zero


zero


Posted By on Lug 23, 2014

Simone intuisce il pensiero latente. La critica che vuole arrivare a rifiutare l’identificazione. Il pensiero dell’affetto che però vuole restare a sentire in prossimità degli altri. Anche se sa che non si è l’altro, non si è dentro l’altro e non si ha dentro di noi l’altro. Che l’amore non c’entra. C’entra la natura delle cose. La natura del pensiero. Che simpatia empatia e passione non sono identificazione. Sono quanto più vicino possiamo essere a chiunque. E oltre è confusione e rabbia. Impotenza e violenza. Bisogno. Hanno sognato un numero di quattro cifre con uno zero alla fine. Ho detto le quattro sedute fatte. E la prima che quasi stavamo per fallire a causa di un incomprensione. Ho detto proprio lo zero che sta per qualcosa che non c’è è pensiero materiale. Capacità di creare una cosa per affermare la percezione e realizzazione dell’assenza. E poi eccolo là in fondo al numero di quattro cifre che fonda la potenza gerarchica nell’ordinamento di quel numero tra gli altri. Lo zero è il pensiero concreto che dice che la matematica non è, in quanto astrazione, né confusione né mistica. È rifiuto della confusione e fondamento della fisica delle cose invisibili. Forse è la O del NO che è espressione verbale del rifiuto, del quale ha la medesima forma grafica.

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zero

Lo zero non è il nulla/ è la mancanza/ Per questo non fa angoscia/ Fa speranza/ Lo zero è adesso/ Cos’altro vuoi che sia?/ Dunque non è cha un attimo/ Invisibile/ Tra la speranza/ E un po’ di nostalgia/ Chi ne ha paura/ Fa per atterrirti/ Per chiuderti/ Tra le mura del castello/ Costringerti ad ignorare/ Il bello/ Ancora da cercare/

note: secondo me c’é un nesso (qui).

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I chilometri di stamani ascoltando lezioni sul tempo che, a quanto pare, non esiste. C’era di mezzo Democrito e Parmenide e Eraclito di nuovo. Poi si andava a Bruno e poi Leibnitz e Newton e poi al ‘900 esattamente. E forse se il tempo finisce allora la permanenza come identità -diceva Giulio Giorello, all’Auditorium di Roma, durante l’ultima conferenza con Julian Barbour al Festival delle Scienze del 2012- e la speranza e il ricordo come segni del pensiero storicizzante, e dunque anche come segni della rilevanza narrativa dell’identità, beh in questo caso tutte queste cose/immagini sono messe prepotentemente in discussione e sembra che svaniscano. “Uno sciame di api che vola nel vuoto” è l’universo fisico come può essere immaginato a prescindere dalla fallacia dei nostri mezzi percettivi. Così diceva Giulio Giorello insieme a Julian Barbour e sorridevano – si sentiva dal tono. Due relatori, grandi esperti di fisica e di linguaggio. Io canticchiavo mugolando in gola la saliva, perché mi rimangiavo le parole da solo nella macchina bianca.

Appena vivo, appena affacciato su un idea vaga e sconnessa, sorridendo alla strada e mentendo l’importanza degli argomenti che avrei dovuto per forza sviluppare. Ma ero solo e ero assolto da tutto dal monachesimo transitorio dei viaggi di trasferimento. Senza una lacrima piangevo nello strabismo di una allegria di quello che avrei appassionatamente tentato di capire. Riflettevo i raggi luminosi, che mi arrivavano addosso dall’asfalto lucidi e azzurrognoli e dal cielo invisibili ma feroci. Poi i raggi andavano a finire chissà dove. Non ho mai pensato dove andassero i raggi luminosi che mi colpivano il viso finché ero certo che andavano a finire nei suoi occhi, quando c’era lei. Non c’era tempo per pensare, con lei. C’era la fine del tempo nel vortice dei suoi occhi. Quieta osservando ineffabile si prendeva la mia figura di luce. Ora senza un volto di fronte non saprei davvero che fine faccia il riflesso dei nosri volti illuminati e dei nostri corpi opachi.

