Nuvolari


Dire della malattia che passa con la bellezza e con il fascino che si subisce. Della cura con l’isolamento e l’attesa di risposte. Se è realistica la struttura fisica della materia, secondo la teoria che il tempo inutile è finito, la malattia è una configurazione come un’altra e se ci trovassimo bisognerebbe pensare di realizzarne una differente, di quella sorta di configurazioni. Distruggere strutture e ricostruire con un progetto assolutamente nuovo e sconosciuto. Ideare un movimento adatto che, cioè, non abbia una precisa direzione: solo scuotere, rimboccarsi le coperte, fremere, guardare lungimiranti di fianco, abbracciare il primo che passa, sgridare la donna amata per niente, cercare e trovare il coraggio sotto forma di poche monete al fondo della tasca dei pantaloni azzurri.

Bisogna studiare le variazioni nella relazione tra quanto abbiamo definito ‘tempo‘ e quanto ‘pensiero non cosciente‘. Che il tempo risieda nelle trasformazioni è del tutto accettabile. Ma poi le trasformazioni sarebbero solo spostamenti nello spazio? O tempo è quello che ci accade nel trovarci in altre circostanze? In questo campo della ricerca, ora che i fisici divenuti metafisici ci hanno consegnato il mondo in lascito ereditario, il nostro modo di pensare si costituisce come nelle piste delle corse automobilistiche dei primi del ‘900: derapare contro sterzo alle curve, accelerare subito mentre ancora l’auto sbanda, e trovarsi in piena velocità sulla dritta appena imboccata.

Regole nuove che sono invenzioni. Siamo diventati medici in tuta da piloti con occhiali di pelle e cristallo. Ci sono cresciuti questi due oblò da sommergibilisti sulla fronte. Siamo già diventati -oppure non ancora?- coraggiosi comandanti di veicoli improbabili capaci di effettuare manovre spericolare sotto la curva di intelligenza biologica cui si è spinta per adesso l’evoluzione?

Dunque è: la fine del tempo e: siamo sempre stati qua. Ogni luogo avrebbe dato origine ad una certa permanenza. Un giorno di malattia sta accanto al calendario dei mille giorni di benessere, nel capriccio del sole maya infido e tendente ad oscurità improvvise. Così potremmo pensare la crisi e il disturbo dell’ideazione. Non so se riusciremo a vedere spazialmente una storia. Penso che si deve fuggire ai giorni pesanti sulle spalle, deporre lo zaino da un lato, voltarci sull’altro fianco e pescare la trota di luce, il pesce d’oro nella vasca dei fotoni, che gli scienziati hanno lasciato incustodita, per inseguire (loro, esausti di sicurezze) le farfalle nell’orto di poeti e letterati e romanzieri e inventori di epopee. Che gli scienziati probabilmente avevano sempre segretamente invidiato.

Ora siamo dunque solitari e distratti sulla pietra. Riflettiamo -come nel ripassare una lezione che di fatto non potevamo aver studiato da nessuna parte prima di ora- suddividendo lo spazio infinito (non basta da sé l’infinità a liberarci dal tempo?) per un fattore numerico (una costante di umanità come la presenza o la densità affettiva) è strada e campi di girasole che si ottengono. E, riflettendo distratti, si osserva inequivocabilmente che è nel mezzo geografico di quel mondo che sfrecciano bolidi di figure infuocate e precipitano salme di principi spodestati. Pietre che rotolano con suoni ottusi dalle mura dei castelli, lungo i pendii vertiginosi che portano a valle. Basta che una cosa sia in noi ben viva… eh già.

Noi siamo il popolo vociante raccolto in declamazioni simultanee, felici per l’avvento dell’era delle rivoluzioni. Si procede solitari e composti, tra girasoli e papaveri da oppio, scansando con le mani le grandi teste gialle e le friabili guglie di petali rosso scuro che raspano e ondeggiano. Si raccolgono addosso a noi mastici di significato dolciastro, perché un ricercatore è una specie di coltivatore di droga, una forma appena differente, da quelle ben note, di trafficante contrabbandiere. Guariti, è per quel processo di adesione ed accumulo che ci si affeziona alle cose tra cui si avanza. Tanto più quanto più le traversate sono folte di curiosi abbracci. Si guarda il mondo dalla valle delle aquile, così detta perché traversata dai voli di scoperte di strane specie di scoperte ritenute, per adesso, quasi inarrivabili. Voli alti che sembra non debbano mai più scendere. Eppure, qua dove siamo, non si parla d’altro.

