psicoterapia


approcci differenti


Posted By on Nov 1, 2014

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Vitalità. Da tanto tempo torna nel discorso cosciente. Aria tra i tessuti di sartorie, non sempre ricercate, e i corpi da velare. Non trovo di meglio. I racconti di maturità suggeriscono: devi esporre il problema della madre distratta. Psico dinamica. Ma la vitalità è già prima. Non proprio storia. Non solo materia all’opera. Comunque ora ha questo suo nome. E, divenuta pensiero, si disegna come una esperienza sensoriale mista. “AL COSPETTO DELLE TELE DI FONTANA”. Una figura umana ritta di fronte a quei tagli di canapa. Specie: ‘Homo’. Genere: ‘Sapiens’. Età sei settemila anni, al massimo. Questa figura di homo sapiens, sostanzialmente inalterato nella espressione posturale, presiede alla propria visione. Il senso d’essere soggetto si rinnova ogni volta e ora nello stupore. O nell’incanto. Canapa e tela tagliate. Non si può rifare. Come il colpo della lama di selce sul sasso. Così era la scintilla. Scintillante era stata e bruciante. Qualcuno aveva detto del dolore per schizzi d’acqua che ribolle sul fuoco. Avevo scritto: “Circoscrivo un’area poligonale dove vivo pensare. Entro la cui infinita enumerazione di soglie svolgo lunghissime pedalate brucianti. Le accelerazioni immagino luce.” Senza risonanza alcuna il tempo si è poi svolto. Nel sogno, dopo un giorno, c’erano solo queste bollicine arroventate di acqua. Quello. Poi la grande attività era ripresa. “Dove vivo pensare.” Allora hanno ‘capito’ che la frase si regge anche se non dovrebbe reggersi? Che non ‘vuole’ dire niente? Che in essa manca qualcosa e che rimanda a qualcos’altro? “Dove vivo pensare”: devo aver avuto la frase in testa mentre restavo fermo a ascoltare il clamore dello scontro. Erano parole di rabbia che vuol proteggere l’amore, e sospetti dolorosi di indegnità e colpa. Colpa e vergogna armi agitate di fronte ai nemici. Vuol dire che pensavano, e si erano proposti: “Andiamo a vedere se ha una scissione nella mente.” La scissione che viene dopo l’ossessione di prevedere ogni sbaglio. Con la frase “Come raccontare d’aver visto svanire l’euforia della nostra infallibilità?” li avevo anticipati: che si può accettare di essere ingiusti quando non si teme più il giudizio del super io ” sei cattivo… non vali nulla… dovrai dimostrare sempre un pentimento.” Alla scomparsa del fantasma alle nostre spalle si seminano i germogli di un erba smeraldina. La solitudine. Avevo infatti ripreso lo sport per amore dei campi in primavera. Le pedalate ora determinano felici contrazioni di flessori ed estensori sulla strada del mare. Tradotto: “Le accelerazioni immagino luce”. Pedalando rifletto su tutto quello su cui uno può riflettere. Oggi penso alle possibilità contenitive dei fenomeni di acting/out nella pratica dei ‘gruppi’ di psicoterapia. Perché due giorni fa acting-out e contenimento si sono attuati proprio nella stanza dove scrivo. Sebbene il lavoro inconscio dei singoli non li abbia ancora portati alla realizzazione cosciente di quella certa possibilità terapeutica di un ‘gruppo’, quello specifico gruppo che essi da anni costituiscono come insieme di persone ha svolto una funzione di contenimento della crisi, inconscia e poi comportamentale. Le persone che da anni si riuniscono qua non avevano avuto fino ad allora nessuna idea delle potenzialità della prassi che tuttavia ogni volta svolgono. Però in questo non rendersi conto