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immediata incoscienza


Posted By on Giu 29, 2016

amore 2

amore 2

Se resto sulle mie posizioni? Si. Non che le abbia tutte confrontate con tutto il resto…. non si ha tempo di farlo da un certo momento in poi!

Chiedo: in età sufficiente… qualcuno può avvicinarsi senza pudore? Nessuna che voglia programmi invece, piuttosto, una di quelle che sanno tenere il proprio desiderio in un anonimato di sabbia e onde.

Ogni mattina una ragazza o un ragazzo guardarono la linea della costa. Uomo e donna con le schiene incise come bassorilievi. A me riguarda ‘lei’ che sembrava farsi mia.

Potresti essere l’eroina?” le chiedevo.

In risposta, il silenzio. Ma, si badi bene, queste son invenzioni di letteratura e ogni riferimento a cose o persone reali è talmente compromettente da parere inverosimile. E l’incredulità assolve la citazione. Tu sai chi sei….

Vagano le mie richieste nel vento. I tuoi capelli troppo corti, eppure scossi e animati dall’elettricità del giorno mediterraneo, rispondono in coro.

Fai di me una cosa tua…..”

E faccio finta di non capire, restando disteso, schiacciato dal sole: mentre tu, ugualmente sottomessa al calore torrido degli sguardi maschili, frani lentamente in un riposo acquatico. Per tua natura, allagata da onde di occhiate e parole, di fatto, progressivamente, cedi!

Oltre a me dev’esserci chi vede l’impudicizia estrema nella curva dei tuoi glutei seminudi accentuata dalla contrazione svergognata di un innominato fascio di fibre muscolari striate. Tu sei di tutti coloro che sanno.

Sono scene di oggi e del paleolitico. Di stamani e di un giorno di trentamila anni fa: quando il desiderio si alzò dichiarando la propria urgenza di fronte al coraggio sfrontato di donna di voltare le spalle per lasciarsi cullare.

Con carezze cieche su corpi privi di pentimento i progenitori colmarono quanto sembrava mancante con gesti di invito e seduzione dettati da una immediata incoscienza.

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Frontespizio del Dragmaticon. In alto: la Filosofia a colloquio con Platone; in basso: Goffredo V d'Angiò con Guglielmo di Conches. Biblioteca della Fondazione Martin Bodmer

Frontespizio del Dragmaticon. In alto: la Filosofia a colloquio con Platone; in basso: Goffredo V d’Angiò con Guglielmo di Conches. Biblioteca della Fondazione Martin Bodmer

Non dirò niente di quello che capisco via via in più. Non ti tormenterò con la pretesa che tu debba condividere tutto con me. Mi sono innamorato di te allora. Ora delle nostre differenze.

Ma da quella parte in cui gli elementi erano presenti in eguale quantità è stato formato il corpo umano ed è proprio ciò che dice la sacra scrittura: <dio fece l’uomo col fango della terra>. Ma siccome ciò che è più vicino al composto di parti uguali è, seppure in minor misura, abbastanza proporzionato, è verosimile che il corpo della donna sia stato formato con del fango che era lì vicino e perciò non è né perfettamente uguale all’uomo né del tutto diversa né così equilibrata come l’uomo: poiché la più calda è più fredda dell’uomo più freddo, e ciò si legge nella pagina divina che dice aver dio fatto la donna <dal fianco di Adamo>. Non si deve infatti credere alla lettera della Bibbia cioè che dio abbia tolto una costola al primo uomo.” Da ‘De Philosophia Mundi’ di Guglielmo di Conches (1080/1154 circa)

E la donna è rimasta sempre vicina per una separazione che la prossimità misura e che l’amore non annulla. Così con l’amore terreno tra donna e uomo onoriamo dio ringraziandolo per l’errore fatale di essere soggiaciuto alla casualità nella creazione dei due generi maschile e femminile. Grazie alla natura assegnataci da dio, che non riuscì ad evitare la natura come lui l’aveva creata, possiamo mantenere sempre l’appassionata tendenza a restare insieme perché mai saremo uguali. Ci cerchiamo e cerchiamo luoghi appartati e intimi dove stringerci: tanto l’uno non potrà mai più perdersi nell’altro. L’amore egoistico per la nostra casuale unicità ha fatto tutto questo possibile. Avere a cuore i nostri cuori singolari, amare i contorni delle cose, mettere in poesia resiliente la netta rivendicazione della differenza che ci fa essere in due.

