viaggio verso l’aeroporto


Il risveglio come una pallina che picchia sul cemento della nuova strada di luce lungo la parabola discendente e rimbalzando in alto mi fa addormentare ancora pochi istanti e con forza progressivamente ridotta di nuovo batte e torna su e ancora velocemente giù finché anch’io, un batuffolo rotolante di cometa, mi trovo definitivamente cosciente a guardare stupito un angolo di stanza in penombra. È oggi che dovrò realizzare il modesto cambiamento dell’inizio della vacanza: il vacuum che dica di un vuoto e una assenza fisica realizzato per ottenere quella libertà di tempo illimitato davanti a me da tanto tempo dimenticata.

Da mattina a sera la tela del giorno si distenderà: un tappeto di canapa e lino, una tenda nel deserto delle ore senza impegni dunque senza volontà e intenzioni di sorta. Il futuro prossimo è diventato un teatro grande di tante stanze. I giorni di riposo hanno il candore della stoffa lavata il profumo dei lenzuoli sapientemente ripiegati addosso ai fiori di lavanda poi spiegati con un colpo sapiente delle braccia e dei polsi delle donne di casa ad avvolgere il materasso. Mi consento l’innocenza ingenua di allora quando si decise che sarebbe stato certamente possibile, un giorno lontano, fermarsi.

In ogni caso poi correndo sulla strada verso l’aeroporto si è fatto tutto con molta calma, noi. Non sarà proprio quell’arrestare tutto per riflettere al passato, tuttavia correndo rallentiamo la corsa dei pensieri. Ci si affianca al flusso della vita. Quella nostra che non si dice mai e si ritrova mettendoci in moto insieme. Compagni di viaggio.

A questa velocità vedo bene, stamani, la frenesia di cui devo lasciare che mi capiti d’essere oggetto per tutto il tempo ogni anno che passa da più di trent’anni del mio strano lavoro. Colgo a un colpo d’occhio retrospettivo la frenesia di possesso delle persone. Le loro spinte all’assimilazione dell’ideale riposto in me per i fenomeni di transfert: sono stato un cibo, un alimento da succhiare, il cosiddetto seno gonfio di latte. E tralascio il peggio. Nella migliore delle ipotesi non sarò stato quasi mai ‘osservato’. Quasi mai si sarà realizzato l’auspicio d’essere preso piano tra le dita per essere posato sul palmo e guardato camminare sui monti e le pianure di una mano e poi, dopo un esame di scrupoloso amore, riposto di nuovo sul ramo dove sto quasi sempre, ricollocato in quel giaciglio di travi e mattoni rossi in quella nicchia di aria e cellulosa della mansarda/ambulatorio.

Sarà per sempre così il mio lavoro: abitudine a restare, lasciarmi osservare e succhiare. Sentire le carezze farsi più forti e comprimermi il torace. Cercare -per vincere quelle forze agitate- piccoli spostamenti del corpo, sorrisi aperti o addirittura risate, manifestare senza nascondi mento la mimica di ogni imprevista sofferenza, o allegria, con inclinazioni del capo e degli occhi. Realizzare senza pensieri tutti i necessari indescrivibili gesti della mia ‘partecipazione’ al rapporto. A volte ci sono, a dire il vero, smorfie incontenibili di opposizione agli eccessi.

Oggi vedo soprattutto il nostro (di esseri umani) cattivo uso del tempo. La ferita inferta al corpo del tempo proprio e altrui quando si pretende di comprimere frettolosamente, in durate improprie, le domande brucianti o confuse di una vita intera con la frenesia che non si sente mai del tutto sul momento.

È correndo sull’autostrada stamattina che la riesco a pensare via via che mi allontano da ieri. Nella mente c’è solo il battere del sangue e il pulsare dell’acqua dei ventricoli cerebrali mentre qualcuno esegue per me gli automatismi di feed-back dedicati alla guida faticosamente appresi cinquanta anni fa e poi, dopo, sempre ripetuti con il solito distratto ed efficace rigore.

Non avevo sentito quella frenesia lungo gli undici mesi di lavoro. È forse perché, mi immagino, l’idea di un rapporto di nuovo possibile e la speranza di una trasformazione anch’essa forse possibile ancora, mi rendono simile a quelli che incontro nella mia stanza, nella tendenza a realizzare il riposo del risveglio e la quiete della corsa sulla strada come stamani.

Aggiungo che la differenza, se c’è, è forse che io resto più esposto: poiché nel dirmi con adorazione ‘diverso’, forse, nello stesso istante, senza volerlo e certamente senza averne coscienza, questi altri che sfilano di fronte negano, insieme alla loro, anche la mia umanità.

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