trovo un limite loro e mio, una esitazione. Forse, mi dico è la perplessità e lo sconcerto che sia possibile trovarsi sempre in prossimità delle realtà più profonde senza controllare nulla, e dovremo avere più sfrontatezza. Mi dico anche, su un versante che riguarda un poco più loro, che forse non ‘vogliono’ ricreare alcunché. Paiono più che altro impormi il comando impossibile di non sbagliare mai. Forse questo realizzano e vogliono ricreare nella memoria: che ‘qualcuno’ accetti di ridiventare l’oggetto attuale di un antico trauma. Vedere in me cosa costa e che succede nel tentativo impossibile di obbedire ad un comando maligno: “Ti ordino di disobbedirmi”. Raccontano la disorganizzazione della mente della ‘madre’ che si oppose al neonato? Mettono in scena, in qualche modo, la genesi del legame ‘disorganizzato’ tra i componenti la famiglia che determinava una continua confusione? A me risulta evidente una certa forma di relazione sgangherata che, se rimanesse invisibile e dunque non trasformabile, manterrebbe la scissione perché riporta al trauma di un sorriso che scivolava malfermo sopra la smorfia di disgusto per una incomprensibile fobia, un inammissibile odio. Non è indispensabile per adesso chiarire tutto. Però sono riuscito a restare in quel vortice senza defilarmi. Ho scelto consapevolmente, per una competenza medica acquisita, divenuta intuizione clinica, di raccontare loro che quel ricordo è tornato a causa dei molti angoli bui della cultura psichiatrica, nei quali si agita il fantasma del perbenismo, che con forbite interpretazioni isola i pazienti di cui ha ribrezzo. Certo che intanto posso ridurre l’affetto intenso di angoscia a causa di un fantasma, proponendo una figura di psichiatria/madre di nuovo accettante e disponibile. Poi chiariremo la danza macabra tra Civilizzazione e Kultur che dovranno studiare, appena staranno meglio, per capire i nessi tra individualismo e cristianesimo, tra ideologia della libertà e ideologia dell’uguaglianza. Per riprendere una lotta non disperata. Dovremo studiare le radici della natura del conflitto nella storia delle culture occidentali per rifiutare amabilmente o meno amabilmente una ignoranza patologica. Amplieremo l’area del contesto per sostenere meglio quanto ancora grava sui pensieri, senza parere. Il nesso tra le nostre capacità di stare insieme agli altri con le esigenze di rifiuto proprie dell’io individuale…. Intanto raccontando dei mali del presente, dove esso è uguale a ‘ieri’, riusciremo a rendere accettabile l’inaccettabile, perché torni un poco alla volta la funzione del pensiero che per guarire e andare avanti deve cambiare. La figurina eretta guarda il quadro. Dove sta un taglio e non è chiaro a cosa alluda. Si leggano alcune interviste di Fontana e si vedrà che non era proprio allegrissimo. Ma mi serve perché insomma si era determinato pochi giorni fa il nesso strano tra l’oggi e il momento di un tempo lontano quando -dopo anni di una nauseante incertezza a proposito della nostra legittimità d’essere….- risuonò l’accusa di essere cattivi che ci fece disperare per sempre. ( … Fu uno ‘strappo’ che preludeva al vuoto? Certo niente di buono….) Così alla fine l’ho accennato con circa dieci righe sghembe e poco attente, con quelle righe di penna a china, quel momento di stare fermi di fronte ai tagli di Lucio Fontana che qui, tuttavia, prestano l’idea di una scoperta artistica alle necessità di curarsi, con la bellezza, la memoria.

