relatività del sé


relativamente me


Posted By on Mar 4, 2016


fino alla fine

fino alla fine

Si può dire di essere se stessi solo ‘relativamente’. Ed entro questi limiti posso dire di amarti. È un amore sempre diverso. Perché sempre sono relativamente ‘me’. Ma tu sei assolutamente tu in questo me così mutevole. E vieni in soccorso dell’indefinito senso di me di cui soffro.

Mi guarisci perché resti diversa e non mi confondi. E dormendo accanto limiti l’illusoria infinità del mio desiderio.

Mi dici ‘si’ per non fermare i miei pensieri e nelle ore del giorno la mia coscienza può scoprire la fisiologia delle possibilità.

Tu non temi la banalità dei giorni privi di miracoli. E mi dici che vuoi costruire una città di percorsi facili per essere felici.

Posso affermare che tu salvi l’essenza minima di me. Quel che conta.

Poi, sai… quando torno via da noi, da dove mi hai guarito, mi ammalo di nuovo. Non come prima: ogni volta un po’ meno. Ma non si guarisce da se stessi mai del tutto e per sempre. Ti spiego.

Il relativismo della riflessione solitaria riprende il campo. Non si può dire che non si sia. Ma non si può dire che siamo fino ai nostri ultimi confini. Il disegno della frontiera varia secondo la posizione dei singoli presidii. Dai bastioni di ciascuno di essi la nostra sensibilità territoriale spazia dovunque, ma la consapevolezza varia con la carta politica del territorio.

La consapevolezza fa la guardia alle propaggini estreme di noi. Ma qua si svaga distratta. Là punta lo sguardo. E sui fiumi inesplorati, fidandosi del baluardo naturale, francamente trascura ogni sorveglianza.

E dunque non so gli altri, ma io da solo so di non poter garantire l’assoluto. È che la natura fisica del pensiero impone condizioni.

Così contraggo armistizi in assenza di avvistamenti. Esisto dentro di me con riserva. Ho paure infinite, e vaghezze leopardiane, e differenti intuizioni come naufragi sentimentali.

Ritengo che sia per la mia congenita costituzione che mi si fa più evidente la riga del confine in ricchezza e in privazione di te.

La solitudine è la condizione della autoconsapevolezza. Che si scioglie in relativa certezza d’esser più me quanto più ti avvicini e chiedi.

Ma in sostanza. Posso avere a che fare con me solo relativamente perché ho da rispettare le condizioni monastiche dell’io. Che risiede in un possedimento illimitato e muto.

La mia libertà di peregrinazione è proporzionale alla clausura. Il pensiero solitario un canto gregoriano. L’idea di noi, in moto dentro la mente, imita l’arte del contrappunto. Quando sospiro “oooh amor mio..!” so che è una fuga nel mondo musicale. Nei filari del pentagramma. Nel mondo sterminato di uno spartito da scrivere.

Ora una luminosa visione succede ad un altra. I giuramenti sono fondamenti. Ed è necessaria, più ancora che utile, la recitazione di poesie nell’orario di lavoro. Ospito te come assoluto. Contro il sentimento relativo dell’essere me che fa di fatto l’identità.

Onnipotente il pensiero scrive il patto tra noi.

<Lascerai che ti scriva. Che sia certo che ascolti. Lo farò per ridurre un poco il vincolo di estensione e densità del pensiero di un singolo. Per ridurre la sensazione di ‘relativa’ consistenza del soggetto isolato. Perché siamo prigionieri della soggettività del sé.>

Non dovrai mai dire che mi sbagliavo, che non è vero. Che la mia non era una riflessione d’amore ma un abuso. Che avevo sognato e che la coscienza del sogno mimava la coscienza vigile del giorno.

Perché in tal caso, di fronte alle tue smentite, per il ritiro dei tuoi permessi io, pur restando, forse, vigile e mobile, di certo sarei vivo solo ‘relativamente‘…

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