rien


Marion Cotillard


Posted By on Apr 18, 2012

Non, rien de rien
Non, je ne regrette rien
Ni le bien qu’on m’a fait
Ni le mal; tout ça m’est bien égal !

Non, rien de rien
Non, je ne regrette rien
C’est payé, balayé, oublié
Je me fous du passé !

Avec mes souvenirs
J’ai allumé le feu
Mes chagrins, mes plaisirs
Je n’ai plus besoin d’eux !

Balayées les amours
Et tous leurs trémolos
Balayés pour toujours
Je repars à zéro

Non, rien de rien
Non, je ne regrette rien
Ni le bien qu’on m’a fait
Ni le mal; tout ça m’est bien égal !

Non, rien de rien
Non, je ne regrette rien
Car ma vie, car mes joies
Aujourd’hui, ça commence avec toi.”

“Non, je ne regrette rien” (No, non rimpiango niente) è una canzone del 1956 composta da Charles Dumont con parole di Michel Vaucaire. Divenne celebre nell’interpretazione di Edith Piaf che la registrò la prima volta nel1960 e nello stesso anno fu presentata all’Olympia come la canzone di congedo dalla musica della Mome in attesa di guarire. La canzone si può considerare il simbolo della vita tragica di questa cantante, che dopo i problemi di salute legati anche all’uso di droghe aveva promesso al mondo intero di ripartire da zero senza guardare al passato. Tale promessa fu bruscamente troncata, in quanto scomparve tre anni dopo (1963).

La commozione frequente non è sempre necessariamente psicoastenia. Per curarla -se proprio si deve perché le lacrime rigano il trucco o cadono troppo copiose sui tovagliolini di carta salmone degli aperitivi- si porta il tragico alla superficie. Si declama la teoria nel teatro di Atene e di Siracusa: che una volta, per un centinaio di anni, era frequentato da gente dappoco, gli umili, gli analfabeti a passare il tempo diurno sui gradini della porta di casa, di quelle umili dimore di cui adesso si reperiscono le soglie di pietra consumata durante gli scavi archeologici. Grazie al teatro, al tragico letteralmente esposto, nel quinto secolo prima di Cristo, per cento anni e più, tutti hanno saputo che l’amore ha l’essenza del sangue e delle menzogne fatali, che tutte le conseguenze limpide della passione vengono sempre alla fine accettate, che non c’è scandalo appena c’è tragedia. Si sapeva che il linguaggio verbale non era l’unico modo di capire. Ai portici e ai mercati c’erano i ladri pieni di fascino che rubavano l’anima in silenzio, e gli accostamenti razziali partorivano i figli di Babele, che parlavano una terza lingua, tra loro, e disobbedivano, perché erano meticci rapidissimi nella corsa, e con quella si garantivano – e proclamavano ! – una lista di impunità che li mettevano al sicuro poiché erano impronunciabili. 

Le belle, gli usignoli al marciapiede e alle cattedre di canto, anche ora sono di poche parole, e studiano molti libri e vocabolari e trattati -come vino- prima di dare la vita per qualsiasi condizione sia, per conseguenza del sapere acquisito, di loro scelta. Bisogna ascoltare la voce di Edith Piaf che grida la propria tragedia, la perdita improvvisa del suo amore in fondo all’Oceano Atlantico, nella notte in cui lei dorme per abbreviare l’attesa, mentre lui muore in un aereo che ha perduto le ali. Bisogna sentirla e guardare bene l’attrice piccolina come l’originale, copia conforme dell’usignolo, come agita il corpo e grida, e poi con le mani al petto che proprio non ci credi che sia solo una recita di quel dolore mortale. Bisogna vederla come si fa carico del dolore. Della storia del dolore. Come metta in bilancio personale la perdita e il crepacuore.

Bisogna assisterla – come una levatrice assiste il parto – per capire la passione dei cercatori. Vederci la corsa all’oro in quelle braccia magre sul cuore, quei gomiti protesi che lei è una clessidra e una croce piantata al centro della fine del pensiero. E allora di fronte a tutto quello scialo di sapienza drammatica si capisce che a tutti noi manca in generale, e a dir poco, la formazione degli attori. Di fatto per vivere dignitosamente ci mancano i corsi dell’Actor’s Studio, e dovremmo continuamente curare la nostra incompetenza emotiva attraverso il movimento e l’espressione. Se amassimo i nostri amori quanto diciamo di amarli (ma evidentemente noi non siamo proprio capaci di amare nessuno a causa della nostra ipocrisia sotto forma di approssimazione) dovremmo stare sempre ad imparare da chi vende ai mercati e sorride agli angoli. Da chiunque sa che – per stare davvero al mondo – si ha continuamente bisogno di tutta l’inconscia condiscendenza verso il mondo di cui si può essere capaci. Il tragico è necessario perché consente di realizzare la condizione da cui esso stesso deriva: l’affidamento alla caduta e alla dedizione.