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“GRAFFITO”
©claudiobadii

Mi prenderò la libertà di confidare in noi. Tu ci hai descritti. Definiti. Io, senza neanche una parola di avvertimento disporrò di te. Tu sei la presenza intellegibile. L’amore, voglio dire, è quel tipo di capacità che si può avere di porsi di fronte all’altro che, improvvisamente, si sente capito, di non dover spiegare nulla. Si può non averla questa capacità di alleviare, intanto, tanto di quanto prima pesava agli amici ai commensali agli ‘altri’. Gli altri, alle persone dotate di una certa capacità appaiono comprensibili sempre. Questi che hanno la capacità hanno uno spazio intimo nel quale i cosiddetti ‘altri’ possono riposare le loro ossa rotte. Quando siamo profughi dagli scontri di piazza contro la polizia del dittatore e quando siamo profughi dalle torture della polizia segreta dei rapporti privati. La polizia segreta dei nuovi strumenti di controllo poliziesco, i Facebook, i WhatsApp, i socialnetwork, come si chiamano i moderni luoghi del narcisismo collettivo.

Serve una qualità di grandiosa modestia. Far sentire gli altri legittimi. Il grande male, la tragedia diffusa, la polvere di gesso che copre tutti… è la ‘certezza’ della propria illegittimità, il senso di precarietà, i numerosi sospetti a proposito di sé nel momento che si comincia a riflettere su noi stessi.

E’ stato necessario studiare, prepararsi, essere previdenti faticando quando erano grandi le forze. Abbiamo studiato lungamente. Abbiamo scovato, traversando dalla teoria psicoanalitica freudiana disperata e parziale alla nuova scoperta della nascita, poi guadammo la prassi terapeutica il fiume dello Stige, l’interpretazione della realtà psichica, l’annullamento della realtà materiale, il rifiuto delle scuse coscienti per il sapere dell’inconscio che, però, faceva dimenticare tutto. Dunque troppo. Gli analizzandi mangiavano le focacce di pane dolce per dormire e non uccidere più. Ma non era ancora il tempo della loro vita, perché il transfert era idealizzazione e loro -nel sentirsi ‘bene’- invece erano ancora fragili, ipersensibili, irritabili, neuroastenici, deboli, impauriti, isterici. E non essendo ancora il loro tempo di vivere restavo fermo anche io nella relazione di scambio, senza nessun margine di ‘resto’, senza nessuna altra possibilità. Non era, voglio dire, nemmeno il tempo della mia vita. Il contro transfert risentiva dell’obbligo di accordarsi sapientemente al transfert. Era impossibile, di fronte alle loro evidenti difficoltà (a capire a vivere a trovare la forza a superare l’isteria a superare la fragilità a superare il loro odio verso di me che li rendeva nevrastenici) che io potessi avere la calma per vivere ‘normalmente’ … ed il contro transfert era solo disciplina di lavoro, difficoltà, inquietudine, paranoia… “Poi ce la fanno a farmi fuori…”

Decenni di parole e di pause, ogni volta sette giorni. Avevamo fatto tanto per dividere il tempo in frazioni non decimali per accordare il ritmo delle pause e degli incontri alla luna alle mestruazioni alle fasi calanti e crescenti. Al sangue. Trovavamo con le mani cieche quel sangue secondo un sapere che veniva dal nomadismo delle dita sul seno materno profumato dei primi momenti. Fasi crescenti e calanti. Le imposte aperte e poi accostate per fare giorno e sera secondo il sonno reciproco del neonato e della donna. Lontano dal mondo della produzione del padre. Abbiamo studiato per trenta anni. Aprire il libro. Chiudere il libro. Fase crescente, gli occhi sono saracinesche, persiane, che calano si serrano fanno il buio artificiale per sognare una comprensione, per chiudere le braccia attorno a te e fare l’amore. Per chiudersi a te e lasciarsi succhiare il latte come non ci fosse altro.

Lo studio dei libri, delle teorie, della scienza fisica, della scienza letteraria, della critica sociale, della politica, erano il setting: la sistemazione delle cose nell’universo esistente. Non ho ricordi differenti da quel procedere, ogni giorno, avendo intuito contro/intuitivamente ‘qualcosa’. Non ricordo niente altro. Come un amore di passione che non ragiona anche se non diventa bramosia e, pur volendo la carne e la saliva, tiene la distanza e l’idea di desiderio come certezze inestinguibili.

Studiare i contenuti. Poi si arriva alla linguistica, alla neurofisiologia, alla neurobiologia, alla certezza della origine materiale della vita mentale. Le dita sulle pagine fanno sempre il nomadismo come si era cercato. Le dita tracciano, muovendosi sulle pagine, il disegno del reticolo epidermico della cute sulla ghiandola mammaria che è irrorata dal calore. Lo studio ha questa sua legittimazione di desiderio, ma non c’era più, in quel tempo, la madre vista stando in piedi di fronte a lei. Nella regressione che doveva togliere l’isteria che è irrealtà, si perse la visione della madre intera. Si andava ai milioni di anni. Alla paleoantropologia. Se non avessi studiato anche quella branca della scienza dell’uomo avrei temuto che fosse una regressione pericolosa. Le parole che nominano le aree pulite del sapere mi rassicuravano che era possibile.