Finisce il tempo inutile, dice il relatore nella sua lezione. Mi aiuta a trascorrere da un luogo all’altro nel viaggio di trasferimento dove il tempo passa ma invece è fermato e addirittura dannoso temo, così immobile. Guidavo e ascoltavo tenendo vive immagini di noi e di ora che non ci siamo noi. Loro dicevano che c’è questa identità così premurosa di tenere una falsa conoscenza dell’universo temporale. E ci sono queste riflessioni sul tempo che partono dalla visione fisica estesa al macrocosmo, questa visione di relatività quantistica. Difficilissimo. Però – seppure mi pareva difficile e confuso a causa della mia povera intelligenza (che è la mia esultante stupidità) – mi era chiaro che nella mente qualcosa sapeva reagire a quanto dicevano a proposito dell’identità, e della nostra affettuosa preoccupazione verso questa identità: e sfido io, è così breve la vita e se poi ti dicono che il tempo neanche esiste allora addirittura forse la vita come durata diventa impossibile da pensare. Il pensiero diventa la pena verso te stesso. Ero un budino di cioccolata al sole.

Resto sempre colpito dal fatto che nessuno parla mai della nascita del pensiero. Della genesi del pensiero alla nascita. Parlano del tempo e della fisica delle particelle e degli scherzi di un  universo dove non c’è il passaggio da uno stato ad un altro – e ci sono solamente stati coesistenti – e si deve scegliere sapendo che in una inestensione temporale nessuna scelta ha un senso, poiché non ha un verso. E pensavo alla difficoltà di decidere tra cento gusti di gelato ed ero Gulliver ed avevo a disposizione un cono gigantesco, un avvallamento dello spazio-tempo quadrimensionale. Ma si resta perplessi che sia dato per scontato che l’attività umana di nascita non venga arricchita di implicazioni per la fisiologia mentale. Che non si voglia cercare se la vita mentale realizza -fosse pure un fermo/immagine- il senso dell’attivazione come starter. Uno starter di una frequenza nel vuoto magari. Anche cioè solo una inestensione se si vuole. Un istante e poi un eco di vita estrema distesa profusa intorno.

La registrazione del podcast ascoltato dal lettore mp3 sulla radio attraverso il cavetto nero dell’audio sussurra “Agostino di Ippona diceva che dio non aveva creato il mondo ‘nel’ tempo, ma ‘insieme’ al tempo. E aggiunge Barbour “Non è che l’istante sia nel tempo, è l’opposto, è che il tempo è nell’istante.. con buona pace di ulteriori illusioni” Appunto. Resto sempre colpito dal fatto che nessuno parla mai della nascita del pensiero. Del pensiero alla nascita. Forse noi nascendo stabiliamo il tempo inteso come senso di origine. Per altro è addirittura evidente che il tempo non esiste come realtà di oggetto fuori di noi. Che con i sensi non si può avvertire. Che invece è assi probabile che esso ci sfugga proprio perché si origina con noi. Dipende dal fatto che certamente noi non siamo che un cominciare continuamente. Un ricominciare in ognuno degli infiniti stati probabili coesistenti che fanno un universo senza ‘verso’ composto di infinite autorappresentazioni legittime e differenti. Come si può non restare perplessi che sia dato per scontato che l’attività umana di nascita non venga arricchita di implicazioni per la fisiologia mentale. Non indagare su eventualità di asimmetrie decisive.

Ho l’idea che questi geni della rappresentazione legiferante del mondo che sono i fisici siano gli unici chirurghi rimasti in giro. Che dimostrino come da sempre non si parli d’altro che dell’irrilevanza di qualsiasi cogito alla base del linguaggio che parliamo. Essi esprimono bene che il linguaggio e il pensiero che lo sottende fanno, se consistenti, un dato pragmatico, non concettuale. Un dato che ha conseguenze. O come dovremo dire dopo la fine del tempo: il linguaggio e il pensiero che lo sottende sono icone di eventi a breve o grande distanza sulle coordinate del piano delle contemporaneità. Sono in circostanza degli eventi cui potrebbero essere associati. Tu non sei così distante. Pensarti è chiamarti in causa -mio amore- a tua insaputa! Fai che t’amino un poco. Ci sono eventi prevalenti e asimmetrie. Mi sono fermato un poco al sole. Ad ammirare i contrasti. La macchina bianca ha ricominciato a scendere le colline in mezzo alle onde luminose.

