pittura


è una pittrice di strada


Posted By on Mar 13, 2011

è una pittrice di strada

Dipinge in strada, nel tempo. Su quello che c’è già. Ha un coraggio, dato che su quello che c’è già nessuno scommette mai gli occhi. Come sulla spina invisibile sulla schiena della strega nessuno posò lo sguardo. Ipotesi, rischi a proposito di quanto c’è da sempre ma.

Ha lo snobismo dei lucchetti e in antipatia l’altro snobismo urticante che ha i lucchetti in odio. Non ha motivi. Il tempo è una ‘ragione’.  Ha occhi impenetrabili di chi rischia tutto su quasi nulla. Indossa scarpe rosse da ballerina classica sull’acciaio tagliente del bordo dei marciapiedi.

Lei è sempre stata una faccenda di sguardi e di movimento delle mani in aria. Questo famoso ‘sguardo’ è una strana realtà: particolare perché non è da nessuna parte.  E’ nella mente come parola. Anche il movimento è strano.

Noi e i nomi sono tutte cose nella nostra mente. Ci sono poi molte cose fuori di noi. Certe cose fuori di noi, tuttavia, sono solo il suono della voce che dice le idee che potrebbero anche restare per sempre silenziose.

La mente dà il nome alle proprie idee poi dice la parola e l’idea diventa esterna. Per il tempo che dura il suono della parola, l’idea fluttua nell’aria. Poi muore. Sparisce quando la vibrazione si spegne. La pietra scagliata prepotentemente si perde nella notte.

Le cose della natura sono strumenti. Ben altro è quando le sue mani sono intrecciate alle mie. Io amo: inconsolabile. Il suo profumo, che esiste, non posso prenderlo. Lei la mangerei. Mangiare lei non è retorica: è creatività del pensiero astratto.

Le pietre perdute nella notte è perché c’è una difficoltà degli occhi nel buio. La biologia ha limiti precisi. Le parole – il suono delle idee – quando spariscono nell’aria – non è per il buio. E’ per l’assenza umana. Assolutamente difficile concludere.

“,,, l’assenza – che non sia irreperibilità delle cose della natura,- è violenza a causa di un difetto d’amore…”

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ripetitori


Posted By on Mar 2, 2011

ripetitori

Una superba solitudine. Un isolamento spavaldo per godere di quanto resterebbe comunque indisponibile. Dopo il punto avevo piazzato le antenne per fare il perno dei due archi. Il campione olimpico di salto triplo mi aveva disegnato l’anatomia esatta del polpaccio per l’ultimo slancio. Mercurio l’autostrada di sabbia per l’atterraggio.

Per il balzo intermedio mi affido sempre alla spinta ultima dei fianchi prima dell’orgasmo. La sospensione in aria dei percorsi aerei: fai conto la ricerca dell’incorporeo, la cerimonia del tè. Pura letteratura. Nel punto di arrivo dovevi esserci tu. Invece. Ho scivolato con le ginocchia tese avanti.

La parola dolce aveva la potenza scricchiolante delle ossa lunghe degli arti inferiori. Per adorarmi -sotto l’asse verticale dei ripetitori- serve una che sappia di medicina e una che abbia risolto la decifrazione dei geroglifici che le coronarie dipingono attorno al mio cuore. Dunque ho risolto facilmente la settima proposizione.

“Ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere.” Ha il difetto degli amori infelici, dura tre parole di troppo. Tu eri il punto alla fine della frase e non la spiegazione del senso. Tu sei tu. Un soggetto amato. Sei ciò di cui non si può parlare. Sei. Ora questo sostiene la certezza della superbia e della spavalderia.

Alla cassa continua della biologia cerebrale – che e’ inarrestabile accordo con l’universo le stelle e la materia e l’energia del vuoto – deposito i miei sospetti ottimistici sulla definizione di VITALITA’. L’amore nasce da quei sospetti. Dimora nelle frasi brevi. E’ potenza dei pronomi. La sua fondazione e’ sul punto.

Non ha fine perché e’ geometria, pensiero astratto, realtà fisica come la realtà sicura della parola FISIOLOGIA. La fisiologia non e’ che un’idea di intelligenza delle cose fuori di noi. Sono atterrato sull’autostrada di sabbia ocra, portata qua direttamente dal deserto. Le ginocchia, ben puntate in avanti, sono isolamento e superbia.

