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intelligenza ‘artificiale’


Posted By on Mag 14, 2014

"LA RICERCA CONTINUA" copyright:claudiobadii

“LA RICERCA CONTINUA”
copyright:claudiobadii

“Crea documento” dice la scritta sul tablet nel programma di scrittura. Lui li nomina “vuoto uno due tre” eccetera. Perché sono fogli bianchi in principio: e se poi tu non dai loro un nome per ‘lui’ le cose scritte non hanno conseguenze. L’elettronica di consumo è ancora senza un’anima analogica. Non cambia, se l’iniziativa della trasformazione deve dipendere da sé stessa. Non riconosce se piango d’amore o di rabbia. Non riconosce esigenze di variazioni arbitrarie non richieste.

L’intelligenza umana si pone in modo differente tra noi due. Ha pretese e richieste. Ha spinte e cure. Ha sprechi e diete ferree che nessuno chiedeva. Dunque di fronte al naturale pensare, immaginare, agire secondo metodi quasi umani di ciò che umano non è, dico “…è intelligenza artificiale la tua e la mia…!” Così presuntuosi di volerci instancabilmente, di ininterrottamente voler bere latte acqua fiumi poetici e di voler naufragare simbolicamente in occhiate golose di clown e belle acrobate, noi così fatti diciamo che c’è una intelligenza ‘artificiale’ sulle tue mani e mie. Per distinguerla da quella intelligenza naturale che ci resta del tutto estranea.

È l’intelligenza artificiale, la nostra, seppure siamo certi che la materia si è data quella forma di pensiero dopo una serie di variazioni bizzarre. E da qui partiamo. Un nastrino, un fiocco, che era un piccolo particolare aggiunto al rene artificiale. Il quale rene artificiale era un rene in noi. Non era la dizione della pratica della dialisi. Dunque tu dici che può esistere una guarigione miracolosa, se l’ingegneria copia la fisiologia e l’anatomia degli organi. Per salvarti ho costruito con l’inganno un organo ben fatto, tutto nuovo, perché tu potessi tornare a vivere. Giusto per segnalare l’umanità attraverso una piccola segnatura, una notazione, un ringraziamento, tu, nel sogno, ci hai aggiunto un fiocco piccolino, una ‘inutilità’ d’affetto. Il più di noi.

Mi sento io stesso un organo artificiale, in certi contesti. Credo di apparire artificioso nel rifiutare. È solo disperazione, a dire il vero. Perché si crede che sia superbia non lo so. Non lo so perché si sia credibili se si fa un poca di cura di cui c’è bisogno e poi odiati se si aggiunge che la cura ben fatta allude alla fisiologia, ad un diritto alla felicità. Non capisco un sacco di cose. Ma tanto si tratta ancora di diventare migliori all’infinito. Di far passare il tempo lasciando ruotare le due lancette e chiudere la forbice tra le sei e mezzo alle sette. E poi lasciarla aprire ancora verso la mezz’ora successiva. Il pensiero giusto è tutto sbilanciato nel dedicarsi gli uni alle altre, poi a chiudersi, respingere, allontanare, opporsi urtando coi gomiti sulle tue costole magre.

Tu sei l’intelligente magrezza da amare. Unica cosa da amare è la magrezza. In questo periodo di eccessivo adipe a coprire anime e pensieri so amare esclusivamente l’intelligenza asciutta. L’intuito salato dei deserti. Il vento verticale che spazza la sabbia dalle nuvole dei palmizi verso l’ipermondo delle idee platoniche. Ti chiedo di realizzare sulla tua carne la bellezza dei proiettili d’ambra rossa cadenti a picco in fondo al mare. Arrivare nel fondo sarebbe altrimenti impossibile. Impossibile altrimenti la gioia erotica di, scrivendo ancora, incidere col dito l’epitelio lunare dei neuroni cerebrali: il seno, potrebbe essere definito.

Riprendendo a scrivere con le piccole fasce bianche all’anulare e al mignolo, che si sono sposati perché uno dei due tenga fermo l’altro, sbadatamente ripensavo che la confidenza è diventata scienza della cura. Con fili hanno cucito gli ossicini, avvicinato lembi di fratture minuscole che la violenza della pulsione in me aveva determinato, impedendomi di rotolare armonico carezzando l’asfalto invece di franare come una valanga di neve. Le mani del medico hanno avuto le accortezze che io avevo perduto per pochi istanti. Le risate nella saletta chirurgica, le ragazze a tenere le mani e sorridere e io a fare il ragazzino bravo che non grida se sente appena un poco di dolore. Si giocava. Attraverso lo schermo vedevo le agili anse dei fili del rammendo.

La sapienza era fonte di allegria. Seppure fossi del tutto inerme. E non avessi più nulla in mente. Solo il pizzico degli aghi della merlettaia che, attutiti dalla infiltrazione di lidocaina, disegnavano con i segmenti della prima falange del quinto dito della mano sinistra, la frase invisibile “tutto sta per essere rimesso a posto” ed io, attraverso il ritmo dei movimenti del medico pensavo che tutto andava bene, che potevo stare tranquillo. Era il sorriso del chirurgo che diceva non temere senza dire nulla. E realizzavo la felicità di essere anche io un medico. Nel riuscire ad essere un paziente. Transfert, contro transfert. Diceva la poesia.

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