venire via con te


Fino all’avvento della civiltà greca un problema veniva affrontato con la ‘divinazione’ della soluzione. Non procedure dimostrative. Divinazione/intuizione nelle alte sfere dei dignitari indiani ed egiziani è indovinare/svelare quanto si vuol conoscere. L’intuizione dunque un rapace benefattore nel nido tra i rami più alti. Un’occhiata tagliente. La falce del salto di una pietra grigia precipita fatalmente (morta parrebbe) finché improvvisamente (a fare una fatalità inversa) esplodono le ali.

Non dirò l’agonia della ‘verità’ presa nel vivo. Le grinfie della mentalità del genio/indovino hanno in loro un balsamo anestetico. L’ala stessa dello stupore falciando l’aria lungo i propri volteggi a spirale (una conchiglia di pulviscolo atmosferico) leva la paura.

La rapidità di un duello aereo si condensa sui fianchi dei monti. Senza peso i corpi degli aviatori.

Si formano afferenze nuove da neuroni di aree acustiche e tattili quando c’è una cecità degli occhi. La percezione senza stimoli luminosi soccorre l’intelletto, chissà esattamente come, quando le aree occipitali vibrano di quella quiete sensoriale.

L’immagine vista con la mente non è comunque sovrapponibile alla figura e spesso le si oppone. Nel cielo si condensa in scie la caccia. L’istantanea ferma le traiettorie sui fianchi della montagna. La paura resta nell’iceberg di una nuvola galleggiante. La rapidità dei combattimenti è il disegno dei fiocchi di neve e l’inverno viene ricacciato indietro dall’elegante disegno. Dopo la trasformazione forse si dimentica tutto quello che c’era stato prima. I velivoli volano alla velocità della luce. Nell’universo formale matematico (paradossalmente) il quadrato della velocità della luce fa scorrere lentissimamente la materia del tempo.

Alle spalle il cuneo d’argento. La nascita è vertice della freccia che resta un punto se mi sposto tanto velocemente da mantenere inalterata la distanza. Tra i corpi in caduta libera in moto rettilineo e uniforme resterò una preda.

Il sorriso, ora che sei arrivata, ruota, e le progressioni dei quadrati di misure limite vengono scritti nero su bianco. La fisica del pensiero, prima di ora, era un capolavoro impressionista ma non il colpo di spugna necessario.

Senza la potenza della materia inerte neanche il pensiero può spaziare indisturbato, perché gli spiriti sono veleni volatili più pericolosi di un’aquila. La vitalità insomma deve legarsi alla pulsione per non ridursi a residuo deludente. Bisogna pulire il cielo. Pensiero. Immagine. Canto. Figura… ultimo viene il corvo/linguaggio. Ma della formazione del linguaggio nessuno sa abbastanza. Si vede bene però una attuale degradazione risalire all’indietro fino alla corteccia per le vie anatomiche delle fibre motorie.

Forse l’alterazione rabbiosa dei comportamenti -causati dalla mente confusa tra la genesi dell’idea e la percezione della figura- si riflette retroattivamente sulla vita mentale da cui derivano quegli stessi comportamenti e quelle parole causando, alla fisiologia del pensiero, un danno imprevisto ulteriore.

E ogni volta l’entità della lesione cresce esponenzialmente. Infine si invita alla calma, ad un realismo che dobbiamo capire. Una relazione di cura mi conservò la perplessità come scia celestiale di un rapporto infantile, pre verbale.

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first kiss


Posted By on Mar 12, 2014


Un video virale, ha milioni di visualizzazioni in poche ore e come dar torto ai visitatori ? Un dato decisivo, durante la ricerca nel cespuglio cerebrale che chiamiamo ricerca in psicoterapia, per fermarsi un momento durante la corsa e sedersi su un gradino della via del paese a guardare l’antico borgo e il cielo intagliato tra i tetti e lentamente, dopo tutto quello che potremo pensare per non fare i conti con noi stessi… valutare la confidenza che ognuno ha intrattenuto con il proprio tempo amoroso… che altro? ah già…. la colonna sonora è “We might be dead tomorrow” di SOKO…

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capire prima che sia inutile


Posted By on Feb 3, 2013


Scrivere manifesta: inclinazione verso un’etica personale, isolamento, passioni, slancio, estroversione e introversione, nuvole di sabbia, deglutire, correre, desideri, complicità, arresto, volo, quiete, ricordare, cercarti sempre, illusorietà, distacco amorevole, volere di più, lotta serrata, animo borghese e anti borghese, autocritica, intellettualità, rinunciare, scegliere a caso, creare, giungle, migrazioni bibliche, trombe, formìche, schianti di alberi vecchi nella foresta. Scrivere è una via di parole a spessi strati di pietre. La strada che è partire e fermarsi qua per la notte. Scrivere è il massimo e il minimo, è considerare troppo quasi ogni cosa.