Il tempo insieme è ciò di cui non si può parlare. L’umano sentimento è il discorso intimo e nomade lungo i confini di una irriducibilità. Il pensiero preverbale resterà sempre indicibile. Ed io ho bisogno di te perché penso che sia in te, che sei di natura tanto diversa da me, quel mio pensiero. E questo voglio dire quando dico che ti amo. Che tu sei il corpo evidente di pensieri miei che si sottraggono ad una narrazione. Ma restano. Non tradiscono mai la presenza con l’assenza.

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passione e rivoluzione


Posted By on Giu 12, 2015

Il deserto inghiotte cielo luce suoni orme sudore. Rimbalzano le zampe gommose dei cammelli e feriscono la superficie come coltelli i bastoni dei beduini trascicati per vezzo non avendo nessun’altra funzione. Là si fissò un’attenzione concentrica, una perplessa altalena di domande, l’uomo di legni secchi che caccia via gli spiriti è come uno zampillo nero e una trovata macabra ed è simultaneamente ‘centro’ di quel mondo. L’io adulto. La carta della “Fontana” nel mezzo di un mazzo di carte divinatorie.

È andata così: prima trent’anni di lavoro di gruppo. Poi gli ultimi cinque anni dei trenta durante i quali si è realizzata la ricerca su linguaggio e disegni. Infine le ultime ventotto settimane di trentaquattro di una gravidanza che si è occasionalmente svolta in nostra compagnia e che la ragazza porterà a termine a settembre alla ripresa del lavoro collettivo dopo le settimane della separazione estiva.

Bisogna comprendere che non sia, questo numerare, un conto di ragioneria: la matematica è immagine irrazionale. Quei numeri non sono schegge della scatola del tempo. Sono olivi e donne, guerrieri e grano, ombre e rose, vino e sere, nuvole e  mali, ferite guarite e lesioni fatali, morti o soltanto accidenti, terra nera e però narrata in romanzi vincitori di ambìti riconoscimenti, mani di un operaio e industrie di creazioni.

Nel contare trent’anni, nel toglierne cinque, nell’aggiungere alle divisioni dell’anno i cicli lunari di poco più di trenta settimane, la matematica unisce la vicenda di una gravidanza al destino di un’intera nazione.

Si offre nudo all’invidia il calcolo storico. In soccorso vengono le parole della coscienza che afferma:

“La rivoluzione annuale della terra, nella psicoterapia di gruppo, si è indissolubilimente legata alla passione mensile della luna”.

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nessuno può farci niente


Posted By on Dic 28, 2013

Devo scrivere il lieto fine adesso. Per un giusto dato di fisica potrebbe essere appurato che la lieta conclusione sia già qui. Spazio e tempo insieme hanno una natura che non possiamo individuare. Nella mente si compongono a fare l’io, io credo. Ho disegnato la sfinge come donna che mi piacerebbe trovare spesso il giorno così disposta a muoversi leggera e sghemba. Le ho fatto una flessione del collo sul busto che indica una assenza totale di serietà, cioè una determinazione ad una costante possibilità d’essere un quesito. Per questo la sfinge, ma una sfinge non mitologica e non irripetibile, una vera domanda continua inquietante, che continuamente chiede ma che cambia ogni attimo le risposte al quesito.

Con una così non ci sarà mai più un Edipo trionfante di boria, perché si saprà subito che non c’è una ed una sola soluzione. Come era scritto? Già, era scritto, alla fine della pagina del libro di psicoanalisi o meglio, di teoria psicoanalitica: Poi lui doveva uccidere il padre” e poi non aveva ucciso il padre, non era stato più necessario. Allora avevo capito che il discorso psicoanalitico nuovo non riguardava solo una certa teorizzazione sui modi dell’interpretazione, riguardava un modo differente di intendere la natura (la ‘nascita’) del pensiero. Non riguardava la storia ma la biologia. Non la scienza che il pensiero umano aveva definito originariamente “filosofia naturale”, ma la determinazione di una scienza più chiara e di una ulteriore scoperta sulla realtà fisica delle funzioni mentali.

Ecco non c’è sempre solo un destino. Poi lui non aveva ucciso il padre. Per una serie di pratiche sensibili e di scelte imprevedibili e non ortodosse, il contro transfert del medico era stato capace di deviare il ‘fato’. Si era trattato semplicemente, dico ora, di cultura coraggiosa, di una solitaria scelta: pericolosa, forse, per uno che avesse avuto un super-io appena un poco severo. Ma al medico in questione le cose non parevano così dissennate ed ebbe ragione infatti.

Ora: non ci sarà mai più Edipo alla fine della strada maestra. Non più un’unica possibilità. La sfinge non ha una sola domanda e non c’è una sola risposta. La donna avanza come sarebbe anche possibile. È un’ideale variabile per restare verosimile. Tale ideale plausibile pre-figura il lieto fine. Meglio: già lo è. Non fa da storia narrata, è prima delle presenti parole, è un disegno capitato al pomeriggio.

