precisazioni


natura della materia umana


Posted By on Mar 16, 2014

La potenza frusciante dell’ideazione si alimenta di fiumi succhiati traversando filtri di limpidezze dal fiume della pigrizia. I blocchi di coscienza sono affetti neutrali indifferenziati diffusi non ancora formati che restano accoccolati ma non fissati ai tratti logici (i segmenti rettilinei) dei legni della zattera. Blocchi caldi di giovani corpi naufraghi su isole pietrose. I frammenti verbali sono accenni di dita forti che rubano i granchi grigi e rossi sul nero della lava da portare ai denti che li immobilizzano per renderli inoffensivi alle labbra che succhiano via la polpa. La coscienza è un guscio disarticolato. Le parole si formano perché il vento di mare si insinua nelle vie della fortezza dove la polpa non c’è ormai più. Il linguaggio verbale ultimo corvo volteggia sulla testa del soldato nemico dietro il tronco a cento metri. Per l’amore il centro del torace è il bersaglio succulento di Cupido nascosto e Cupido è dunque un cecchino col becco d’aquila che strappa il cuore. Tanto parlarti è una pretesa di conquista perché ogni amore è il cimelio di un orologio cioè una pendola atomica per contare le ore che abbiamo disperse ma non scordate. Mi ero perduto sulla spiaggia del delta e contavo i tronchi grigi lisciati dalla schiuma. Si può non fermarsi più e chiamare solitudine Venere emergente dalle onde e allora chi guarda chiede come è possibile e non capisce che è la luce della spiaggia del delta la fabbrica delle armi di metallo per sterminare la noia in combattimenti isolati. Bontà, cattiveria, bravura, imperizia non consentono confusione di fastidi intermedi. Gli esseri umani soli non hanno la dialettica a causa di una indecifrabile contrazione del tempo che l’isolamento determina in loro. La densità necessaria a sostenere la solitudine rallenta ogni successione e gli scambi verbali si dilatano mentre le figurine degli attori divengono scure scure di puro carbonio. Nella ricerca in psicoterapia il linguaggio segue alla struttura fonetica delle parole. Si scopre che non c’è alcuna dialettica di istanze che garantisca una scelta coerente tra sinonimi alternativi per costruire il significato. L’ideazione varia tra scelte di amori ugualmente anarchici. È riflesso di come vanno le cose nella materia quando essa si assottiglia fino alla generazione del linguaggio. Il linguaggio che mantiene tracce della propria morfogenesi dai fonemi esprime la sensibilità dei fasci di sensazioni immanenti al suono delle frasi che si dicono. Forse nella relazione umana il latente invisibile è di esseri che hanno resistito alla disperazione della solitudine. Conoscono luoghi dove nessuno ascolta o guarda, dove non ci sono ancora mai stati quelli che ti guardano sorridendo non a te, ma solo alle proprie future aspettative nei ‘tuoi’ confronti. Si esce allontanandosi piano dalle sabbie dorate del delta. Dopo tanti passi, che quasi sprofondi ogni volta, non sono importanti le leggi di uguaglianza e libertà: nella solitudine non c’è uguaglianza e la libertà è fin troppa. Si esce piano verso una ricerca di base, ci si scopre diretti, non si sa come, ad uno studio accurato del fenomeno di generazione del pensiero, come se non fosse importante, adesso, la critica dei contenuti. Ci interessa la sua natura. Questo implica nozioni di estetica della scienza della materia, ed una certa resistenza all’attrazione delle abitudini normative della morale. In sintesi: si esce dalla solitudine che non ci ha disperati con una differente comprensione della natura della realtà umana. Potrei dire dell’intuizione che le ‘cose’ umane non sono come appaiono, sono migliori.