Evidente in bianco sul nero la gioia di viaggiare ascoltando le parole degli scienziati: erano parole preoccupanti e irrilevanti. Come se poi uno avesse un lasciapassare per sfidare a proprio rischio il coprifuoco. I discorsi quantistici, così paradossali, ci mettono alla prova e mettono alla prova l’idea che abbiamo della nostra consistenza fisica. Ci spogliano, cosicché possiamo sfidare la lievità dell’aria, sapendo che però essa è completamente traversata di luce, inzuppata di energia radiante come un savoiardo prima di essere affogato nella crema. Il benessere rende non più necessaria l’enfasi associata all’immagine di identità costituitasi nei secoli della pre-storia. Parole come questa parola: identità, hanno poi assunto nei secoli il valore di eventi dotati della qualità della prevalenza. Esse sono parole corrispondenti a fatti del pensiero capaci di provocare asimmetria.

Grazie alla natura di parole di questo tipo la scrittura è molto efficace per lavorare sulla genesi sensoriale che provoca il sogno e la rappresentazione senza stimoli della realtà materiale esterna. L’idea avventurosa di una cura della mente (psichiatria) si deve essere realizzata grazie alle innovazioni successive delle vicende intime della letteratura e del linguaggio. L’ infrastruttura che esse hanno costruito a proposito della disparità e della differenza, consentono di non restare immobili al cospetto della quasi definitiva dissimmetria della pazzia che è sovrapposizione sostituitiva della propria identità con eventi irreali aprioristici. Con parole prevalenti e rilevanti e di assoluta irrilevanza, anche, per converso(!) si cura. Si vuole. Restando in settori che sono non misurabili dimensioni di noi. Creando evocazioni infrattive si altera l’omologia soffocante del non essere. Per questa caratteristica di infrangere la quiescenza di piacere la cura…. non piace. Il (principio del) piacere sta al servizio dell’istinto. E poiché l’istinto è piacere la scelta del principio agente è praticamente una nostra collocazione su un preciso versante del tempo.

Le cose si semplificano coi decenni: si finisce per trovarsi non molto distanti da un asse di asimmetria, se le cose hanno funzionato come si deve. Ad aver lavorato bene non si resta soli. La linea della rassicurazione si è flessa verso l’inquietante fascino della vicinanza, e lo scricchiolio del fasciame della nave ci culla nell’arresto lungo dell’approdo senza fine: un benessere senza scopo. In vista la spiaggia dei selvaggi vocianti. Il rumore della voce umana incomprensibile che sostituisce l’assoluto newtoniano. Non è pace né pacificazione la scrittura della ricerca, perché si racconta e si scrive l’impossibilità sostanziale di parlare di una qualsiasi cosa. Si scrive e si parla che non si sa dire dove nasce la decisione originaria di quegli stessi gesti di parlare e scrivere. Si dice molto per dire che non si riesce a prendere commiato: quel trovamento sarebbe… – oh dolce amante!origine definitiva. Più precisamente si gira vicino accanto e nei pressi di un luogo in cui si genera l’evento che sta alla base della decisione di parlare. Si racconta che alla fine di tutto questo cercare c’é ancora di più: il substrato frusciante, la radiazione dal fondo che  sottende e precede tutto quanto.

La radio trasmette in aria che l’idea, fino ad ora, quando ancora il tempo non finiva, era che si realizzasse una successione di stati che non erano ancora esistenti (accaduti), stati che si determinavano uno dopo l’altro in conseguenza delle nostre decisioni. Oramai si sospetta che ci siano infiniti eventi tutti già costituiti e di uguale legittimità. Di differente probabilità statistica, solamente. E che noi trascorriamo tra queste icone esistenziali inventandoci di sana pianta il tempo che dunque non è che una presunzione percettiva, una illusione non più remunerativa. Non potremo avere risarcimenti ad andare avanti così. Sciami di api nel vuoto in questo tempo inutile. Le nostre ali vane. Le case di tempo fatte della paglia della capanna dei tre porcellini. In questo secondo mondo, immanente e coesistente, la prosopopea del soggetto si perde. Scelta tra probabilità e libero arbitrio offenderanno in seguito, (ma non c’è un seguito c’é che dunque esse già ora lo fanno), le ipotesi di uguaglianza e di processo. Inventeremo un uomo nuovo. Un umanesimo quantistico è quello che fa per noi. Che fa per noi da Democrito che non è nel passato dunque, ma discosto che si può vedere infatti mentre se la ride, ai portici dell’Accademia. Niente scegliamo: solo, con leggerezza imperdonabile, alterniamo probabilità. In questo omicidio del tempo inutile va via la delega del perdono allo spirito?

