superstiti


Boscaioli e marinai. Le acque: una via. Uomini che non raccontano. Vita delle popolazioni mute come si disegnano gli agglomerati sociali isolati sui libri di storia medievale.

Questo blog è per vanità e presunzione. Autocritica: chi scrive vuole l’ultima parola. L’ammirazione degli altri scrittori. I quali non hanno tempo di leggere. Devono scrivere. A loro volta. E i lettori che non sanno scrivere vengono disprezzati da chi scrive. Egli non scrive per essere letto dai lettori. Egli esecrabilmente scrive per chiudere la partita con chiunque scriva ancora. Per mettere giù l’ultima proposizione. Decisiva a fermare ogni altra intenzione. Lo scrittore ama il silenzio dei fogli bianchi. E vuole dopo sé un mondo di clerici vaganti. Scrittori senza lavoro e ispirazione. Dopo le rivelazioni conclusive della sua imposizione letteraria li vede a ripetere l’ultima sua frase. Che non ammette repliche e futuro.

Lui ha determinato un giudizio letterario universale e, dopo, boscaioli per ricostruire e marinai per esplorare. In aria, le parole del Più Grande Romanziere, che causano una pioggia di sapienza radioattiva. E la specie che, progressivamente, muta. La di lui singolare sicurezza di scrittura provoca intanto ondate di reverente sudditanza. La vita culturale, ora che è concluso tutto, affidata ad un pio sfogliar di inutili codici nella quiete monastica. Un mondo di frati, di curiali calvi dediti a superflui ritrovamenti.

È tutto un proliferare di albini a rischio sotto il sol leone delle sue frasi definitivamente completate. L’ultimo grande scrittore ha evocate ed aperte le porte del passaggio conclusivo. Poi la fatica smorzata come passi sull’erba.

Solo il corpo e il movimento restarono. E un lavoro corale. Senza pensare più a dover dire qualsiasi cosa ancora restarono solo preghiera e opere. Fu dopo l’apparizione.

“Boscaioli e marinai. Le acque: una via. Uomini che non raccontano. Vita delle popolazioni mute come si disegnano gli agglomerati sociali isolati sui libri di storia medievale.”

Il mondo cui tendevano le scorrerie romanzesche è ora il museo storico custodito da tribù intere di bibliotecari. L’era precedente ha fornito la definizione delle coordinate del proprio punto di arresto. Tutto è stato solo lo scricchiolare e lo sferragliare di carrozze e navi lanciate a più non posso senza meta. Che lui ha fermate con mani salde sul morso.

Lui ora ha sul palmo l’universo fremente e sudato. L’universo trema e lui carezza il cuoio che fa la schiuma contro il mantello dei destrieri.

Ed ora! Non scrivere mai più. Non doversi trovare nella necessità di colmare un divario. Placate le pretese dei fratelli e le ambizioni dei padri. Fermato il giro delle cose eccoci cuocere al sole. La potenza di concludere si è rivelata maggiore della forza della genesi.

Questa maggiore forza cercava chi scrisse ogni cosa scritta per qualsiasi altra apparente finalità.

Si cercava la generazione della quiete anche scrivendo rivoluzione.

Si cercava -durante tutta la nostra precedente disavventurosa esistenza- questa collina silenziosa solitaria adatta ad abitare.

Si cercava una virtuosa risoluzione da porre all’origine. Un non saper che dire e che fare da imporre come scopo ultimo del dire e del proporre.

Poiché leggere e scrivere si impara ma parlare lo si sa già prima, allora forse scrivendo e leggendo a parlare si disimpara come se, con quello scrivere e leggere, dovessimo essere puniti di un peccato da mondare nel dolore e nel sangue per sempre.

Se è stato così allora adesso bisogna che ri/impariamo a parlare affinché dopo parliamo nuovamente davvero. E, se imparare a scrivere e leggere è stato essere puniti  per aver già saputo parlare, bisogna che disimpariamo a scrivere e a leggere per mondarci della presunzione. Perché è la nostra natura di esseri umani la causa per cui noi parliamo da sempre da zero a sei anni senza maestri.

Siccome oggi politicamente e universalmente vince il potere di mantenere il potere di nascondere i mezzi di cui si serve per escludere l’eventualità che ci siano superstiti, dobbiamo ri/imparare a parlare -come sempre si è fatto da zero a sei anni senza maestri- per proporre al potere risate impreviste. Per rendere i suoni di amore ingannevoli al potere come fossero rumori di vento trai rami di un bosco. Per confondere il potere se ciò che gracchia nella radio/spia sia un grido di terrore di sudditi vinti o roche risa umane smorzate tra tronchi e muschio. Se le figure mobili in fondo alla radura siano orsi sperduti o corpi avvinti. Persone abbracciate sulla neve. Vive.

Suscitare questo dubbio al potere: che il terrore potrebbe non essersi insinuato dentro i pensieri di fame e sopravvivenza di tutti. Che parlare e dire non sia furbizia torrenziale ma vitalità insistente.

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