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Elias Canetti

“Le Voci Di Marrakech” di Elias Canetti

Le grida dei ciechi

Tento di raccontare qualcosa, ma subito ammutolisco e mi accorgo di non aver detto ancora niente. Una sostanza meravigliosamente lucente che non riesce a fluire rimane dentro di me e si fa beffe delle parole. Sarà per la lingua, che là non capivo, e che ora poco a poco deve tradursi in me. Si trattò di avvenimenti immagini suoni il cui senso si formò allora ma che non furono percepiti né definiti per mezzo delle parole. Stanno al di là delle parole. E sono più profondi e più ambigui delle parole. Io sogno un uomo che disimpari a tal punto le lingue della terra da non comprendere più, in nessun paese, ciò che dice la gente. Che c’è nella lingua, che cosa nasconde, che cosa sottrae. Durante le settimane che ho trascorso in Marocco, non ho tentato di imparare né l’Arabo né alcuna delle Lingue Berbere. Non volevo perdere nulla della forza di quelle strane grida. Volevo essere colpito da quei suoni per ciò che essi erano. E non volevo che nulla fosse attenuato da condizioni inadeguate e artificiose. Sul paese non avevo letto niente, i suoi costumi mi erano estranei, come la sua gente. A ciascuno capita di imparare, nel corso della propia vita qualcosa su tutti i paesi e su tutti i popoli. Ma quel poco lo smarrìi nelle prime ore. Mi rimase tuttavia la parola “ALLAH ”. Non potevo evitarla. Mi veniva concessa per una parte della mia esperienza. La più frequente, la più penetrante e la più persistente. L’esperienza coi ciechi.Quando si viaggia si prende tutto come viene. Lo sdegno rimane a casa. Si osserva, si ascolta, ci si entusiasma per le cose più atroci, solo perché sono nuove: i buoni viaggiatori sono gente senza cuore. Quando l’anno scorso dopo quindici anni di assenza mi accostai a Vienna, passai da Blindenmath, paese del quale in passato non avevo mai sospettato l’esistenza. Quel nome mi colpì come una frusta e da allora non mi ha più abbandonato. Quest’anno, quando giunsi a Marrakech mi trovai di colpo fra i ciechi, centinaia, un numero incalcolabile di ciechi, per lo più mendicanti, in gruppi a volte di otto, a volte di dieci. Stavano in fila a un mercato, pigiandosi l’un l’altro e recitavano una roca litania, eternamente ripetuta che veniva da molto lontano. Mi misi davanti a loro, immobile come loro, non fui mai del tutto certo che avvertissero la mia presenza. Ciascuno di quei ciechi tendeva davanti a sé una ciotola di legno per l’elemosina, e quando un passante gettava qualcosa in una di queste ciotole, la moneta offerta passava di mano in mano, tutti la tastavano, tutti la saggiavano, finché uno (questo era il suo compito) la metteva finalmente in tasca. Tastavano insieme, così come insieme mormoravano e gridavano. Tutti i ciechi offrono a chi passa il nome di dio e ogni persona, dando loro l’elemosina, può acquistare qualche diritto presso di lui. Iniziano con dio, terminano con dio, ripetono il suo nome diecimila volte al giorno. Tutte le loro grida contengono il suo nome in forme mutevoli, ma il grido, una volta stabilito, rimane sempre lo stesso: sono arabeschi acustici intorno a dio, mille volte più impressionanti di quelli visivi. Alcuni confidano soltanto nel suo nome e non gridano altro: c’è in questo una tremenda ostinazione. Dio mi si presentò come un muro al quale i ciechi davano l’assalto sempre nello stesso punto. Sono convinto che i mendicanti si tengono in vita più con le loro formule che con l’elemosina. Colui che grida è definito dal suo grido, continuamente ripetuto. Ce lo imprimiamo nella mente, lo conosciamo, ora egli è qui per sempre, è lui, nella sua caratteristica nettamente circoscritta, il suo grido. Non verremo a sapere nient’altro di lui, egli si protegge, il grido è anche il suo confine. In questo luogo preciso egli è ciò che grida, esattamente questo, niente di più, niente di meno: un mendicante, cieco. Ma un grido è anche una moltiplicazione. Il suo ripetersi rapido e regolare fa di quell’uomo un gruppo, c’è nel suo chiedere un’energia speciale, egli chiede per molti e intasca per tutti. ‘Pensa ai mendicanti, a tutti i mendicanti, dio ti benedica per tutti i mendicanti ai quali fai l’elemosina!’ Si dice che i poveri arriveranno in paradiso cinquecento anni prima dei ricchi. Con le elemosine si acquista dai poveri un pezzo di paradiso. Quando uno è morto lo si segue a piedi, con o senza prefiche gorgheggianti, molto velocemente fino alla tomba, perché il morto raggiunga presto la beatitudine. I ciechi cantano la professione di fede. Da quando sono tornato dal Marocco ho provato a sedermi in un angolo della mia stanza, gli occhi chiusi, le gambe incrociate, e ho tentato di dire per mezz’ora, alla velocità giusta e con la giusta intensità “Allah… Allah… Allah…” Tentavo di immaginare che avrei continuato a dirlo così per tutto il giorno e per una buona parte della notte. Che dopo un breve sonno avrei ricominciato, che avrei proseguito per gironi settimane mesi anni, che sarei diventato vecchio, sempre più vecchio vivendo in questo modo e che a questo tipo di vita sarei rimasto tenacemente fedele, che sarei diventato furioso se qualcosa me la avesse turbata, che non avrei voluto nient’altro, che avrei perseverato fino in fondo. Ho capito quanto sia allettante questa vita che tutto riduce alla ripetizione, nella sua forma più semplice. Era poi molto più varia l’attività degli artigiani che vedevo al lavoro nei loro piccoli stanzini? e le trattative dei mercanti? e i passi dei ballerini? e le innumerevoli tazze di tè alla menta che qui tutti gli ospiti prendono? quanta varietà c’é nel denaro? e nella fame? Ho capito cosa sono davvero questi mendicanti ciechi: sono i santi della ripetizione. Dalla loro vita essi hanno eliminato la maggior parte delle cose che per noi ancora si sottraggono alla ripetizione. C’è il luogo dove si accoccolano, oppure stanno in piedi. C’è il grido che non muta, c’é il numero limitato di monete in cui possono sperare, tre o quattro pezzi diversi. Certo, ci sono anche i donatori, che sono diversi tra loro, ma i ciechi non li vedono, e nella loro formula di ringraziamento fanno si che anche i donatori diventino tutti uguali.”

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