La teoria della nascita.

C’è un lavorio biologico di accrescimento turbolento circondato da un fluttuare della materia liquida senza intelligenza. È un mare sensoriale non orientato che costituisce il paradigma di simmetria. Il feto in rapido sviluppo nell’acqua dell’utero è il promontorio in una baia sicura, sulla quale si sono insediate popolazioni di poeti naturalisti e turisti nostalgici. Il mare sensoriale protegge stimola e eternamente rinnega e ripara. Il tempo omeostatico non può avere durate. La sua simmetria è di non trascorrere. Del resto esso è istituito in privazione di persona. Accarezza il deliquio e stipula polizze assicurative a protezione di tutte le peculiarità dell’ assenza. La promettente illusione di non uscirne mai è la delazione di un tradimento ante litteram. Tempo illusionale l’omeostasi ha forma di asserzione e di rassicurazione e di piacere. Dice: poi (nel tempo non rappresentabile ancora) le forme della residenza nella baia saranno recuperate nell’osservazione della natura del mondo fisico. Invece ora si sa: la restaurazione della simmetria, dell’omeostasi, della neitralità della assenza di stimoli dopo la nascita è perdita della nascita. E’ pazzia la lotta tra sanità e natura quando trionfa la natura.

Diseguaglianza e armonia si ruberanno la scena. L’illusione che la natura è buona impedirà la sanità della ricerca. La giustizia con la bilancia perde la faccia: è il sogno delle figure senza volto. Si confondono spirito e pensiero. L’armonia è orrore e equidistanza. L’affezione al prima cancella la vitalità insita nell’attimo della transizione. Sarà quella forse la corrispondenza con il pensiero dei fisici a proposito della fine del tempo. E l’adesso che viene può essere che corrisponda all’ amore per la sostanziale inutilità del tempo quando il tempo è tempo perso nella reazione. Noi moderni contemporanei dal canto nostro si canta.

Ci fu un attimo remoto di nascita. La distanza cui essa si trova, adesso, misura l’universo dei moderni contemporanei. Le popolazioni di poeti e turisti si sono diffuse dappertutto e scintillano, viste dall’astronave. Si parla di figura disegnata dalla migrazione. Si racconta della vitalità, di una formidabile macchina fisiologica. La fabbrica di cioccolato di tutte le possibili asimmetrie. Se torniamo alla gravidanza e all’omeostasi si capisce che è di istinto che si parla. È del tempo inservibile di cui i fisici si e ci stanno sbarazzando. Seppure a noi sembri complicato da tollerare. Anniversari di roghi: il crepitio del fuoco il 17 di febbraio del 1600 (una data imparata a memoria ormai come una poesia della conoscenza) a Campo dei Fiori è fatto di scintille all’infinito. Un punto ancora di migrazione. I nostalgici sono stelle fisse. Tu, tu imperturbabile comprensione, tu casualità intellegibile, sei scienza senza coscienza. Sei suono delle parole: “tempo, ancora, ti prego”. Tu una presa in giro della teoria del tempo finito ed esaurito. Laddove ti sei insediata, sulla poltroncina che lasci oscillare avanti e indietro, puntando i piedi fai sul pavimento l’ombra del tuo corpo che non descriverò a nessuno mai. Sei sul pavimento scritta di durata trascurabile perché vai e vieni altalenante. Tu sei il mio intervallo di contemporaneità. La mia base di appoggio. Io sono un tuo sogno: il viaggio interstellare.

L’ infrazione del patto con la simmetria tra tempo e spazio distinti e separati ci è costata Einstein e una transitoria euforia quadrimensionale. Magari ci avevamo sperato. Di tornare a riposare. Per sempre. “Dio non gioca ai dadi” aveva sperato Einstein medesimo: e figurati dunque se anche noi non ci eravamo illusi che ci rimettessero a posto la stanza dell’idromassaggio. Ora la teoria della nascita afferma che è di istinto che si parla quando abbiamo edificanti aspettative. E forse questo denunciano attualmente alcuni altri, dal loro canto. Nello stendere con garbo e decisione, sui tavoli dei condottieri, la carta geografica delle nostre preferenze sul tempo in quanto tale, questi altri dal canto loro moderni contemporanei suggeriscono che ci precludiamo amori diseguali: gli unici che valga la pena di sospettare. Essi denunciano le nostre idiosincrasie. Attualmente dal loro canto i sapienti moderni contemporanei intempestivi – di fronte a un certo nostro non essere più in grado di immaginare di poterci sbarazzare del tempo come istinto e ritorno, del tempo in quanto tale dunque – fanno conferenze e si intendono da soli e prendono applausi. Infinita incapacità attuale ad immaginare oltre è la caratteristica psicologica di mummie contemporanee che siamo noi. Per questo al sole sorridevo.

