quello che si può essere ancora


quello che si può ancora


Posted By on Ago 18, 2014

Ultima scena del romanzo “Il profumo”. Uccisione e cannibalismo poi ognuno per la sua strada, come nulla fosse successo. Non è che non resti nulla, ma solo se potranno ritrovarsi i testimoni si potrà avere la conoscenza del senso delle loro vite dopo l’episodio….

Poi studio su Youtube una conferenza di Camilleri/Gargani di anni fa alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Viene citata la scena della morte del re di Girgenti e la trovata letteraria di raccontare come, condannato a morte, nella piazza vuotata per motivi di ordine pubblico, senta la realtà del mondo circostante vuoto di corpi percepibili con lo sguardo, ma denso e mosso dal fiato dei popolani in attesa tutto intorno. Il realismo magico, quando si spostano i limiti della realtà. Io associo nel pensiero l’altra scena che conclude “Il profumo” dove il morso e il cannibalismo della folla che invade e distrugge, si pone all’opposto  dell’invenzione assai più densa di un arte in sviluppo, nella quale il condannato sente il respiro della gente che non vede. Camilleri dice che si è ricordato dell’ultima scena di “Roma città aperta”, quando alla fucilazione del prete i ragazzini fischiano la loro canzone. “Neanche il fischio ci ho voluto mettere”.. dice. “Solo il fiato..” E aggiunge: “Bisognerebbe saper contare ad occhi chiusi il numero delle persone dentro una stanza silenziosa computandone il numero dai differenti respiri…”

Mi serve per sviluppare il discorso della vitalità come fenomeno epidermico, non muscolare, dunque come discorso a proposito della pelle, del limite invalicabile tra noi e il mondo esterno, che offre la possibilità di una esigenza e di una forma di identità riconoscibili. Tutto il discorso di Camilleri-Gargani si articola a partire dal tentativo di separazione dal padre che ci sarebbe nella scrittura. La ‘seconda nascita’ sarebbe, in prima istanza, nel riconoscersi nella propria ‘scrittura’ differenziandosi dal padre. Ma i due si accorgono che ogni scrivere in quel registro emotivo è anche uno scrivere per il padre, e si arena in una identificazione ulteriore con la conclusione dell’impossibilità a sfuggire l’identificazione. Allora: la letteratura non basta.

Ci vuole il patibolo, la sensibilità dell’ultimo momento, far sparire i corpi degli spettatori per riferirsi all’idea di una loro presenza sentita nella notte attraverso i loro respiri. Di nuovo la folla e il singolo. L’evento e i testimoni. Che mangiano divorando -dunque per far sparire delirantemente in sé il corpo della vittima- restando senza quel ‘corpo del reato’, testimoni di un nulla di fatto, di un delitto senza prove: una vita senza momenti di irreversibilità. Oppure far si che il delitto sia anonimo, istituzionale, e i testimoni fuori dalla vista, dunque non-testimoni, persone che non potrebbero (durante una indagine poliziesca) dir di aver davvero visto accadere nulla. Essi addirittura potrebbero essere semmai testimoniati da chi venne ucciso, che però per l’appunto non potrà più dire: “…si, coloro che sanno della mia uccisione solo io potrei raccogliere insieme testimoniando della loro presenza per il suono del loro respiro, e confermare che essi tutti erano là e poi succede tuttavia che io non ci sia più e abbia portato con me i presenti alla fine mia, via unica alla mia salvezza dalla permanenza senza uscite.”

La conferenza di cui studio la poetica psicologica con estrema attenzione, fa seguito e riferimento ad una bella biografia su Pirandello dello stesso Camilleri, al fenomeno della scrittura, della rinascita nella scrittura, e cade spesso nella sfera di attrazione della “Favola del figlio cambiato” che, come si sa o si dovrebbe sapere, fa il paio con la stesura dei “Giganti della montagna” mai conclusa dall’autore morente. In essa si narra come una compagnia di attori cerchi per contrade l’agio di mettere in scena proprio quella storia di cambi aleatori e beffardi di identità, che Pirandello di tempo in tempo propone. Si veda il problema de “Il fu Mattia Pascal”…

Siamo dunque, ragiono tra me, figli cambiati che non sanno nulla di quelli di cui furono il cambio. Cambiati, scambiati, siamo condannati a figurarci una popolazione dal fiato dei respiranti oltre i muri e a trascorrere, nel fluttuare dell’aria in aria, l’attesa pietosa della nostra fine. Essa sta proprio dunque nel non poter testimoniare dell’evento del nostro trapasso, poiché il trapasso si porta via il testimone dei testimoni del trapasso di cui è la ‘vittima’ non essendone cosciente.

