miliardi di anni


Farò farò farò. Ho già un milione di anni. Ricordo i canti di parole. Ho costruito una strada grande irregolare intorno al filo del viaggio. Ora è rimasta in possesso dei cammellieri. Siamo già stati sul lago salato. Abbiamo ben capito i kibbutz. La mentalità dei primi insediamenti. Abbiamo preso il ghetto come esempio. Siamo stati diaspora. Poi ci siamo raccolti. Come un grappolo. Per maturare avvinti uno gli altri. Siamo agnelli. Non è soltanto una metafora. Siamo talmente inadatti alla guerra. Finiremo per essere sacrificati. Coi nostri figli neonati. Se invece (improbabile…) ci lasceranno vivere. Beh, allora, forse. Intanto battono le campane. I visitatori si sparpagliano in giro. È pomeriggio appena cominciato. Il mio milione di anni si è già seccato sulla pelle. Il suono di campane in aria arde tutto con timbro asciutto. È quel modo di strizzare gli occhi se ti guardo. Va da solo. Tutto sta negli ottanta miliardi di cellule cerebellari. Il cervelletto che non serve per pensare. Ma modula il pensiero. Apre e chiude. Strizza le rughe di espressione. Al mento. Alle ali del naso. E misura il pomeriggio. Il cervelletto calcola la meteorologia muscolare. Miliardi di neuroni inutili per la coscienzializzazione. E tu infatti attorcigli elegante gli spaghetti. Dipani e tessi i miei pensieri. Io che sono una stuoia di guerra. Il tappeto di preghiera di un muezzin. Tu che sei una mitragliatrice dietro la duna di fango. Io che volo ad ali spiegate sulla curva dei campi. È la tundra l’abitazione del gelo umido. Non si può che essere zoccoli di alce. Quando viene il precipizio del galoppo. L’influenza febbrile dell’adolescenza. La malaria nelle paludi fradice dei desideri. Il pensiero è una prassi, cioè un modo d’essere. Allegri. Prevalentemente. Che non è un miracolo.

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