Dalle teorie mi sciolsi per arrivare all’impotenza assoluta del pensiero non razionale. Persa la visione della madre intera tornato ai milioni di anni dicevo parole senza senso. “Veglia senza coscienza”. (Dove altri dicevano immagine inconscia non onirica, che forse intendevano tutt’altro da quello che io credevo volessero esprimere..). Ma io non volli scomodare più la seta usurata dei discorsi altrui. Mi facevo le ossa con le carezze alla voce delle donne sconosciute. Fisica, scienza sociale, paleoantropologia, linguistica…. Per la pazienza di altre donne. Che concedevano le infrazioni e non si fecero mai ‘legge’.

Grazie a molto di questo che è solo sabato pomeriggio torno fino all’antropologia ultima, quella dell’evoluzionismo attuale. Ecco la mela rossa che, vada come vada, lascia affondare i nostri denti bianchi. L’evoluzione non ha un andamento lineare. Le mutazioni vantaggiose crollano. Mutazioni controproducenti emergono e progrediscono. Gli ominidi, lenti nella savana e appena sufficienti sui rami, sono riusciti. Saranno due milioni di anni fa. Imprevedibile. Non ci si sarebbe scommesso. La legittimità figlia della improvvidenza. Il successo di non essere annullati e spazzati era steso ad asciugare sulla via della resistenza (c’è un articolo e un disegno in proposito nel blog..). In equilibrio precario lungo la linea confinaria. In equilibrio precario di un sabato pomeriggio di due anni fa. Per un sorriso.

Il controtransfert adesso è una scelta di marginalità a presidiare i confini solamente, a controllare nulla. A guardarti telefonare certamente ai tuoi amori senza voler sapere. Tanto lo so. L’ho sempre saputo e ti ho amato comunque. Diversamente, senza quella bellezza che ti rendeva orgogliosa, silenziosa, misteriosa, traditrice, non avresti avuto nessun fascino. Io lo so che voi donne considerate amore solo questo coraggio che si deve sapere, e saper immediatamente dimenticare, la vostra bellezza. Di saperla solo quando ci offrite di succhiare il seno in silenzio. Poi dobbiamo essere stupidi e lasciarvi. Io ero fatto per questo. Perché avevo sempre tenuto in segreto la necessità di pensarti dentro il miele dell’universo appartenente al buio dei tuoi segreti luminosi. Così ti ammantavo. Così ma in modo che tu non vedessi. C’era una probabilità minima di riuscire. Una ‘vita migliore’ è un’ipotesi contro intuitiva nel migliore dei mondi possibili che l’amore pretendeva di esaudire. Resto come ero, abbastanza povero, con te sulle dita. Ti lascio scivolare sulle falangi. Sei un’Araba Fenice che scompare nelle aree cieche degli spazi nascosti e ricompare sull’orizzonte dei polpastrelli. Io sono una specie di prestigiatore. In verità mi muovo lentamente attorno ad un atomo d’elio fissato al centro della visione per non lasciar cadere fuori del campo del mio interesse neanche una delle scintille che spruzzi. Mi avvito sul perno di te, che inchiodi le mie mani in un punto non casuale in aria.