Canticchiavo mugolando che stavo per estinguermi al sole abbracciato al sarcofago. La preferita del Faraone e mi seppellivo insieme alla morte della sua odiosa prepotenza. La macchina bianca scivolava dal dorso al ventre della collina. “La coscienza ha la successione”. E: “Il tempo è una prerogativa dell’io della nascita.” Quel tempo della cui compagnia si può fare a meno. La vita si svolge da tempo con dignità in nostalgia di tempo. In ombra di nascita. In onore di attimi inaugurali. I mille amori senza durata risolti sotto il davanzale dei tuoi occhi ogni volta differenti. Così per via che chi “…non è donna non è bambino e non è operaio…(**) domina le donne i bambini e gli operai. Questo perché il non essere domina l’essere. Il tempo illusorio finisce. Chissà, pensavo, se allora…

“E mentre che la mente elabora figure di cose sconosciute la penna del poeta le mette giù in forme e dà a quel nulla d’aria una dimora fisica e un nome” Shakespeare, “Sogno di una notte di mezza estate”

(*) “Queste son situazioni di contrabbando” ecco perché Messico e nuvole (si veda, più ampiamente, Paolo Conte)

(**) il punto altissimo di denuncia di M. Fagioli a proposito della violenza della negazione e dell’annullamento dei problemi delle persone più deboli. Esattamente anche della realtà fisica e psichica delle persone più deboli. Il punto altissimo e umilissimo del lavoro. Credo che sarebbe sufficiente metterci il cuore su certe frasi, per ritrovare un poco di tempo non inutile. La fine del tempo è il riso allegro di aver saputo tenere la mano sul punto di non ritorno. La marea comportava oscillazioni. Io continuo a scrivere come dicessi sempre “grazie” di nuovo. (si vada a cercare e trovare la frase in questione, se proprio si vuole collocare in una o due righe la storia di chi ha consentito agli altri di ritrovare una storia per riuscire ad essere ora moderni contemporanei intempestivi.)

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fallingwaterhouse


Posted By on Ago 8, 2011

fallingwaterhouse

(pretesto: per una strana confusione culturale si racconta di un pensiero originario come attività mentale che non sarebbe creazione di nulla ma misura che computa le cellule e subisce i metabolismi misurando il tempo in termini di consumo: è la nascita dell’uomo con l’angoscia di morte afflitto dalla estrema misera in cui le vicende sono misurazioni di entropia: non c’è traccia di attribuzione di nascita alla nascita: non c’è l’io nel bambino….ma è sbagliato!)

Il fuoco fa pace con le metafore non so dire come. Se piove sul filo teso è poesia dell’impossibile: quante gocce e a che differente distanza fanno vibrare la canapa di cui è complessivamente ritorto la corda sottile? Del pensiero che scatta ci si invaghisce. Del fatto che siamo in grado di proiettare edifici di delicatezza nel caos della natura – per poi trarne leggi – si resta appassionati tutta la vita. Percorro con l’esattezza di un orologiaio la pianta irregolare pensata, esploro il cortile, rifaccio mille volte distrattamente la strada, camminando concludo che la ricerca è questa irregolarità di natura umana di rifare le stesse cose accertando ogni variazione minima e gloriandoci della nostra stravaganza che si allieta di quasi (!) niente.

Non potrei vivere se non mi fosse venuto in mente ogni volta il tempo e la luce e che il pensiero non avanza verso alcuna meta. La provvidenza sono le sue mani e il fatto che manda una rosa -….beh – questo è solo in apparenza così tanto differente dai girasoli di prima di adesso. I racconti non esprimono mai alcuna successione semmai suggeriscono con piacevole maestria che i grandi accordi sono quando non si ha paura delle coesistenze.