Ogni cosa è dilatazione, alternata a frequenti ripetizioni delle unità di misura. Gli atomi -o comunque le particelle elementari- si inseguono in me nella mente quasi subito: nell’infanzia a mosca cieca, e poi nelle scuole, con l’inchiostro sul foglio, sulla punta del pennino. C’erano subito rivelazioni che dovevo farti di me e di te sia allora che oggi: che sono passati così tanti anni. Per questo, anche riguardo alla prima parola nel quaderno, posso dire che già avevo ripreso a scrivere. Scrivevo, in modo assai contraddittorio, perché volevo annunciarti che la conoscenza è infanzia e silenzio, e l’educazione alla scrittura è un invito alla presunzione: e per questo, che avevo già capito -per come può capire un ragazzino ma grazie alla facilità estrema di scrittura che ebbi subito- decisi che avrei scritto sempre a te e che avrei scritto sempre d’amore. Perché mi auguravo che, quanto era iniziato così sciaguratamente, quei pensieri troppo nitidi sui fogli, finissero leggeri ai nostri piedi come tappeti di semi al vento e non di più.

Scrivere è un problema storico. Prima non si scriveva. Prima noi, come genere umano dico, facevamo figli: che vuol dire che si ascoltavano i sapienti dettare lettere e raccontare la cultura orale. Fare i figli al suono delle parole altrui era essere sospesi in levitazione. Erano giorni di poteri paranormali. Ascoltando si contavano i costituenti elementari. Fare i figli era come leggere le mappe astronomiche, decifrarle in silenzio. Ascoltare svolgendo gli scavi degli archeologi. Fare figli cioè stare in silenzio cioè aspettare era tradurre. Era come se leggessimo, anno dopo anno, e come se riuscissimo a stare in silenzio, per sempre. Fare molti figli, e dunque avere tutti quei figli, era comprendere la mitologia e le opere dei tragici e dei drammaturghi e le costruzioni imperiali e i giardini orientali.

Avere figli era non scrivere, era impossibilità di scrivere. E con questo intendo che non era peggio di adesso, ma che era meglio di adesso. Non si aveva idea che un giorno sarebbe stato necessario scrivere. Che ci sarebbe stata non la scelta di scrivere ma ci sarebbe stato il bisogno. Che non avremmo avuto scelta. Allora non scrivere era stare con le mani in mano, in un orto di delizie. Fare figli su figli, comprimere la terra di fratelli ai figli precedenti, era ascoltare e aspettare. C’erano così tanti bambini che eravamo tutti madri. Anche gli uomini erano madri nelle strade. E i giardini erano scuole di legno di ciliegio, per via di tutti quei bambini. Erano tutti quei bambini a trasformare la terra in una scuola. I bambini imponevano la conoscenza. I bambini si invocavano ogni notte, si tiravano su come li estraessimo dai fianchi delle donne con invocazioni strampalate. La notte è quando si legge. Scrivere è un gesto fin troppo adulto.

Gli aristocratici e i sottoproletari non hanno mai trovato un limite alla procreazione. Scrivono assai poco infatti. Gli uni si raccontano storie per il loro analfabetismo. Gli altri leggono libri costosi nelle biblioteche dei castelli. Tutte e due quelle popolazioni agli antipodi sono prolifiche: per incoscienza e per distrazione. Si combattono per prendersi il potere e si spodestano eternamente a vicenda. Si spodestano per un potere che poi dicono gli deriva da dio ed in nome di dio si muovono con libera anarchica violenza. Dio è creduto solo da quelle fasce estreme delle popolazioni. Gli deve assicurare la legittimità di tutti quei loro figli. Deve riportare continuamente l’ordine della genealogia smarrito continuamente in unioni promiscue. Pregando e guerreggiando nel poco tempo che resta loro, dopo tutto il procreare bambini vocianti e dispersi in tuguri e giardini, essi n0n trovano passione alla scrittura. E non scrivono.

I borghesi scrivono. I borghesi sono quasi sterili e non hanno credenze. I borghesi si misero a scrivere. Smisero di chiamare i bambini la notte su dai fianchi delle loro mogli. Iniziarono a scrivere e non hanno più finito di farlo. Non finiscono la loro fine perché non hanno figli a piangerne la sorte. Durante le rivoluzioni moderne noi borghesi abbiamo prodotto il massimo sforzo di scrittura. Durante la sventura dei luminosi destini, dopo l’oscurità calda dei secoli sacri, si è imposta una sterilità dialettica, una religiosità acida: l’umanesimo monacale già poteva reggere il silenzio e le nascite. Ma il rinascimento neoplatonico nasceva già invidioso e corrotto. Da allora si è legittimato il diritto al clamore: neanche quei pochi che continuano a nascere sono più bambini: sono guerrieri, scrittori e urlanti. Non lo sarebbero di per sé  loro: ognuno di loro, così come viene al mondo, è bellissimo. E’ un ascoltatore potente, un non scrittore. Uno che non potrebbe diventare lo scriba di nessuno, né il segretario di nessun segregazionista.