Dove nasce la teoria geniale? Quanto distante dalla fisiologia del dramma e dalle aree della certezza di irreversibilità? Il pianto frequente non è, dunque per quanto sospetto, sempre labile emotività. Bisogna riconoscere infatti quando è sapienza tragica che ignora il giudizio e mette la nostra vita in carico alla clemenza altrui. Forse talvolta si guarisce durante la recitazione della fine del mondo, o alla conclusione delle ore. Negli strazianti abbracci: le rare volte che ci si vede in cento anni. Quando – per circoscrivere l’arcipelago collinare, e tenere stretto quel corpo amato e desiderato che ci sta addosso come un fiammifero incendiario – si traggono da noi tutte le nostre ultime forze. Si traggono le nostre forze in alto, come si tirano i tappeti della sala grande al balcone, per battere via la polvere perché sarà festa grande il giorno dopo e ti stringo adesso per oggi e per domani e dopo: perché la tragedia è che gli amanti hanno precluse le domeniche e il natale negli statuti del loro legame. 

E si fanno grandi respiri di fronte agli specchi magici nei quali abitano vivi i più belli del reame, i figli intarsiati nel ricordo, incisi ai polpacci e nel cuore messo a ferro e fuoco. E’ un tipo di dolorosissima incisione iniziatica, eseguita quando ci siamo presi i sedici anni ad esempio della sapienza mestruale: tutti, ragazze e anche ragazzi perché il primo amore è un amore siamese, irrealistico, così pieno di ribellione da risultare extragiurisdizionale, imperdonabile e furioso. La vita di tutti i giorni da allora è senza tregua secondo il metodo del test alle macchie di inchiostro. Colomba. Elefante. Viso di fata. Delfini. Donna. Aragosta. Albero. Uomo (molto magro). Nave. Unicorno. Sesso femminile. Sciarpa rossa sul fondale alla crema. Mani. Nuvole. Il mare. Dorso di atleta. Macchia di sangue. Farfalla. Mettici tutta te stessa attenta sensibile cauta e implacabile. Devi dire quello che ti viene in mente nel guardarmi. Nell’ascoltare la voce. Io per esempio quando ti guardo penso “Volere è controproducente. Tu sei il giorno della poesia che celebrerò spedendoti la foto delle coperte gialle, e del piumone arancione. Ancora tiepidi. Dove ho dormito senza di te da sempre.” 

La commozione frequente non è dunque, per quanto detto, sempre e necessariamente segno di labilità: soltanto che ci si è -finalmente- venuti a trovare di fronte a certi ricordi, a stimoli così intensi, che sarebbero stati sufficienti a sostenerci per ore in quella condizione d’animo che non provavamo da chissà quanto e che, negli ultimi giorni -per fortuna- si è ripresentata con l’insistenza e la bellezza della voce dei doppiatori del cinema. O degli attori del teatro classico. La commozione è alla lettura del testo dei pensieri dello spettatore. Alla trascrizione del senso di inquietudine, provocato a sua volta da una intuizione, attraverso il movimento dell’attore sulla scena, il movimento di percorrere implacabile ed inesorabile il palcoscenico nel senso di tutta la sua larghezza. E ti fa pensare che è tutto . Che per te non c’è tutto il tempo che pensavi. Che non c’è mai stato neanche così tanto spazio. Lo spazio per i pensieri possibili di tutta una vita è non di più di quello della larghezza media dei palcoscenici dei teatri di tutto il mondo.

E tu piangi perché sai che è vero. Ed è così che, ancora una volta, il movimento non trascurabile di una figura umana ti ha tolto l’indifferenza. Ti ha costretto, anche se non sai bene a che cosa, e anche se sembrava che non ci sarebbe stato oramai più niente che implicasse quell’emozione, che invece ti prende. La tragedia era stata (é, nell’iconografia teatrale) la rappresentazione dell’eroismo di personaggi senza colpa. Essi recitano sempre quello che li riguarda, ma soprattutto recitano (ma allora è la tragedia perché essi credono di recitare ma invece stanno vivendo) qualcosa che viene loro richiesto di interpretare, ma che non gli appartiene, non gli spetta e dunque non gli competerebbe. Recitano glorie ed errori che vengono loro proditoriamente ascritti ed imputati. Essi hanno in carico la vita di molti altri. Senza volerlo poiché non vengono messi al corrente.

È per questo che il soggetto tragico ha margini sfumati e ci riguarda: esso è abituato ad occuparsi anche di altri. Anche di noi. Lui, lei altrettanto spesso, hanno in affidamento i cuori altrui. Come personaggi tragici noi, loro, si entra dunque in rabbia e confusione quando viene svelato l’errore delle attribuzioni. Ma la vera tragedia è se non si amano coloro che sono nella contabilità. Dunque nella tragedia, a ben vedere, c’è sempre una possibilità di chiarore finale quando il pianto degli spettatori redime la recitazione casuale poiché tutti loro, anche tutti loro (noi), come attori involontari, si disperano davvero (davvero siamo disperati). La fine delle ore della tragedia è assai ricca di senso, perché in quell’involontarietà della commozione potrebbe stare, a nostro piacimento e condiscendenza, eventualmente, la grazia.

I rapporti si subiscono anche e non sono i peggiori. Chi esercita la fantastica professione di attore (‘interprete‘) ha acquisito questa sapienza sotto forma di entusiasmo ed espressione. Da un certo momento in avanti il distacco è impossibile. 

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