Lev Tolstoj


poco importa tutto il resto


Posted By on Mag 23, 2012

Già saremmo disposti a cedere ad altre letture e andare avanti come superando le onde ma forse si dovrebbe affermare che è indispensabile non affrettarsi. Se qualcosa ci turba non si dovrebbe far finta di niente, perché è così che inizia la disfatta, la serie di lesioni infinite impercettibili alla vitalità, così che si guasta la fisiologia dell’attività globale che si incrementa e si ritrova nell’addormentarsi e si sviluppa attorno alle fibre diffuse nella trama del dormire. Detto una volta per tutte si sa quanto l’essere umano tremi a quelle profondità, quanto sia delicato il tessuto della fermezza, persino in coloro pronti ad ogni cosa che cadono comunque e più di tutti gli altri determinano guai inenarrabili nel corso della giornata al patrimonio di certezze di cui sarebbero essi stessi dotati.

Abbiamo qui il cielo di Andrej Bolkonskij e di Pierre Besuchov in un’opera letteraria che è un’esegesi inevitabilmente spirituale della vita. Ma i cieli di Tolstoi sono pienezza espressiva, sono  corpi sacri nascenti, distesi, bianchi, accartocciati attorno ai fuochi stellari, scuri, lucenti, senza fine, fondi gelati per fili di perle nuvolose. Hanno la forza espressiva per riferirsi alla passione di una globalità. Hanno la vita nelle parole di un credente, di un autore della religiosità più intensa di quanti se ne conoscano, eppure si impara là a chiarire aspetti realistici della vita psicologica. Uno Chagall angelico vola nel cielo impressionista poi espressionista che fa miracoli figurando una idea di cielo più bella del cielo. Spirito e divinità, in quel cielo oltre il quale non c’è nulla, sono al massimo quello stesso cielo che finisce in sé, che in sé resta contenuto e profondo tornando negli occhi degli uomini. Che ne facciano quello che vogliono di quel cielo misurabile diventato parole, che contiene nuvole, comete, se stesso e il nostro penultimo sguardo prima del pensiero introspettivo. Dipenderà da quello che riusciremo ancora a trovare nella ricerca. “Chissà… speriamo” mi dicevo.

Poi ho copiato tutto. Ci sono corpi assiderati e surriscaldati nei romanzi russi. Ci sono gradienti. Le figure dei protagonisti sono ineccepibili sculture d’oro e neve, di ombre e di ghiaccio e di granturco e fango per via che ogni elemento della natura ha fornito la carne per l’animazione delle persone. E’ una letteratura sacra, non religiosa. La mistura è mischiata di elementi incorreggibili e ognuno di essi risponde solo a se stesso. Per la somiglianza di certi componenti che accomunano uomini e donne differenti e lontani non è sempre facile tenere distinte le figure e leggendo si sente scorrere di fondo il suono di parole sconosciute: il linguaggio leggero ci confonde come fossimo molto vicini nelle stanze a sussurrarci cose personali e segrete.

Anche se noi possiamo articolare parole piene e complete e ben composte tra loro, ci confonde e ci emoziona la concretezza di questo linguaggio che abbiamo trovato studiando una volta ancora i classici (insomma dopo che poteva sembrare abbastanza quanto si era studiato e paragonato e imparato a memoria). Ci confonde: e ci rende ingenui poiché ci confonde. E quella confusione però paradossalmente aumenta la nostra confidenza con il fruscio della lettura silenziosa, cosicché solo adesso ci pare di capire tutto. Io ho solo copiato per condividere, come si dice. Poco importa tutto il resto. Il resto, voglio dire, verrà dopo.

Andrej Bolkonskij: ” Aprì gli occhi sperando di vedere come fosse finita la lotta dei francesi con gli artiglieri e col desiderio di sapere se l’artigliere dai capelli rossi fosse stato ucciso o no. Se i cannoni fossero stati presi o salvati. Ma non vedeva nulla. Sopra di lui non c’era più nulla se non il cielo, un cielo alto, non sereno, ma pure infinitamente alto, con nuvole grigie che gli strisciavano sopra dolcemente. “Che silenzio, che quiete, che solennità. Non è più come quando correvo” -pensò il principe Andrej- “non è più come quando correvamo gridando e battendo, non è più come quando l’artigliere e il francese si strappavano l’un l’altro lo scovolo con visi rabbiosi e spaventati, non  è così che le nuvole scorrono su questo cielo alto, infinito. Come non lo vedevo prima questo cielo così alto, e come son felice di averlo finalmente conosciuto. Si tutto è vuoto, tutto è inganno, fuori che questo cielo infinito. Non c’è niente, niente al di fuori di esso, ma anch’esso non esiste, non c’è nulla al di fuori del silenzio e della tranquillità, e dio ne sia lodato.”

Pierre Bezuchov: “Era un tempo ghiacciato e chiaro, sulla strade fangose e mezzo buie, sui tetti neri c’era un cielo scuro e stellato. Pierre, soltanto a guardare il cielo, non sentiva più l’offensiva bassezza di tutte le cose della terra a paragone dell’altezza dove si trovava l’anima sua. All’entrata della piazza di Arbat un enorme spazio di cielo stellato e scuro apparve agli occhi di Pierre. Quasi a metà di quel cielo sopra il Corso Preciskenski, circondata, avvolta da tutte le parti di stelle, ma distinguendosi da tutte per la sua vicinanza alla terra, la sua luce bianca e la lunga coda levata in alto, c’era l’enorme, luminosa cometa del 1812. Quella stessa cometa che annunziava, come dicevano, ogni sorta di sventure e la fine del mondo. Ma in Pierre questa splendida stella, con la sua lunga coda raggiante, non risvegliava nessun senso di paura, al contrario. Pierre, con gli occhi umidi di lacrime, guardava quella stella lucente che, dopo avere percorso con indicibile rapidità spazi incommensurabili, secondo una linea parabolica, a un tratto, come una freccia che si affonda nella terra, pareva essersi infissa in quel punto da essa scelto nel cielo nero, ed essersi fermata sollevando energicamente la coda, scintillando e giocando con la sua bianca luce, fra le innumerevoli altre stelle sfavillanti. A Pierre parve che quella stella rispondesse pienamente a ciò che era nella sua anima, raddolcita e fortificata, che si schiudeva ad una nuova vita.”

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