metalli diversi insieme ad un breve rullo di tamburo. Chekov, ammirato della riuscita dell’effetto scenico, promise: “Scriverò un’opera teatrale che comincerà così: ‘Che meraviglia che silenzio! Non si odono né uccelli né cani né cuculi né civette né usignoli né orologi né campanelli e nemmeno un grillo canterino…’ “

Ironia per sottolineare la perfezione esecutiva di Stanislavsky. Che sarebbe stato privato di ogni rumore dal silenzio sbandierato subito da un attore. La messa in scena del silenzio sarebbe stata la prova più difficile, in vero impossibile. Ma noi andiamo alla ricerca di sfide. E sappiamo: ogni mattina il sogno è affidare uno stato d’animo ad una traccia che è solo rumore di figura. Che rumore di figura già è coraggio di fantasia, consenso alle conseguenze del sonno. Cerchiamo le cause le circostanze e gli esiti a seguito di ogni -transitoria- privazione di coscienza e parola. Il rumore dello strappo di un cavo. Un uomo è stato rinchiuso per sempre in una casa abbandonata.  E’ la fine del Giardino dei Ciliegi, e la percussione dello strappo ci precipita verso l’uscita del teatro.

I lampioni all’aria nevosa ( deve esserci stata la neve a Mosca il gennaio di quell’anno ) stanno a rischiarare una espressione scenica senza rumori e vibrazioni. Né uccelli né cani né cuculi né civette né usignoli né orologi né campanelli e nemmeno un grillo canterino…solo attori di polvere. Il silenzio può essere un fragile tiranno, uguale, per ferocia inconcludente, all’assenza totale del padre. O può essere silenzi e segreti di personaggi addirittura benefici, che impongono il dominio di mani lievi. Un silenzio come una rete o acqua assorbita in grani di sale o chicchi di riso, invisibile.

La tintura appena rilevante del silenzio è assorbita diffusamente nella vita psichica. Si concentra nel rumore di un cavo che si spezza, alla perdita del padre, a altre necessità conseguenti. A quel suono si possono immaginare neuroni che si affollano in una supernova nelle circonvoluzioni mute. Masse di cellule di fisiologia esplosiva, che reagisce alle assenze improvvise come la messa in moto di un motore a scoppio. Il silenzio non è  percepito come una cosa innocente. Diventa organizzazione non solo di una gerarchia acustica delle cose fuori, ma anche delle cose dentro di noi e là dentro diventa struttura e poi funzione.

Nella circonvoluzione del silenzio può originare l’autonomo prodursi di uno stimolo che realizza un conseguente modo di pensare non appena gli ammassi cellulari delegati  hanno misurato un sufficiente grado di quiescenza. E si compone l’idea di un genere di eroina ribelle sporadica, un faro nella sabbia. Le forme del romanzo ricalcano il disegno anatomico dell’accaduto: solo che qua fuori è una cicatrice. Il segno di uno sparo sulla spalla. La forza di lesione della punta della matita sui fogli. Il silenzio è la messa in scena di un esercito di marionette. E’ dunque una massa scenografica.

L’eco degli arti di legno fracassati. Un applauso storpio di invidia. Piacerebbe esordire sempre e soltanto con ingressi sonanti la grandezza del pensiero. Ora però siamo minacciati intellettualmente. Non stiamo comodi dove stiamo e abbiamo necessità di sedute ergonomiche, nonostante tutto. La stanchezza è una forza che agisce da fuori, e solo il lusso può guarirci. Ora bisogna parlare a lungo del silenzio. Inventare un suono che si sciolga in scenografia palcoscenico illuminazione e figura. E poi dare inizio a tutto ciò che resta senza spiegazioni. Riuscire è gratuito.

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