Cerco sempre le linee. I circuiti del piacere producono, alla visone della linea sottile, una certa quantità di dopamina: cosicché resto invischiato in un modo di pensare che mi farà finir male, cioè bene, dato che cercherò sempre più linee, e se allora riuscirò a mangiare e lavorare appena quello che mi serve per la vita fisica e il sostentamento delle persone che da me dipendono, resterà assicurato il tempo mio, la felicità segreta dentro le sbarre ritorte, le linee della prigione delle figure che spingono attorno il vento delle parole: la ‘grafia’ del pensiero.

Finirò per non fare altro che questa vita. Come Cezanne e come Manet. Nel giardino di ninfee. Edipo si è affogato nello stagno di un pittore impressionista ossessionato dai riflessi di fiori e cielo su acque ferme. Vedo documentari sulla vita -ricostruita postuma- di artisti barbuti grassi e dallo sguardo terribilmente dolce e spaurito. Costretti a fare il muso duro tra le braccia di donne imperative, corazzate per la dissuasione del genio. Barbe folte e lunghe, colline deludenti a vederle dal vero, colori sulla tela che assolvono dio per certi paesaggi che non avrebbero avuto nulla di strepitoso, non fosse stato per la cresima della vernice ad olio sparsa all’aria, che è la liturgia della trasformazione del corpo in lavoro e colori e, la notte, per ripicca, trasformazione di alimenti e bevande in veri e propri banchetti di pittori impressionisti a trangugiare il golem dei corpi delle modelle.

Finirò male cioè bene. Devo finire come loro. Da far pietà a disegnare linee. Nessuna figura. Nessuna compiacenza alla comprensione. Ho fatto abbastanza di logico e di logicamente criticabile sbagliato e condannabile. Adesso vado nella vita sospesa. Tra le braccia di ragazze sbadate e prive di senno. Con il tempo nel seno ricco di latte. Avvolto nelle nuvole di profumo. Una serie di giornate da far invidia. Non agli antipodi. La felicità nel giardino di casa. I mazzi di sorrisi sul pianerottolo. Venere porta i fiori. Stavolta è stato facile. Scrivo il lieto fine cioè che la felicità di adesso è permanente. Bisogna capire lo spazio-tempo della presente dimensione.

Esco con amici che non capiscono nulla di queste parole. Si ostinano di attribuire alle loro compagne e ai loro compagni la responsabilità delle incomprensioni d’amore. Dicono “È colpa sua io l’amo ma non me ne viene niente indietro e così” …. Ma non è quello il verso delle cose. Non vanno mai nella vita sospesa. Non vanno mai nel mondo oltre le figure. Non disegnano le linee. Non discutono tormentandosi le dita, allacciando e snodando le dita delle mani nella grafia della prigione cioè nel canto blues dei campo di cotone, discutono seri e corretti con mani pulite. Hanno i corpi tondi senza spigoli: differenti dalle mani degli artisti.

Ho amici pericolosi, che non accettano le linee avvolte ingarbugliate intricate dell’uomo di filo di ferro che io invece, appena me ne fu offerta l’occasione, feci subito entrare nella mia stanza avendone compreso l’imponente dolcezza. Avendo capito che era un uomo attorcigliato coi fili della pazienza dalla pazienza di un altro uomo che ne è l’autore, come si dice. Un uomo fatto di carne e sangue aveva creato un uomo fatto di fili di ferro dipanati e poi attorcigliati di nuovo ma in uno spazio angusto, quello spazio in cui l’immagine dell’artista voleva condensare il tempo che aveva visto nella crescita e nella maturazione della vigna che il filo di ferro teneva in filari paralleli ordinati.

Ho nella mia stanza un uomo di ferrea pazienza, di fili di tempo svolti nell’universo gravitazionale sotto forma di traiettorie di luce bruna. Ho il gigante dell’io, l’uomo ideale di spazio-tempo. Le dimensioni psichiche si vedono bene negli interstizi d’aria tra i fili avvolti. Si vede lo spazio curvato dalla massa del pensiero centrale che tiene la composizione scultorea. Si vede il nucleo nel quale tutto continuamente precipita, come anche noi sempre precipitiamo nel cono attraente della massa dei corpi chiari o neri delle donne che ci circondano e allora, al colmo della velocità delle nostre vite cadenti, ci pare di volare. Pensa te!