E’ notte bianca: il massimo della civiltà non è il sonno ristoratore della fatica di vivere: è restare svegli a sognare a spese dei sogni. Abbiamo progettato case e città da mille e una notte per stare nelle strade con gli occhi stupiti del fatto che tutto quel lavoro architettonico non era per abitare: non per abitare l’interno delle strrutture edificate. Disegni di mura affiancate abbracciate ritorte e contrapposte piegate deviate scavate aperte con porte pilastri scavi. Sculture di cose immaginate, di idee in sè, che sono cose in noi.

Espressioni di un’arte che trasformano la pietra in curve di accoglienza e poi alla fine una volta ricomposto tutto e tutto arredato – dopo uno sguardo fugace – eccoci fuori a vedere dall’esterno tutto quello spreco tutta quella meravigliosa manifestazione di potenza creativa quel mondo graffiato quegli incroci di strade e anche di ordini differenti di finalità sociali. Eccoci in giro negli agglomerati urbani, nella società dei palazzi dei tetti delle stazioni dei mosaici di tessere simili a pensieri a fumetti.

E là – proprio in tutto quell’ essere certi delle belle conseguenze d’essere umani – in quel modo complesso e indescrivibile – in mezzo al via vai delle possibilità convergenti o contrapposte – eccoci a voler decidere ogni volta ‘che fare’ come allora nei boschi. L’uomo primitivo – che sceglieva già subito con amore le sue strade invisibili – è di nuovo finalmente stretto alla nostra mano ai semafori come un fratello ritrovato e ricorda.

Abbiamo disegnato il mondo a partire dalla scienza del pensiero intimo – non privatoescluso – secondo l’Atlante di Anatomia Umana Normale delle Immagini Interne. In esso si evidenzia che non c’è in noi il Maligno e che semmai siamo noi stanotte quelli che voliamo per le strade come Miracoli di Innocenza. Passeggiando rumorosi buttiamo occhiate attraverso le imposte semichiuse. Così siamo fuori in questa notte bianca ma siamo anche un poco nelle case.

Siamo un poco quelli che non sono ancora usciti: quelli che fummo quando immaginando mondi – che poi abbiamo costruiti – ancora si abitava il disegno. E ne abbiamo di esempi per raccontare quello che siamo diventati dopo essere stati atterriti dai fulmini. Siamo la Casa Sopra la Cascata – tra molte altre cose. Siamo noi che parliamo di noi. E siamo assolutamente certi di aver costruito per  scrivere di queste scrivanie di passione, della vita nei segni della scrittura.

Siamo la certezza di essere noi che parliamo di noi – che diciamo di essere case sulla cascata. Noi arrediamo l’ambiente ostile con una imprevedibile serie di invenzioni architettoniche e linguistiche indistinguibili talvolta. Manteniamo comunque l’arroganza aristocrtica dei senza tetto vestiti con modelli transitori di sartoria di cartoni che ci scaldano in grande stile. A qualcuno facciamo addirittura invidia per la maestà del portamento libero. Il linguaggio affascina quelli che non terrorizza. Conferisce larghezza di vedute.

Il linguaggio è l’attico di marciapiede questa mattina in cui – come la luce fosse un luogo – siamo assorti nella spossatezza del buio attraversato. Questa mattina è per noi la civiltà luminosa della nascita ad occhi spalancati che non si andrebbe mai via e che è impossibile dimenticare tutto quello che è stato. Questa impossibilità di dimenticare di stamani dopo la notte bianca è stata definita molto tempo fa nel migliore dei modi vitalità. E’ soggettività e si oppone all’irrealtà di un vuoto di segni della mente neonatale che non è mai stata una tavoletta di cera.

Se piove sul filo teso è poesia? Quante gocce perché suoni la corda sottile ritorta? Del pensiero che scatta ci si invaghisce? Sono tutti in grado di scorgere i delicati monumenti delle leggi che governano ai nostri occhi la natura, le giostre a pochi soldi, le creazioni di plastica dei giocattoli per i nostri figli, le fattispecie di amori possibili, le parole che durano quanto la vita di chi ascolta? A chi chiedere la risposta alla domanda se la misura del tempo fuori dal sogno sia rintracciabile soltanto nella vicenda affettiva?