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Che dirti, abbiamo molto lavorato dopo i tempi dei graffiti. Rischiare l’infedeltà e tornare a baciare le tue labbra. Le tue labbra eterne sempre conosciute. Conosciute da quando si correva a rincuorarci con gli altri. Abbiamo lavorato sempre. Non ricordo di aver mai pensato che si potesse non lavorare. Che ci fosse qualcosa in regalo. Faccio il carpentiere. Piego le sottili fruste di acciaio da mettere dentro il cemento. Gli conferisce elasticità. Costruisco intelaiature di legno di poco prezzo per varare in verticale sulle onde alte del cielo, dal porto del cantiere, i solai e le pareti in forme che sbocciano dalla mente dell’architetto incessantemente. Diavolo d’un uomo immagino che grazia avrà nel versare il vino alla bionda che lo accompagna al cantiere. Non sono invidioso. La povertà dei ‘miei’ era onesta. Non sono stato educato all’invidia. Il lavoro era una garanzia avevo intuito. L’affezione alla materia delle cose è cominciata col rispetto dei fogli di quaderno. Da non sporcare troppo con le macchie di inchiostro. Sono cresciuto con un ordine simile a quello necessario per allineare le parole lungo il discorso che si arremba sull’onda emotiva che svolgeva il tema di italiano. Giocando a campana nel reticolo dei quadratini dentro i quaderni di matematica. Che dirti. La libertà non mi è mai servita, avevo i campi e una certa disposizione a capire i suoni delle parole delle proteste e degli approcci. La politica era bella per il suono delle frasi. Era un buon italiano la retorica dei comizi. Era come andare a scuola. Ti sentivi ignorante e dovevi studiare. Mai pensato che si potesse non lavorare, dunque. Il dopo era naturalmente difficile, al dopo si deve arrivare, il tempo è spazio da traversare, non trovi anche tu? Einstein in effetti era davvero affascinante. Il dopo era come l’oro del tramonto e l’argento di un foulard di mia madre. Seta, e la seta è comunque d’argento. La difficoltà era necessaria. Il libero arbitrio era inutile, troppo facile. Lo cambiavo ogni giorno con le sere fredde afose quiete: le sere sono fucine di aggettivi. Le sere trascorse da soli sono indispensabili per parlare una buona lingua. Per crescere dentro le foreste. Eravamo filosofi: arbitraria era la giornata e il fondo di terra sotto mezzo metro di erba verde a marzo e aprile. Non vedi mica là in mezzo dove metti i piedi. Si eleggeva un capo che stesse ai nostri comandi, un capitano, uno che cammina davanti, solo questo. Un sub comandante appena sbucato dalla foresta. La foresta è un appartamento di sessanta metri quadri dove il figlio del falegname viveva con due sorelle e i genitori. Mai sentito dire che stessero stretti. Nessuna libertà in spazi eccessivi. Ristrettezze dentro le quali scopri il senso del corpo sociale. Il corpo sacro. La politica diventa parole che hanno l’odore del padre e della madre. Poi le sere diventano, grazie agli aggettivi, comprensione del medio evo che è lungo mille anni. E mille anni sono dieci volte cento e scopri il sistema decimale e l’infinito amore, i cento anni di felicità che si apre come il cielo sopra il cantiere alla fine della favola che, dunque, era solo una premessa. Tornare a baciare le tue labbra in questo evo apparentemente nuovo. Eternamente nuovo per essere arbitrario il mondo si svolge. Il cinema. Tu che guardi. I fiori hanno una sensibilità. Tu guardi i fiori che hanno una sensibilità e sei sensibile ai fiori. Io che faccio la ricerca in psicoterapia. La psicoterapia che svolge transfert e contro transfert e spiega: essi sono i modi della relazione medico paziente. I reciproci affetti. Le disposizioni differenti. I gradi di variazione. Dall’arte dei primi giorni alla scienza del calore che si sviluppa. Dal freddo al caldo. Accumulando ordine contro il disordine iniziale. Contro la dissipazione. Come quando scrivevo allineando le parole nelle frasi e le frasi nel componimento del tema. Tutto nei tuoi occhi il lavoro fatto. Senza ombra di fatica. Mai pensato che si potesse non lavorare. Non c’è mai una pausa e un vuoto in un rapporto umano. Siamo sensibili per natura e umani per un accidente irreversibile. Come comporre la sensibilità con il pensiero verbale e poi quello con la scrittura e la scrittura con la scienza. La coscienza non deve distruggere l’inconscio neutralizzandolo con una interpretazione definitiva. L’inconscio, salvato, è il pensiero non razionale che porta la coscienza, attraverso rinunce, alla conoscenza. La conoscenza è una limitazione all’arbitrio libero. La coscienza è passiva e servile senza l’inconscio. Il problema della libertà si pone appena la consapevolezza del legame porta il desiderio. Il desiderio esclude l’arbitro. Non si sa più volere quel che si vuole. Nello steso modo avemmo il desiderio di conoscenza. La filosofia, la tendenza e l’inclinazione a non restare come prima. Ecco, pensare di poter liberare l’arbitro dalle necessità della conoscenza, del desiderio, e del lavoro… pareva violenza del pensiero. Chi riusciva poi faceva ricorso a dio. Noialtri al contrario, e non saprei dire perché, non avremmo poi più pensato che si potesse liberarsi dalla necessità del lavoro. Il lavoro, spiegò poi ‘quel gran genio del mio amico’ che è stato ed è il mio analista, serve alla fine per fare quel poco di calore che si oppone naturalmente all’arbitrio della anaffettività che fida nella fortuna e cede alla fatalità del destino. Ancora non credo che avessi scoperto la parola desiderio. Per scoprirla bisognava prima aver guardato le stelle. Per poi distoglierne via gli occhi e leggere certi libri: “de sideribus”. Non c’è mai un vuoto nel rapporto. Però lo si può ‘fare’: “è..” diceva lui “una vera fantasticheria di onnipotenza” ed è, capivo, quando l’idea di “essere ancora nel ventre materno illude di una libertà che è per annullamento”. Questa libertà di assenza dalla necessità della presenza nella relazione….fa fantasticare dio, l’onnipotenza, il paradiso senza lavoro e senza il corpo sacro. Eva può sedurre Adamo perché lui non sa della sacralità del corpo e non distingue il latte dal veleno ed è Biancaneve nell’eden. Una verginella avida e ignorante. Noi, per fortuna, dalla analisi dove eravamo andati per curarci la delinquenza nascosta dietro la disonestà dell’ideologia, avemmo in impegnativa eredità il corpo sacro, il medioevo cavalleresco, le illusioni, l’esigenza infantile della fantasia. Una scoperta offerta più che altro come vino. Senza scandalo era comunione. Comunione non per convalidare l’assoluto divino, ma lavoro di tantissimi accaldati che era una necessità per crescere.