Avevo visto il gigante buono intrecciato da mani piangenti. Un uomo fatto di fili di ferro che erano certamente la forma ridente e irriverente dei capelli di Einstein. Avevo visto e sentito, nel freddo e nel caldo del vino freddo e del coucous gratuito bollente, il futuro già li. Avevo pensato che era un’opera d’arte. Adesso è nella stanza. Non che sia mia la scultura. Niente è mio di quello di cui colgo la bellezza. L’astratta essenza, che è la più potente sostanza delle cose, le libera dal possesso, le rende leggere imprendibili. Così più la guardo e più ondeggia e più mi prende in giro, sorride la statua di filo di ferro. È una figura buona la bella composizione artistica di Simone che Simone mi ha regalato. È uguale e diversa dalle donne imponenti dei pittori della Belle Epoque. Non è burbera e non dissuade la genialità.

Io mi faccio spesso la barba ed evito la grassezza. Per un fatto che deve essere in un certo modo la fisicità sulla quale si affondano le mani dei cercatori. Devono essere come le mani degli artisti e degli scultori soprattutto gli uomini e le donne che vogliono durare a cercare senza il peso dell’ottusità. Devono avere forme magre, sottili, con anelli, con segmenti visibili, con eleganti giunzioni da poter entrare nei guanti dei loro amanti, nei burattini delle loro storie. Devono essere artisti i cercatori, belli come mani brave e disponibili che ancheggiano in aria nei capelli di dio. Devono essere magri e forti capaci di muoversi -magari male- ma mai senza l’eleganza dello scarso ingombro. Come è necessario se si vuole far ridere e piangere.

Le persone che cercano dovranno diventare burattini che recitano l’invidia, il lupo, la rabbia, la delusione, la tristezza, la traversata del pacifico e dell’Atlantico, e, soprattutto, la bandiera sul polo magnetico dell’Antartide dove bisogna arrivare senza morire e senza restare statue. Io ho visto le mani dolci e tristi perché avevano disfatto la vigna allentando il ferro via delle fibre attorcigliate dei vitigni. Dove ferro e pianta entrano uno nell’altra. I chiodi nella carne. Edipo che si accieca perché ha ucciso il padre. E Gesù che viene inchiodato dalla logica del padre che lo sacrifica al male. Due miti. Meglio il primo o il secondo? Sempre di una irresolutezza della ragione si tratta. E poi è mitologia che si ripete. Liturgie. Non può essere.

Vado nella vita leggera. Dentro i ritornelli della musica popolare. Bisogna capire lo spazio tempo, la dimensione che si vive solo nell’io della mente. Lo spazio-tempo che è l’io. Che non sappiamo descriverci da noi. Eccoti che avanzi una ragazza per tutte a chiarire. “Guardami” dici come la modella di Matisse tutta nuda e lui così vecchio e curioso. Che fa le linee, una sola per tutta la figura. Maestri. Spazio-tempo dell’io. Linea intera continua che non finisce mai. Un trucco perché c’è il mondo della tela bianca. L’invenzione dei lingotti preziosi di grafite dentro il legno. Ancora legno e chiodi scuri per disegnare sulla carne del cielo di vernice e di colla impastate a fare lo strato su cui pitturare, dopo. Il trucco dell’amore per la carne bianca e il trucco della passione infinita per il tempo che è un desiderio impossibile a consumare. Se non sarai tu sarà un’altra, ogni altra forse. Non potrò mai smettere. Nessuno può farci niente.

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gli anni passati soli


Posted By on Dic 19, 2013

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“ESSERE DONNA”
claudiobadii

Ecco. Il nesso era in una indignazione. Riesce sempre più difficile tenere la lotta contro chi è vicino e crede di potersi difendere dalla accusa di stupidità solo per la sua vicinanza. Non ho molto da dire. Che ci sono quattro gambe del tavolo e sono: amore, forte, potente, valido. Una viene tenuta e definita dalla articolazione delle altre tre. La quarta dimensione ‘compare’ all’improvviso come referente e soggetto di attribuzioni altrimenti instabili. Alla fine la certezza che esiste l’altro…. è l’altro. Da questo restavi lontano. Ma non serve quando l’altro c’è. Quando l’altro modo di cercare, curare, rapportarsi e parlare è la nella stanza. Quando anche la stanza intera è come una donna nella pineta. Quando le persone sono come gli alberi nel soggiorno a profumare l’aria. Il nesso attraversa il tempo. Dicevamo ieri sera: essere di fronte all’altro è misurare la propria distanza dalla nostra nascita. Appunto, chi abbiamo di fronte è distante da noi in modo direttamente proporzionale alla maggiore o minore realizzazione di certezza del seno nell’inaugurazione della vita mentale alla fine del parto. Forte, potente, valido amore. Certa, chiara, suadente narrazione scientifica. Tutto quello che vuoi, che io sappia potere…

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