Tu hai fatto scivolare le dita in profondità e hai portato le rotule fuori e le hai assaggiate come due pasticcini alle mandorle. Hai anche estratto il mio cuore e hai disegnato con la matita per le labbra. Io ti lasciavo fare. Alla fine ho cominciato la mia vita nuova. Mi hai provocato la sinestesia.

Ho chiamato tuo figlio con il mio nome e conosco il sapore delle nuvole. Credo di sapere cosa significa la parola ‘quark’ solo masticandola pochi minuti: significa che a volte basta. Che si ricomincia sempre. Che sulla spiaggia si potrebbe anche vivere: se soltanto. Che bisogna farla finita di chiedere. Spiccare il volo.

Che il pensiero e’ astrazione per legarci accanto gli amori per sempre. Che fa le parole in maniera strana, perché tu eri il punto alla fine delle frasi, di ogni frase che avevo pronunciato dalla mia presa di coscienza. Che non eri il senso della mia vita. Che me lo ero inventato che tu lo fossi.

Semmai nell’astrazione del pensiero tu eri LETTERALMENTE la mia vita. Eri le mie mani. Eri il salto triplo. Come dire che nell’astrazione del pensare il pensiero ha un eccesso di significati e infiniti possibili stati di esistenza. Quando arrivasti, io – che fa tutt’uno col mio pensiero – misi un punto e atterrai, dal salto, nel deserto ocra di sabbia.

Bisogna dire che l’uomo non e’ una macchia scomposta nella perfezione della creazione. Non siamo colpe che continuano a camminare. Siamo – così relativi a causa della soggettività del pensiero  – irriducibili all’assoluto disumano della divinità. Per amore, da millenni, noi continuiamo a fingere di aver capito.

Non è vero. E’ vero, semmai, il contrario. E’ vero cioè che -sebbene oppressi dal peso dell’insistenza dei ‘sacerdoti’ – tuttavia, non abbiamo mai definitivamente realizzato, nella mente, l’esistenza di qualcosa di altrettanto bello dell’imperfezione dell’identità. Noi siamo miliardi di amorose finzioni.

Sappiamo fingere, abbiamo plasmato le maschere che ci fanno tutti diversi. Dietro quelle artistiche apparenze sta l’uguaglianza della sapienza collettiva. L’universale umano è l’opposto dell’assoluto divino. L’idea astratta – l’immagine dell’altro lontano da noi – si oppone all’irrealtà dell’assenza di pensiero del religioso, che raccomanda il pentimento.

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ciò, di cui non si può parlare.

Ciò, di cui non si può parlare. Un muso allegro. Una zucca non tutta vuota. Quel poco che. Oppure. Fuori dalle vetrate colorate l’adorazione di Matisse per la propria poltrona. Virile potenza della sua vecchiaia mai sola. Apprezzo sempre più il riservato edonismo, l’intransigente silenzio, le fruscianti ballerine delle ragazze che volano sul selciato.

Rosso Matisse oh beh! Sei l’ombra danzante di te. Il tuo avatar un punto tra mondo e equilibrio. Ti dico, che gli amori tanto appassionati -così tanto che li definimmo ‘impossibili’- invece accaddero, e sono gli unici a non aver perduto il loro nome. Ora è tardi io brindo con il caffè dolceamaro, al coro muto delle quattro, agli io addormentati che da un po’ -sullo schermo- non aggiungono parola.

Alzatomi, la mia e’ una passione non sveglia -ancora- e la barista stilla tenerezza sui miei occhiali inutilmente scuri. Così, poi, imparo ad amare anche le bariste grondanti chiarezza, nuvole di schiuma, e aurore, a mattino avanzato. Sorseggio la tempestività del caffè, fatto espressamente – quell’io intimo e segreto che la nostra voce conosce meglio di noi.

‘ Tu, solamente tu, non ritorni più…’ al giradischi antico. I piedi che si muovono sul pavimento di mattoni. Abbracciato ad una torrida temporalità, a fine mattina. Hanno pubblicato un librone d’arte, che mette insieme due cose strepitose, come fosse arte anche l’accostamento. Matisse-Jazz. Non si può resistere. Ciò, di cui non si può parlare. Ecco il senso della frase.

Nel librone ci sono tante di quelle cose, che non lo aprirò. Era soltanto che andava comprato. Il dovere di appassionarsi a ciò che lo merita. Una forma di onestà, non una correttezza giuridicamente inappuntabile. In fondo, è a causa della mia sensibilità. Non voglio distrarmi dalle bariste, e neanche -in verità- dalle ballerine, con ballerine ai piedi. Erotismo. Inapparenza.

