reality


reality, un film


Posted By on Ott 5, 2012

Leggo, da qualche parte: “Perché un essere umano dovrebbe voler essere questo?” E continuando per mio conto mi chiedo cosa, di fatto, induce il cambiamento. E cosa diventi, cioè come verrà considerato, dopo, il precedente modo di essere. Allora mi viene in mente che un modo di essere sia comunque un procedere dentro il tempo e quel tempo, quello cioè nella cui massa si procede nel modo che ci definisce, è un tempo delimitato, disegnato come una cosa che acquisisce una figura, grazie ai rimandi continui delle parole dei committenti di amori reciproci. Persone che hanno, verso il loro tempo in comune, un particolare, non secondario, interesse.

Si può facilmente accettare che noi sappiamo “voler essere”? Voler essere può risultare non ben rappresentabile con mezzi di linguaggio figurativo. Disegnare, nel pensiero, si effettua a ingrandimenti esagerati. Si vedono, lungo i tratti di inchiostri di chine differenti, le fisionomie non lineari di ogni molecola. A livelli estetici il finalismo svanisce, cioè la bellezza ha natura discontinua e, fosse l’eroina di un romanzo, non sarebbe ricattabile. Le pretese e il volere sono attraversati da cunicoli serpeggianti: vere vie di fuga. Nel campo della bellezza l’assoluto è in deroga, a dirla tutta. Chiunque potrebbe improvvisamente, insomma, in ogni momento, voler essere qualcos’altro. Deroghe e cunicoli rendono soffice la ‘pasta’ del ‘mondo’. Questa due ultime parole hanno limiti vaghi. La loro topologia rende impossibile immaginarne una completa esplorazione. I termini della locuzione ‘pasta del mondo’, una volta accostati, non si lasciano definire ulteriormente. Nel linguaggio ci sono accidenti retorici: equivalenze di salti fermati in sospensione lungo l’arco delle loro ascese e precipitazioni, ma còlti prima delle ricadute definitive. A livello d’arte quei luoghi nuovi hanno la caratteristica estetica della sete. Torridi ed esasperanti non descrivono il mondo esterno. Sono primitivi neologismi. Sono linguaggio che nasce a prescindere dalla percezione del mondo esterno.

Il linguaggio che nasce a prescindere dalla percezione del mondo esterno, ha origine biologica dalle aree deputate all’immaginazione. Le aree della sensazione vengono certamente, ma solo successivamente evocate: tutto si eccita comunque, immaginando. Perché non c’è silenzio nell’azione fisiologica del pensiero umano. Stimoliamo dunque l’azione sensoriale in seguito all’immaginazione di un altro mondo: e l’immagine unendosi alle modalità sensoriali delle aree appropriate, crea la figura come si fa nella percezione di un evento esterno. Certo questo confonde il nuovo con il ricordo. Ma tale limite, difficile da tracciare ( ci vuole un pennino sottilissimo ) tra creazione e ricordo è pertinente alla bellezza di specie. Mistero parziale.

Siamo adeguati a quello che è solo probabile. Al campo di girasoli che è l’insieme. Abituati al confronto tra infinità. Alle sorprese: temere le variazioni è malattia. Non temere che tu non torni è appassionarsi al caso. Il caso ci libera dai ricatti brutti, dall’orrore di sapere esattamente quanto durerà l’amorevole compagnia che ci facciano.

La vita, come il mondo, è una pasta commestibile. Anche la parola ‘vita’ ha la complessità delle creazioni, cioè le caratteristiche fisiche della bellezza: il pensiero primitivo come immagine, l’io non cosciente della nascita e del sonno, il pensiero durante la veglia quando è coscienza ancora muta di sé, la figura corrispondente all’idea, il pensiero corrispondente alla volontà, il pensiero che crea figure come simboli e rappresentazioni di quanto esiste nel mondo esterno del tutto differenti da quelle esistenze, il pensiero che crea simboli e segni di quanto esiste dentro di sé ed è a quell’esistenza del tutto aderente, e, infine: l’iniziativa del linguaggio e poi della scrittura. Tutte queste sono realtà mentali. Hanno natura di esistenza priva della massa. Sono precisamente l’enfasi caratteristica dell’identità specifica delle cose. Sono cioè l’enfasi che noi possiamo conferire alle cose e alle persone per definire un linguaggio in relazione -corrispondente cioé- alle loro prerogative. Attraverso un investimento affettivo descriviamo il mondo e definiamo i confini, i regni, le specie, i gruppi, le forme, le somiglianze e le appartenenze. Attribuiamo aggettivi, come esistenze ineffabili e forme di conoscenza, al mondo umano e non umano. Lo studio della fisica moderna si occupa del fenomeno incontrovertibile dell’esistenza in natura di grandi quote di realtà prive di massa. E’ seducente l’idea di poter usare questi modi di pensiero per la conoscenza verso e all’interno della vita psichica. In tal modo la scienza autorizza la poesia. C’è un luogo spirale che si genera. Quella poesia è base della scienza.

Si sta tra numerabile e infinito. E a partire de te, che sei una straordinaria unicità, le parole cominciarono a correre e non hanno più finito di farlo. Bisogna star pronti -mi dici- a fermarsi quando sia. Non è la fine ma un salto incerto ed elegante. Una porta rossa fiammante dietro la quale scomparire. Rubo la scenografia finale di “Reality”: un vano illuminato, giardino interno di una casa, essendo quel giardino non altro che una stanza senza confine verticale: illuminata splende, per un osservatore cinematografico che si alzi piano, rimpicciolendosi in mezzo all’oscurità della notte. Io guardando il pavimento come un orizzonte da dimenticare di fronte mi incamminavo immobile al cielo che stava alle spalle della macchina da ripresa appesa ad una stella, credo, come ad una promessa invisibile verso la quale si saliva spettatori tutti insieme. Su uno di una schiera quadrangolare di divani un uomo ride ancora nel ricordo, ride sommesso ininterrottamente. Forse guarisce di una illusione. Forse non guarirà mai più. Non sappiamo. Noi guardavamo, vicini, nella sala, felici di essere potati via leggeri. Per un fenomeno associativo delle aree cerebrali l’azione visuale dell’inquadratura che fuggiva in alto ci faceva senitre diversa la pressione gravitazionale.

Alla riflessione immediata io pensavo che ciò che vedevamo era ‘vero’. Per il fatto che non era mai successo in quel modo preciso. Era vero, cioè umano, perché differiva progressivamente come si alzava lenta ed inesorabile la macchina da ripresa e si estendeva nel tempo e nella notte la risata illusionista dell’attore. Niente era stato copiato. Era una idea generata speciale ed inesorabile, un’idea geniale a proposito delle proporzioni tra uomo e mondo. Il singolo essere umano e la scimmia demente. Certamente era già accaduto. Io pensavo la ricerca sulla generazione e la estinzione della malattia nella mente. Il rapporto tra fantasia e delirio. Tra l’allucinazione che è una deriva illimitata. E un ritorno a casa: che ha il sapore dell’assunzione tra le nuvole.

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