Anche nel teatro e nella commedia all’aperto non si allude che a certe nebulose profondità alla malva, a sistemi nuvolosi colorati, a cumulo-nembi, cirri, e stratificazioni arancione: un cielo come una gelateria. Vivendo ben saldi sulle poltroncine di velluto, nella comodità di una specie evoluta, tuttavia il nostro pensiero sale dalla testa al cielo, alle aquile che, forse, ci proteggono dalla credenza in troppo aerei eroi. Che ci sarebbero fatali, spacciate come definitive. Noi, così abilmente distratti dalle nebbie e dai colori sfumati per l’imprecisione delle misurazioni, siamo tutto isolamento e feed-back che intervengono ad evitare un eccessiva coscienza di noi stessi. Essa genererebbe il ritardo e l’ombra che sono (sarebbero) -di nuovo- malattia.

È l’inutilità la sostanza della comprensione delle cose. È l’amore per il buio che ci consente di chiudere gli occhi ogni sera nelle camere per dormire. Buio e inutilità sono state da decine di migliaia di anni la sostanza dei nostri amori. Ora, per intenderci, è divenuta la ben nota gioia di un accordo durante le pause nel bar, lo sguardo gettato su una cima di papavero nel mazzo di fiori di campo davanti alle colazioni nella settimana bianca. Ma noi siamo ancora, come sempre, (cioè nell’ambito spaziale di una configurazione di…) buio protettivo dei pensieri e insulsa felicità celebrativa: noi, esemplari di una specie tra le più complesse, che abbiamo saldato un patto per la giornata: niente potrà accaderci nella pancia saporita della nube arancione dell’accordo, nel mistero condiviso su quale sia la materia del contratto che tiene saldo ogni patto sociale.

Viviamo, quasi assolutamente sicuri, la vita di relazione nell’amorevole oscurità del sonno di passione. Parliamo, discorrendo, per dire le caratteristiche della vita che trascorre a causa della bellezza e del fascino. La soluzione degli enigmi ci spinge verso la morte. Tuttavia non ci si arresta. La soluzione ci distrae dal procedere di spalle verso il futuro, e ci costringe per un momento a vederlo, quel panorama, volgendo le spalle alla storia degradante dell’ignoranza. La seduzione e il fascino sono l’unico modo di garantirci una continuità. Una saltuaria costanza. La malattia è infatti, con ogni probabilità, un eccesso di senso. Una incapacità attonita di differire appena un poco da noi. È guardare cautamente e soltanto in avanti, privilegiando il discorso diretto e propositivo che funge da rallentatore, poiché moltiplica le ipotesi per ogni passo da compiere, e aggiunge nessi strani al movimento e, alla fine,  frammenta il pensiero.

Solo Nuvolari, giunto fisicamente integro alla propria giornata finale, scampato agli incidenti mortali che avrebbero dovuto prevedibilmente ucciderlo, solo lui potrebbe spiegare come sia dolce, una volta compresa la questione dell’istinto, procedere a vivere irragionevolmente. Opponendo -il buio delle camere che scegliamo per il sesso e il sonno, -il chiaro delle finestre che abbiamo progettato con gli ampi davanzali per i fiori e le colazioni, -e l’insensatezza della composizione dei mazzi di papaveri e margherite nei bicchieri da vino che ci sono sempre parsi indispensabili alla festa….

Solo loro, Nuvolari e le aquile, potrebbero chiarirci come sia vantaggioso scegliere tutto questo panorama di davanzali, papaveri, e camere dell’amore fisico e dei sogni evanescenti per illustrare, con evidenza lieve e trasparente come aria di maggio, tutta questa evoluzione e corsa verso la morte che sono conoscenza e pensiero e, infine, scrittura senza attrito di terrore e di convenzionali discorsi di circostanza. Una corsa folle che, in cambio della circostanza estesa di una intera esistenza, ci allontani, sensibilmente, dalla stupidità.

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