Si fa, quello che si fa di bello, per chi capisce. Si fa quello che si sa. C’è chi si rende conto, davvero. Matisse seppe rendersi conto che tutto non sarebbe rimasto disatteso. Tutto fu compreso. Lo spazio soprattutto. L’astrattismo delle linee. L’astrattismo non è che la loro purezza. Fotografato mille volte nella sua poltrona che era ‘astratta’ perché, suvvia, come poteva dipingere da là?

Certe pagine del libro, di uno dei due volumi del libro, sono doppie – e da aprire delicatamente. E’ una sofferenza, la semplicità: devastante. Un ignoto ben conosciuto. Ciò. Di cui non si può parlare. C’è. Davvero. Poi sei libero. Ci sono aneddoti di lui. Pensieri e narrazioni ammirate. Ci sono le cose sui sogni delle persone. Quell’aria confidenziale. Uno ne muore, in verità.

“But in the life of every man there is always some Thule lying dormant, some latent dream wich one day impels him to go journeying.” C’è una foto, 30×40, a pagina quarantotto. Una barriera, in basso -a un decimo di altezza. Il mare fino ad un terzo. Il resto è nulla – cioè cielo. Uno, di tre gabbiani, resta in basso a sinistra, sulla barriera. Non appoggiato sulla balaustra, però.

Gli altri due stanno nel terzo superiore del niente. E, mentre uno resta -annoiato- nella pagina quarantotto, il terzo, che vola nell’angolo destro in alto, entrerà certamente nella quarantanove. Ne ha tutta l’aria. Non ho abbastanza ricchezze per comprare quest’altro libro. Quello nel quale il gabbiano abbia completato il suo volo. E’ quello che significa restare spettatori. Ciò, di cui non si….

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il ragazzo cieco


Posted By on Feb 12, 2011

il ragazzo cieco

Poche righe. Un certo numero di respirazioni complete. Il paragrafo ha una fisiologia che lega l’organo e la predica. Il suono artificiale e la voce. Ci vorrà tempo a ricominciare. L’ idea di dio è l’astronave degli ultracorpi che occulta il proprio orrore.

Perché la letteratura non sia un comandamento. Perché il linguaggio non sia una preghiera. Sono finalità di superbia. Siamo appena usciti dalle tasche cieche di un gesuita segaligno. Chissà che ci crediamo. La superbia non è peccato, è suicidio.

Non più di tre righe. Metodi da infiltrati, da esercito di liberazione. Per non essere localizzati: la sintesi. Le mani sulla tastiera come nella terza di Rachmaninoff. Ogni mano dieci dita. Due armonie in guerra da suonare. La coscienza sarebbe la morte.

Lo studio ci ha resi capaci, alla fine. Ciò che è specificamente umano non affatica. Leggere, scrivere, parlare: con tutti. Trovare da dire. Non ripetere. Scegliere il deserto: il mondo della polvere ocra senza guadagno dell’eco alla voce.

Il deserto, nel suo niente, porta via e porta via. Nel gioco cadevi indietro e dovevi fidarti. Alle spalle la forza dell’amico. Delle sue braccia. La forza -si misura così- è uguale alla certezza del cieco. Il pensiero è un ragazzo non vedente di una bellezza mai vista.

Il pensiero umano è un ragazzo cieco che non teme il buio della materia.

Ha la pelle sana. Per via della polvere. La polvere secca del deserto -che il giorno è ocra e la notte annerisce all’improvviso- sospesa nel buio. La fisica della polvere ha poteri di guarigione -perché da sempre subisce quelle drastiche variazioni di colore.

Il deserto è dove andiamo ad aspettare. Noi sappiamo aspettare. Solo gli esseri umani aspettano davvero. Le donne dei nomadi dicono che aspettare è quando l’immagine di chi è andato lontano si lega al tempo e crea la parola ‘coraggio’.

Era notte nel sogno ed e’ notte al risveglio. Il sogno del tuo seno nella mano fa la differenza da ieri. Fa il tempo. La polvere nera del pensiero è polvere da sparo. Ogni notte la polvere nera del pensiero può esplodere nel sogno e illuminare la coscienza.

Il pensiero, il deserto e l’attesa.