Ieri: “Buongiorno” dicevo. “Buongiorno..!” e mi sono seduto di fronte e erano bellissime le poltrone e io sorridevo perché tutta la mia vita ogni volta sta sulle gambe come un gattino rossiccio e ronfante. Ho amicizia per il mio passato. Dai primi giorni, dall’onesta di una educazione psichiatrica nella quale la necessità della volontà del lavoro e del desiderio mi tolsero per sempre la speranza che l’invidia potesse essere una soluzione. Il libero arbitrio è una cosa da ricchi da potenti da arroganti. Toglie la speranza di una nascita senza malattia. La rinuncia alla malattia neonatale della perversione umana costringe all’arbitrio della differenza che ci sovrasta. Ma sono solo occhi di diverso colore. Per tornare alle tue labbra. È il colore degli occhi tuoi che orienta il pensiero. E la conoscenza degli aggettivi necessari a liberarmi della loro altrimenti dittatoriale bellezza. È il lavoro indispensabile alla conoscenza che fa, del tempo, un rapporto, e di un rapporto la quiete ordinata della stanza, e non è un caso che essa, la stanza, si intoni ai miei maglioni da poco prezzo ma di accorto colore.

“Dunque, come vede, è una cura che si serve addirittura delle sfumature di un maglione di lana.” Ha sorriso. Smagliante. “Una cura di lana !” ha ripetuto scuotendo il capo sulla mia proposta infantile. Ma si vedeva che era d’accordo. E allora anche io ho tirato il fiato ridendo. “Forse è possibile…!” Mi sono detto.

Ricerca in psicoterapia è lo studio e la verbalizzazione del rapporto medico paziente……transfert. E, ovviamente, contro transfert. Con l’idea che forse contro transfert non vuol dire sempre transfert ‘contro’. Perché se così fosse…..(*)

(*)….ma questa è una storia su cui bisogna ancora cercare.

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