Ho pensato più di una volta senza dirlo “Finchè vive sarò eterno perché il mio durare è permanenza nel suo pensiero.” Ora mi dico che si vorrà che ci sia di più. Ma di più non c’è. Noi abbiamo memoria e attraverso la nostra memoria siamo testimoni delle esistenze delle persone che amiamo e per questo restiamo legati e facciamo il linguaggio e realizziamo il patto sociale che è più forte di tutto: è una testimonianza collettiva.

In funzione della realtà apparentemente precaria del nostro durare negli altri che fa il contratto politico tra esseri umani costruiamo capolavori che di questo contratto ricalcano la forza e la grazia. Una volta costruito il mondo viaggiamo per amore della meraviglia – e nel mezzo denso di questi nostri viaggi – qualche volta – capita che ci scopriamo improvvisamente sospesi ad osservare la ‘nostra’ bellezza.

Essa è evidente nel mondo riflesso sulle pareti a specchio dei grattacieli ben tesi verso l’alto fissati saldamente al respiro degli anni futuri. Il linguaggio è l’attico di marciapiede questa mattina in cui – come la luce fosse un luogo – siamo assorti nella spossatezza del buio attraversato.

Questa mattina è per noi la civiltà luminosa della nascita ad occhi spalancati che non si andrebbe mai via e che è impossibile dimenticare tutto quello che è stato.

Non si andrebbe mai via non è per angoscia della morte ma perché stiamo bene qui. Per la gioa della vita.

(Ripresa: non siamo del tutto ingenui suicidi che si va alla vita ad occhi chiusi: sappiamo bene i rischi e tuttavia -seppure e proprio perché ‘soltanto’ ‘cinema’ -ci appaiono bellissimi da esprimere: se non si è così pericolosamente ignoranti che confondono l’immagine con la figura. Ecco qua! )

 

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nucleare


Posted By on Giu 10, 2011

nucleare

Esistenza dell’anima e inesistenza dello spirito. Potrebbe finire qua. Non è una necessità andare oltre, continuare. Starei a passare il tempo e verificare l’esattezza di due proposizioni distanti anni luce. Potrei godermi il sole e le attese per una volta sgombre di aspettative. Nella esattezza della duplice proposizione riposerei le braccia come sui braccioli della poltrona azzurra. Avrei un amore a sostenermi che non c’è stato. Avrei quello che sognavo. Esistenza dell’anima inesistenza dello spirito: è l’ascolto delle sirene per chi può capire. Potrei restare a fotografare il mio soggetto preferito, il regno celeste che è fatto di acqua e luce, le nuvole attraversate dall’aria e dalla luce che nascondono le leggi impeccabili della fisica della rifrazione, ammassi variabili grigio-azzurri, campi incolti di trasparenze dal grigio al blu al nero che manifestano alla mente sveglia e ad ogni ora del giorno inarrestabilmente – se si ha la pazienza ribelle di cercare in ogni modo di legittimare con il linguaggio la forma da sempre del mistero  della vitalità – il disegno tridimensionale del silenzio appeso al cielo: la forma della fisiologia nascosta nella materia di quanto sta all’origine della specie umana come realtà rombante di una trasformazione dello stato fisico della materia cerebrale alla nascita: quanto poi resta per tutta la vita nella fisiologia del sonno senza sogni. Forse nel coraggio del desiderio sempre rischiosissimo come si sa.

Esistenza dell’anima inesistenza dello spirito: è l’ascolto delle sirene per chi può capire allora si deve cominciare ad aggiungere in uno sforzo assoluto che è falso e cattivo dire della forza delle certezza perché le certezze rendono fragili gli esseri umani perché la materia da cui nascono i pensieri costringe alla autoriduzione di riproporre sempre il progetto della propria consistenza come persone: per questo molti cercano il potere ed uccidono per tenerlo. Per la fragilità delle certezze e dell’erranza esiliata necessaria alla permanenza della dignità del pensiero. Ogni mattina un atto di rifrazione degli sguardi svegliati attraverso nuvole polverose di luce nelle stanze. Il canto delle sirene: “… Dai, gira il volto di qua e di là nel mondo delle certezze della luce umida del cielo e nella trasparenza ingannevole quando certezza della fisica e poesia della trasparenza costringono ad una necessità di pensare quanto ritenuto non vero e dunque non reale: una fisiologia di un pensiero inarrestabile che potrebbe al limite diventare che la realtà non si deve confondere con la verità. Che la realtà coinvolge il tempo in una relazione in cui c’è un compromettersi definitivo trai due: c’è una realtà per chi può capire la gloria dell’evidenza e poi l’attesa e poi sapere che questo non potrà mai essere ritenuto del tutto necessario come se si volesse affermare che una certa cultura è fondata sull’affermazione implicita che la realtà è facoltativa. Prima l’attenzione alle alterazioni della modalità conoscitiva. La pazienza ribelle per cercare in ogni modo di legittimare con il linguaggio la forma da sempre del mistero  della vitalità – il disegno tridimensionale del silenzio appeso al cielo. Senza dubbio l’esistenza dell’anima si fonda sulla certezza della natura di irrealtà dello spirito.