L’attesa è metafisica delle piazze. Folla di manichini. Nero delle loro ombre. Restare in equilibrio su  ‘quasi niente’. Il niente che resta dopo ogni sottrazione che non sia rubare. Quando aspettiamo. Se sappiamo aspettare. Ci possiamo reciprocamente levare la malattia.

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caratteristica dell’ateo


Posted By on Gen 28, 2011

caratteristica dell’ateo

Caratteristica dell’ateo e’ manifestarsi. Offrirsi alla apparizione di sè. L’ateismo vantato è una subdola epifania di una possibile delazione. L’ateismo è pericoloso quando vuol permanere in una prospettiva. A noi servirebbe il peccato. La passione degli artisti che hanno vissuto placidi la rivoluzione. La piattezza delle divagazioni inspiegabili.

Come risoluzione estrema affittammo le case d’angolo. Abbiamo addirittura tentato di fotografarne lo spigolo – dove svolta la strada. Si fondano frasi da incoscienti del tipo -quando spunti oltre il muro mi lascio la morte alle spalle. Matisse a suo tempo disegno’ vetrate alle chiese.

Per l’ateismo serve la piattezza distratta del vetro. I colori dei vetri di Matisse che divinizzano la luce. La credulità calcola soltanto un prezzo in danaro. Lui era un principe del marciapiede -che disegnava in poltrona- e alleggeriva le chiese della loro connaturata pesantezza. Matisse era un dio e non era Dio.

Non serviva dimostrare se l’eternità esistesse o non esistesse. Bastò chiarire che la meraviglia non avrebbe potuto permanere. E che non poteva essere una volta per tutte. Che la meraviglia si ripete a spese della creazione. Che la creazione è -banalmente- una volta sola. Mentre noi abbiamo l’arte della tessitura.

Studiosi degli intrecci delle metamorfosi, teniamo il grembiule gonfio di bozzoli. Coltiviamo uova di seta e la fisiologia dei sogni. Aggiungiamo l’inutile alla città. Fondiamo la periferia. I vetri colorati della nostra casa sono spazi lontano dal centro. Sono pensieri felici. Piani. Capolavori di estensione sotto la luce.

La casa d’angolo ha questa storia: è vuota due volte. All’inizio e alla fine dell’amore. Noi siamo casa nostra. Abitiamo capolavori chiari. I giorni facili sono superfici. La leggerezza è comprensione del testo. Casa mia è fatta di spigoli leggeri. Non come le torreggianti chiese del centro irte di campanili.

Le case ben disegnate devono avere spazi inabitabili. Contenere la storia delle traversate. I porti delle spezie. Attracchi sottovento. Per capire: quando dici di no, mio amore, disegni angoli acuti: come il terrore che fa una casa vuota. I giorni difficili sono passi sul pavimento. I passi taglienti sul pavimento luminoso.

D’altra parte la prospettiva stanca. Mette in riga il pensiero e lo indispone. Io invece ho questa casa dopo moltissimo tempo. Sono un folletto e prendo decisioni per due. Non ho tempo per altro. Penso di restare perché sono incantato dalla perdita di prospettiva. Il mio amore per la casa è una proiezione d’amore. Il progetto è comune.

E’ che una casa d’angolo ti inchioda agli occhi di lei. Viene la luce da ogni lato. Non c’è tempo per altro che per lasciarsi abbracciare. Gli angoli mi appaiono come la prua delle corazzate senza munizioni. E poi, quando ti siedi di fronte a me, mi pare che tu sia Matisse sulla sua poltrona, che disegna linee di donne. Il colore in cima all’asta dei saltatori.

Qui ho capito bene l’orrore implicito nel progettare chiese. Una chiesa piega lo spazio, lo avvalla con perfidia. Ha l’estetica delle decisioni irrevocabili. Le chiese hanno un peso insostenibile. Ci precipitano. Sono a tal punto prive di grazia di dio – da aver bisogno che gli artisti permettano alla luce di entrare, disponendo vetri colorati secondo umanità.

Io, qui, mi appiattisco al passato di un attimo fa. L’invasione di luce, nella casa d’angolo, mi mostra l’importanza delle costruzioni. Le linee della scrittura sui fogli senza spessore, il disegno, i progetti negli ideogrammi. La flotta leggera delle api. Il loro lavoro senza peso, che diventa miele. L’assenza di te, non prestabilita, è l’arte di Matisse.

I vetri colorati della mia finestra sono la fine della paura.

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