terremoti


sisma


Posted By on Nov 18, 2016

L’auscultazione a distanza è il meglio che possa fare di noi due. Il più che possa prometterti -prima dell’avvento dei peggioramenti che saranno causati dall’età- è giurarti. Che resterò vicino ad ascoltare il frusciare delle foglie dentro l’albero frondoso nell’oceano d’aria del tuo torace. Ad un solo passo da te sarò paziente, fermo sulle gambe stanche dopo quarant’anni: al capezzale -ancora!- delle tue passioni. Lo faccio per conservarti il vizio di guardarmi sospirando.

Starò in piedi nella chiesa dei misteri a custodire la croce deposta dove ti distendi e per la tua femminilità blasfema sorridi osservando curiosa il tuo stesso sangue che scivola dal cuore al ventre con impertinenza inconsapevole. E mi lascerò assorbire dal tuo riso che esplode e piena le strade sommerse di polvere come una luce di tardo ottocento nel borgo collinare in cui siamo restati suscitando la perplessità sospettosa dei ritardatari che dopo le ultime scosse, tutti, sono rotolati lungo le pendici del monte fino al mare piangendo scampati per sempre alla disgrazia dei crolli mentre noi siamo rimasti: a guardarli da quassù mettersi in salvo.

Per noi, dedicato, il nuovo terremoto ha scosso ripetutamente la terra anche oggi ma ormai non può farci nulla di male nel campo in cui viviamo: solo la superficie dei prati ha vibrato.

Ora dunque ci risulta chiaro che non abbiamo dove rientrare e che l’intimità degli interni sarebbe troppo rischiosa e le case saranno per molti giorni a venire trappole per innamorati.

Ma abbiamo visto un angelo di ghiaccio a benedire la nostra anima incosciente, e il borgo ci è parso un paradiso terrestre in un orto polare e noi -sotto l’albero delle stelle grandi e rotonde come pomi di madreperla- abbiamo gustato l’autocoscienza amplificata dall’isolamento quasi assoluto cui la passione costringe gli innamorati. Dopo che la paura aveva confitto nell’inferno dell’incolumità gli ultimi ritardatari siamo rimasti non ultimi ma, ai nostri occhi, i primi: il primo uomo, e la prima donna.

Ma se escludi il freddo dell’aria invernale il resto è chiaro e temperato: abbiamo nuovi pensieri ondeggianti al ritmo del cuore e contenuti nelle differenti figure che il corpo disegna sull’erba nel sonno. Abbiamo l’infinito a portata di mano: ora che quei pochi ancora ieri ultimi come noi, oggi sono spariti. Ed ora che abbiamo tutto, sulle macerie del paese abbandonato, non resta nulla che valga la pena di dichiarare. È un mondo ridefinito da scosse di natura eccessiva e noi ci stiamo abituando all’analfabetismo che precede la creazione di una nuova lingua adatta a questa povertà assoluta, dopo che il terremoto ha sfarinato la forma degli oggetti e abbattuto i muri delle “cose” che conoscevamo.

Non è rimasto niente uguale a prima e niente è riconoscibile. Il mondo in cui viviamo è un meccano di sassi e di rami.

La fame è causa di un acido misticismo e il pensiero è un vaneggiare eccitato dal metabolismo essenziale del digiuno prolungato. Ci ripariamo ciascuno alla pianta viva dell’altro, siamo alberi spogli, stiamo diventando magri come uccellini ma ci accarezziamo con condiscendente pietà piena di desiderio sessuale. Strusciamo le palme rugose lungo le ossa dolcemente arcuate della gabbia toracica tua e mia e esploriamo coi polpastrelli i nostri cuori nel loro nido che è avvolto è protetto nel folto dell’albero bronchiale.

Coi nostri cuori in mano riusciamo finalmente a sentire la vita che si solleva e refluisce e ancora torna. Immergiamo la mano  nell’agitarsi silenzioso e ordinato della marea d’aria del respiro e siamo il frutto roccioso agognato dall’altro superstite. Noi siamo l’una per l’altro il mondo, letteralmente. La definizione poetica si avvale della riduzione della metafora ai suoi minimi termini. L’amore si accosta alla parete d’aria del collasso delle funzioni.

Questo sognavo. La fine della paura con una figura femminile con la quale si sappia regredire alla trasparenza e all’inquietudine e trovare il coraggio di sopportare il dubbio di stare sbagliando tutto e di aver sempre sbagliato tutto e di non avere più risorse.

Ricordo di essermi svegliato con la coscienza che solo i tuoi occhi febbrili mi lasciavano sperare di non morire, che anche dopo il sogno mi tenevi vivo: in  un mattino gelato dopo che il sisma aveva scosso la terra.

Poi si deve anche lavorare. Mi sono alzato come ogni giorno per affrontare la coscienza successiva, quella che non è più ricordo del sogno, materia poetica e scientifica. La nuova coscienza che mette il sogno da parte, che vorrebbe conservarne giudiziosamente un accenno, mi è apparsa una reazionaria noiosa.

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