santità di magrezza


Trovare la consapevolezza della speranza non richiede poco tempo. Così è adesso che mi rendo conto che la speranza è una cosa. Non è una cosa inventata per consolare la mente, è una cosa immaginata cioè un concetto efficiente, un oggetto psicologico operante. Questa comprensione -che è tardiva per certi versi, perché non sono più quello di un tempo- pure mi fa sentire senza i rimpianti che dovrebbero prendermi per non essermi persuaso prima.

Molte cose mi sono capitate così: a tenerle nelle mani una volta trovate mi parlano attraverso i sensi anche se sono cose del pensiero e la loro veste metaforica, scopro senza rimproverarmi, era solo perché ne distorcevo i criteri di esistenza a causa della mia incredulità.

La speranza fino ad oggi era pensata da me, mi rendo conto solo adesso, come un fantasma, l’espressione di una ingenuità infantile permanente. O il sentimento nostalgico suscitato da un vecchio giocattolo che per i sentimenti che mi suscita ad ogni sguardo porto con me ad ogni trasloco.

Ora, poiché la consistenza dei miei rapporti definitivamente rafforzati si costituisce a fondamento della mia ulteriore nuova forma di vita, anche la speranza ha fondamento. Forse è così che avviene. Forse è questa la maturità: che debbano essere quelli più avanti nella strada a riferire sulla legittimità dell’ottimismo e sulle normative giuridiche della testardaggine e della insistenza nella ricerca della felicità.

Non saprei. Nè ho più tutti gli strumenti mnemonici per effettuare confronti di rilevo in favore di questa ipotesi. Avanzando nella chiarezza mi sono alleggerito del più della mole dei ricordi faticosi del viaggio. Ho acquisito e poi conquistato definitivamente l’andatura dinoccolata degli schiavi nelle piantagioni: immagino che la loro estrema stanchezza e la loro prostrazione diventassero un vero disinteresse dei pesi e della fatica: uno stato di mistica sopportazione che conferisce santità di magrezza e non di pentimento.

Vedo i gabbiani e le oche sulla foce dei fiumi di Amburgo e Lubecca e penso che anche le mie ossa sono tibie della stessa leggerezza di quelle di questi antichi stormi di uccelli.

La voce riposa. Noi veleggiamo muti quassù, perché qua non abbiamo bisogno di parlare e diventiamo, acquietati, pensieri fatti con l’aria che soffia in flauti d’osso, e tra le canne lungo i corsi d’acqua.

È l’aria che spira attraverso il cielo trasparente di queste città del Nord che mi fa dire così. L’aria corre attorno mi circonda e il pensiero varia perché dell’aria e della luce ricalca la natura.

A questo attuale irreversibile arrivo addento la speranza come una realtà consistente ed essa si mischia al sapore delle aringhe rosa e argento serrate nel pane croccante che profumano i chioschi di legno colorato sui porti e delle quali ci ingozziamo famelici verso le una del giorno come fossimo anche noi volatili affamati dal freddo.

Il mondo trapassa dentro di noi per gli occhi e i respiri e spazza via i nostri saperi precedenti che si costituiscono in mucchi umidi di foglie ai margini dei giardini.

La speranza è una irragionevole certezza di sussistere singolarmente in questo mondo di venti e appetiti, per cui ci scagliamo piano ma con determinazione in mezzo alla bellezza di una luce senza colore e senza suono che travolge il corpo con la sua rarefatta purezza.

E la luce del nord dirada le cose e le parole e ci sveglia presto al mattino perché i nostri cari, adeguandosi alle usanze locali, hanno scelto tende chiare: hanno scelto, inconsciamente, di rinunciare all’artificio del buio.

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