Ma dato il passaggio come nascita è un altro dire.

Figlio cambiato è ciò che diamo in cambio di noi prima di diventare altri come ci potrebbe essere capitato involontariamente. Ma, questo mi resta dolorosamente ignoto, come certezza scientifica…. : cosa confonde la trasformazione di una nascita con la idea di morire, con l’angoscia di morire e perderci?

È l’amore ‘sospettoso’ , il punto massimo dell’amore culturalmente ammesso, di cui siamo amati e a cui siamo dunque esclusivamente e prepotentemente sottomessi, che ci fa temere un ‘fratello’ migliore di noi. Non una nostra seconda nascita dunque potrà essere una metaforica salvezza e guarigione, ma la vicissitudine di ricreare le condizioni della nascita dell’altro ed assistere alla sua nascita definitivamente, fino alla fine. La scrittura che è narrazione implicita di come abbiamo tentato di rinascere dal padre, dalla sua morte e dal suo fallimento, non è, proprio per questo fallimento che vuole riparare, per niente vera, o meglio è così veritiera da non portare che a se stessa restando un gesto, non solo ovviamente letterario, ma rispetto al quale tutti resteranno a dire che “La vita attorno è differente”.

La scrittura dovrà diventare essa stessa proprio il realismo magico che la vita è. La cosa che sposta sulla pelle la traccia della presenza invisibile dell’altro, che è la consegna alla vitalità della vita intera ogni volta che la ‘volta’ si compie come un giro. Bisognerà che scrivere sia la remissione delle speranze di ripresa d’amore in un testo che è solamente attivo nella articolazione dei segni della scrittura che si accavalla.

Scrivere perde il controllo sul mondo con le parole sul foglio che sono solo annotazioni di quanto accade nel momento che riusciremo ad avercela fatta. Decidersi a non saper molto bene tutto, poiché appunto scrivere è dimenticare di annotare i particolari: una legge di indeterminazione domina la scrittura realistica come prevale nel mondo probabilistico dell’infinitamente vibrante.

Nel romanzo “Il profumo” il cannibalismo che supera la pelle profumata dell’eroe prodigo, che torna ad essere mangiato sulla piazza della nascita, ne sancisce il fallimento poiché essa viene inscritta nelle coscienza delle proprie originarie circostanze. La nascita per nostalgia fallisce. È altrove che potrà accadere. Lontana.

Hanno scoperto che la vitalità è il fenomeno che ferma -nei segni scritti e in altri fenomeni simili ma a me ancora sconosciuti- le figure della pulsione. Che essa prima di poter essere definita nero su bianco era assai più pericolosa di adesso. La contenzione della figura della pulsione nei tratti vitali del segno scritto consente la ricomprensione e riconsiderazione di noi in un terreno meno esposto alla distruzione.

È mezzo agosto e l’aria porta i respiri dell’ultima notte che avevamo trascorso in attesa del caldo e dell’aria di mare che poi vennero. Ma noi non ricordiamo nulla. Ma tutto quanto accadde -dall’aria riportato- fece poi accadere tutte le altre cose dell’estate per quanto noi non ne fummo nè mai più ne saremo informati per filo e per segno. Torniamo insieme solo per dire che si, la notte insieme ci fu. Che abbiamo costruito un ponte. L’arcata.

I testimoni giacciono nell’oscurità delle case. Tornati nei vicoli. Stracci a terra dicono cose inutili. La scrittura racconta altro. Sta lì, nella assenza di testimoni, la nostra grande passione a cercare di essere: non tanto diversi da prima ma -e riuscirci sarebbe un talento- finalmente per la prima volta.

Così ritrovate cose scritte anni fa rileggo, sostituisco, tolgo e trasformo. A mettere insieme profumo e contenuto. Come si fa a fermare il morso che vuole superare la pelle per cercare il suo profumo dentro l’altro? mi chiedevo stamani. Ora noto che forse rispondevo scrivendo:

“La vitalità della (parola) immagine supplisce alla impossibilità di riferirsi ad una immagine della (parola) vitalità.” Adesso traduco “I tratti della scrittura sono la figura della vitalità”

Scrivevo: “Sotto forma di lettere d’amore per supplire al momento ciò che il momento non concede vale la ricerca se la impossibilità di immagine della vitalità determini l’immagine del pensiero che si può riprendere l’opposizione al nichilismo…” Dico ora: “Una lettera d’amore all’amata lontana è un buon esempio di opposizione alle filosofie del disincanto.”