Osservavamo insieme le nuvole ( è un’immagine da non tradire )  cioè le modalità tumultuose della variabilità con le quali si mostra la chiarezza della confusione culturale che non sa distinguere nelle cose del pensiero la realtà delle azioni della vita mentale dalla verità del giudizio che vorrebbe una permanenza di idee per sempre.

In alto oggi l’acqua si ammassa nel regno celeste io guardo attraverso uno scorcio di canne perché mi sono piegato per unire terra e cielo in un campo visivo che ha l’asse obliquo dal basso in alto. La natura è senz’anima e il movimento degli esseri umani nella natura sgraziata e occasionale rimette le cose a posto e secondo questa certezza affrontiamo la realtà senza la verità allora si sa camminare e sorridere nella disumana solitudine dell’irrealtà dello spirito, e, per quanto mi riguarda, opporre a quell’isolamento nel mondo divino la solitudine della chiarezza con la quale si manifesta la confusione.

” La chiarezza con la quale siamo capaci di definire la confusione è la forma sostanziale delle scoperta scientifica…” – penso all’ombra del mondo di luce ed acqua sotto la rifrazione torrida dell’afa prima della pioggia – “… è definizione di geografie sempre più accurate, sono le vie dei canti, le evoluzioni dell’uomo nel cielo dei variabili mondi quotidiani.”  Immagino la linea verticale che non arriva mai agli dei, ai luoghi dello spirito, immagino una colonna d’aria verticale dal ventre al cielo di quando resto solo coi miei pensieri e poi immagino la certezza di una linea non infinita, il segmento orizzontale della relazione che porta le figure del pensiero cosciente attraverso i fenomeni caotici del linguaggio che diventa suono nell’aria e si raccoglie addosso all’altro quando, non più solo, realizzo la conferma della presenza della divinità, l’anima non spirituale degli affetti di amore e di odio, la realtà del contenuto degli esseri umani.

Nel cielo si stagliano le sirene, ammassi di nuvole e i campi di grano infiniti delle infinite sfumature della trasparenza, che distanzia e separa le relazioni reali tra le persone dall’ombra minacciosa del mondo platonico irreale. “L’esistenza dell’anima e la inammissibilità dello spirito..” – esclama con coralità appassionata il canto della sirena – “..si basa sul rifiuto dell’esistenza di un umanità che stia fuori dagli esseri umani.”  La sirena rannuvolata vorrebbe dire delle forme di realtà che sfiorano i contorni percettivi della cose fuori di noi prima della affermazione della verità: “… vorrei dirti della bellezza della magia di quanto aspetta sempre, della resistenza nel tempo, fino a che si chiarisce l’evidenza della confusione, fino a che la vitalità invisibile rende chiaro che il nulla è irrealtà, è verità di una irrealtà…”

Noi siamo la realtà dell’affetto di una relazione seppure non riusciamo a dirci la verità, nell’affanno passionale di incontri in cui tutto sembra troppo, a causa della nostra difficoltà di comprensione, per la natura della realtà sensoriale che sconvolge la coscienza. Ecco com’è. La relazione tra le persone è realtà da difendere. Ecco com’è. Possiamo ripeterci la parola ‘amore’ o scoprire altre parole per l’elevazione allo scoglio delle sirene, osare la costruzione della scala per arrivare alle nuvole, e sfiorarle con le dita di una creatura diafana di sensibilità inimmaginabile cresciuta nel nostro  aspettare da sempre. Per qualcuno potrebbe essere stato umiliante aver cercato da sempre: ma la realtà della faccenda è che ci fu da un certo momento in avanti un rifiuto dell’eternità e quel rifiuto ci curava le conseguenze mortali della solitudine cui la confusione costringeva tutti. Penso così.

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