Ma la rete soffocante di grida dei giuristi che sono i loro sempre giovani padri, gli azzeccagarbugli contro le leggi delle oneste durate, toglie loro il tempo perduto dell’infanzia e il silenzio medievale di cui hanno necessità per il primo anno, e il secondo. La rete soffocante di grida, i giovani padri, gli avvocati contro la legge naturale delle durate fanno uno scambio: danno la parola e la scrittura precoci e sottraggono la pazienza, la noia. Cacciano via i ragazzini dal letto sudato dello sfebbrare atteso: uno sfebbrare che deve durare sette giorni di latte miele e silenzio e luce fredda invernale e passione per l’estate e la salute. Sette giorni. Abbiamo così all’improvviso cessato di ascoltare e contare e stare in silenzio. I bambini non hanno più il nostro silenzio che cola sui loro riccioli come una benedizione. Hanno il nostro generico sapere i fatti, cioè la grandine muta. Abbiamo cominciato a scrivere più di quanto fosse utile e i ragazzini non hanno la luna, hanno istruzioni. Abbiamo smesso di ascoltare e ci siamo messi a dire la nostra. Si organizzano proposte. Senza quasi più figli ci scriviamo tra coetanei senza età. Siamo invidiosi senza ragazzini e ci incontriamo alle fiere letterarie facendo un rumore greve.

Io allora mi sono coperto da re/pastore e ho intrapreso una mentalità millenarista da fine del mondo imminente. Per questo non mi rivolgo altro che a te. Per evitare il dibattito civile. Mi fanno paura gli stupidi che si attaccano alle parole. Ne hanno così poche al loro arco, che il loro dispetto rigoroso, nel difendere significati rigidi e univoci di ogni parola  singola, non è che avidità. Invece si vede bene che noi esseri umani eravamo fatti per stare sempre insieme, adulti e bambini. Stare insieme ragazzini e madri e padri/madri, perché fosse assicurato capire bene le differenze. E attraverso quella comprensione fosse assicurato l’apprendimento della natura umana. Stare insieme adulti e ragazzini per diventare esperti di tutti i più impalpabili segreti dell’antropologia. Osservando i neonati a succhiare il latte scoprire l’immagine invisibile del nutrimento, che si presume dal rumore delle deglutizioni e dalle mani dei neonati che, nell’allattamento, aprono i piccoli pugni, lasciano la presa, e stanno ad ascoltare. E imparano subito come sia possibile smettere di scrivere.

Nel ricordare una contrazione che svanisce si apprende la fisiologia dei giorni della settimana. Come sia che si è fatti anche per domeniche lentissime come oggi, le domeniche che hanno lo scorrere del tempo una parola alla volta, una parola che ruzzola sul palmo, e poi la mano scorre sull’altra, e fa la ruota, e si parla della farina e degli occhi, si parla con lo sguardo perduto oltre la finestra. Si parla di oggi ricordando il sogno. E il sogno non si dice. Che baciavo una donna sta sulla retina e sulla corteccia, è il pensiero verbale del ricordo e si lega alla percezione della realtà esterna: la realtà esterna sono milioni di particelle di polvere nella luce che entra da una porta. E quel pulviscolo dorato sono granelli luminosi del pensiero, e non è più un ricordo, è adesso. Il ricordo, adesso, è polvere di un’idea fugace di infedeltà. E poi diventano scintille in aria quando ti volti improvvisamente verso un rumore. Anni fa ho esercitato l’osservazione dei dibattiti deludenti senza idea di donna, senza polvere in aria. Dibattiti senza ragazzini. Parole per adulti: che non ne nascerà mai niente.

Io ho tante parole nate con te -che ora restano per te– e là non ne ho sentita nessuna di quante ne avevo già imparate. Sempre, da allora, faccio segretamente fastose inaugurazioni di tornei settimanali. Ho la fissazione di questo Medio Evo, il cuore sacro agli incroci dei crocifissi, e ampie chiome ai crocicchi, e il seno delle ragazze che ammicca sulle fontane sotto un albero: che offre ombra e speranza. Non riuscirò a liberarmi dalla borghesia forse, Scrivo prima della rivoluzione però. Non dopo. Scrivo in attesa. Da quando ti ho trovata non ho niente da dire, solo segnare, con la scrittura, i confini del principato e ordinare l’invio di  antibiotici e manuali di statistica. Quello che contiene sempre la scrittura non è altro che potenza o impotenza nascoste. Io posso fare quello che non fa quasi più nessuno: chiederti di restare con me e promettere che saprò farti felice. Per l’amor di dio!

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