Ero un condannato a morte sulla piazza. E ascoltavo il respiro dei convenuti….. Non volevo essere l’eroe prodigo che, buttatosi addosso tutto il proprio conquistato sapere in forma di profumo, sarebbe stato mangiato fino all’ultimo morso. Dunque il linguaggio del corpo, la postura sulla poltrona, più che le interpretazioni espresse anche come conoscenza e competenze, facevano il rimando e la riproposizione. La riconsegna appena spostata. Le mille e una notte. Il mio corpo ricreava i trattini di una scrittura. Lettere disegnate in aria lasciate fluttuare nella mente che percepisce le figure e le trasforma in affetto, in propositi. Ho ricomposto la scena di un crimine, la scena in cui i testimoni di quanto era successo si trovano sempre per anni. Per non poter dire io non c’ero. Per dover dire mi pare che si, forse un rumore, un profumo, un respiro. Non è la mitologia dell’Edipo. È il prima: esattamente si tratta del fenomeno della formazione della mente da stimoli che non possono essere percepiti in maniera cosciente e organizzati in un sistema di conoscenza. È la possibilità di vivere un primo anno di vita. Come se molte persone insieme fossero una sola persona. E poi stupire che ogni volta è non solo un episodio di una narrazione di sé, ma anche l’inizio di una narrazione altra e ulteriore, la nascita del fratello.

E la difficoltà è che il fratello è sempre  anche il figlio in cambio del quale fummo dati, che dovremmo amare ma che ancora resta colui che chi noi amavamo forse ci propone come un poter essere ancora migliori. Forse lui è quello che chi amavamo si aspettava che noi stessi potessimo essere. Qualcuno migliore di noi, perché altrimenti nessuno sarebbe venuto mai più. Non saremmo stati dati in cambio. Non ci sarebbe stata proposta la trasformazione. Quello che possiamo essere.

Scrivevo: “Il ricominciare ogni momento la conoscenza avventurosa è ogni momento asistematico tanto che dire ‘…ad ogni istante t’amo…’ — se in amore è regalo — nella vita attiva del pensiero è quasi una fondazione. La riproposizione di mettersi al lavoro distinguendo il nulla dalla morte e il tempo senza battiti della dichiarazione dal brusio ragionante della materia appena dietro la trasparenza scura di occhi infervorati. Il raggiungimento è ritrovamento della fisiologia di una forma di pensiero in condizione di assenza della coscienza che non genera la ‘negazione’ poiché si dice immagine a proposito di quel pensiero in assenza di coscienza del quale resta adesso solo la parola vitalità per alludere alla sua natura di lottatore a tutto campo e sul parquet di molteplici discipline. La vitalità è proprietà della biologia cerebrale dell’uomo sulla quale si fonda e si sostiene la vita mentale che fa del nostro pensiero primario una immagine e non una figura. Senza figura il pensiero in assenza di coscienza non fa la negazione. Però quando la coscienza tardivamente ci riflette sopra parla di nulla: per annullare. Scrivo: ‘… dunque amore mio dovrò difendere la salute della parola nascita con la vitalità della parola immagine….’ Accanto alla nascita sta la alterità come certezza non come parola che designa una consapevolezza cosciente: la sapienza del pensiero in assenza di coscienza è più che altro tratto di un arco di sorriso, mano appiccicosa di latte traboccato tra seno e labbra beate, certezza di afferrare uno sguardo fuggevole e attaccarcisi per vivere e dormire e ricominciare ogni volta. Senza alcuna riconoscibile parola d’amore, nei prati di girasoli, alle albe molteplici dei neonati che essi ripetono ogni poche ore, nella luce atmosferica di tende che addolciscono l’incanto omicida del sole nudo, e sopra-tutto sotto una pioggia di amorevoli suoni.”

Poi non ho più saputo di aver scritto tutto questo che trovo oggi. Ma quello che sono stato, una volta che avevo scritto queste cose, è conseguenza di averle potute scrivere. Nel ritrovarle vedo il figlio cambiato, il fratello che avevo cercato di uccidere. Quello che un amore non cosciente in chi mi amava e che silenziosamente avevo ogni volta ricevuto ha fatto di me. Quello che dovevo lasciar accadere, scrivendo al servizio di sconosciute esigenze, per evitare di odiare negli altri le mie possibilità di essere migliore poste in loro, come mi fossero state rubate e nascoste.

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