numeri razionali


‘sei’ e ‘un mezzo’.


Posted By on Mar 4, 2017

C’era il numero 6 e 1/2. C’era il ragazzo con una ragazzina. Era stata lei a dire quel numero come fosse una valutazione. Gli ho risposto che erano un numero intero e un numero razionale che può esprimersi come il rapporto tra due numeri interi.

Forse una prima idea di identità maschile e femminile. Deludente quell’intero che in rapporto a se stesso darebbe sempre uno, mai due, mai la relazione. Differente dal numero razionale che è sempre il rapporto (ratio) da cui prende il nome.

La donna e l’uomo per essere in relazione non possono essere parti complementari di un intero. Comprendere il sogno, dire uomo e donna numero intero e numero razionale significa che 6 e 1/2 sono esseri umani irriducibili l’uno all’altro.

Non c’è soluzione del rapporto uomo/donna in forma di risultato di un calcolo matematico. Il sogno dice differenze irriducibili e rifiuta l’idea che uomo e donna ricompongano l’unità. Dice che solo due identità possono fare la relazione.

Abbiamo continuato a parlare del rapporto tra segmento di retta e arco di cerchio, del calcolo dell’area del cerchio per mezzo del pi/greco, della diagonale del quadrato di lato uno che secondo il teorema di Pitagora si definisce radice quadrata di due.

Di fronte ai numeri irrazionali il rapporto di psicoterapia si scioglieva nello strascico di cifre infinite dopo la virgola risultante dal rapporto tra la misura di enti geometrici di natura incommensurabile.

Il numero intero, sei, e il numero razionale, un mezzo, sono navi nell’afa del Mare Nostrum. Sotto lo specchio ustorio dell’interpretazione si sviluppa il rapporto uomo/donna come esclusivamente irrazionale.

Due identità di natura differente creano una speranza per uno spazio di rapporto che contenga un futuro. Era due giorni fa. Sembra un secolo.

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Una nota musicale e una linea ferroviaria monorotaia elettromagnetica a sospensione di costruzione russo/cinese eseguita dalla grafite della matita al titanio: supervelocità del futuro in atto già vivo oggi che quasi piove. Il quasi è una entità semidiscreta dalla quale viene l’estesa frontiera, la terra di nessuno dove si cammina in silenzio con compunzione e scrupolo e grande sfarzo in pensiero e carezze.

La parola carezze esprime una ossessione innocente che traversa il pensiero: come in cielo una nuvola. O un rosa elefante che distrae la memoria.

Perdonamenti. Perdonazioni. Perdonanze opposte alle mattanze della mattità. Allegria contro la mattìa del rigore morale senza scopo. Studiamo i fonemi sfrondando con le mani certe radici pendenti da alberi millenari che sono come la pioggia che arriva da domani e dopo ma sono circuiti di feed/back neuronali che modulano la scelta di ogni singola parola e lungo il profilo sonoro di ogni parola suggeriscono:

“Svolta qua… fletti la pronuncia sull’accento… torna! torna! riposa alla groppa della emme, smorza sulla consonante zeta, poi canta e poi frena e sussurra un apostrofo di silenzio accenna, un singhiozzo trattenuto e….. ci sei! ecco la forma della esatta pronuncia che esprime il pensiero…”

L’aspirazione al vero: eccola la trama della vegetazione di radici di spine – quei lunghi sottili coni affilati – che si offrono in eccesso sulla domanda sul mercato dei viandanti. Il vero è una inarrestabile pretesa che consolando anestetizza e poi affonda nella mano che avanza oltrecortina, oltre il dolore del divieto alla conclusione di una verità definitiva, posto dalla natura fisica della realtà che si riproduce sempre generando sempre solo somiglianze.

È l’idea dell’evoluzione che non è la storia la medicazione per cui se penso un palmo ferito non sono più solo perché la mano e il sangue accomunano l’individuo ai vincenti sorteggiati nelle diverse lotterie: e si vince fortunatamente (solamente transitoriamente) l’estrazione gratuita del corpo estraneo acuminato.

Da medico, diversamente sognavo “Si vincerà la fine della febbre acuta con piante medicinali avanzando il resto di ignoranza come credito per la ricerca. Intanto si ingannerà la natura con mimesi omeopatiche.”

Da aspirante disegnatore sognavo: “Noi, generati insieme sotto la chioma del fungo verde novecentesco, sconfiggeremo la nostra evidente invidia per la genialità delle opere -rinchiuse dall’invidia più sottile ed invisibile dei critici in musei quasi inaccessibili- generando con pochi colpi di martello i volti di pietra assorti e distanti di maschere africane.”

Da studenti in giro per la provincia “Scolpiremo, non senza bellezza, profili arcaici. Poi li getteremo nei canali sotto casa e ci godremo la confusione e la sorpresa di giornalisti e passanti, guardie comunali e marinai di ventura. Questo artificio, per un poco, sarà riso e allegria, libertà dal rigore dietro il paravento della riproduzione approssimativa dell’arte. O almeno delle linee che la compongono.”

L’intelligenza compie un’artificio guidata da ricordi arcaici del singolo e della specie: che oggi come allora basta guardarti per trovare l’essenziale, voglio dire il numero razionale che è il rapporto tra la misura dei segmenti che uniscono i tuoi occhi alle tue labbra cosicché ogni volta il viso amato è un triangolo d’amore uguale ad un altro viso. Uguale (*) alla prima cosa che vedemmo, dopo che la luce accecante della nascita ci aveva costretto a chiudere gli occhi.

(*)Non proprio uguale ma quasi.

Sono numeri della relazione estetica e dicono chiaro che non ci siamo più evoluti, anche se ci siamo assai dati da fare per realizzare forme differenti di relazione economica e sociale. E che ancora cerchiamo nell’origine la legittimazione alla nostra presenza per tutto il tempo che siamo vivi, il tempo deserto prima che inizi la storia di ciascuno di noi con l’altro.

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