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“io sono : tu sei”


Posted By on Mar 27, 2015

Tiro via i pacchi legati con fiocchi di corda. Dal marciapiede attraverso gli occhi fino in mente. Il latte ha le proteine e il caffè bruno spinge più veloci i mediatori della passione. Cammino sulle case e i tetti. La realtà psichica ha natura fisica. La passione migliora le prestazioni della vita mentale. Tiro su i fardelli di sogno che portavi da me quando ti eri ammalata. Ti spiegavo i miei pensieri in proposito alla tua variabile presenza là di fronte a me inclinando la testa per avvicinarmi a te: che non sentissi, nella mia pretesa di esattezza verbale, solo la mente scientifica. Non dovevi percepire la gravità del disturbo in quel momento, ma solo la grandezza di cui potevi (avresti ben presto dovuto) essere capace: il bello della estrema difficoltà.

Si impara dai suoni a parlare in tenera età: così sfruttai quella innata qualità di ciascuno. Non era importante mettere in chiaro un programma di terapia. Troppo dolore. Le tue ossa rotte scricchiolavano e coraggiosamente ridevi. Era l’inconscio malato di fronte al quale ponevo volontà intenzione e coscienza: il ricordo della formazione che dice “bisogna sapere cosa fare, perché si deve farlo e con chi lo stiamo facendo”. Questo implica che il medico deve essere capace di accettare di più della formalità teoretica per realizzare una capacità di pensiero individuale: io ero certo ormai, in quei giorni, che il non cosciente sarà in ordine ogni volta che saprà tacere e assentire rendendosi leggero come il cielo di primavera sui fiori di ciliegio delle stampe giapponesi: stucchevoli fastidiose ma, infine, perfette!

Inchinavo il busto verso di te cullando le parole che poi soffiavo sul tuo viso e non vedevi che lanciavo baci a mia madre dal vetro posteriore della macchina la prima volta che volai via da lei. Si vuole dare la vita ai genitori da piccoli ma nella vita adulta razionale in pochi lo scoprono perdendo così molte funzioni della loro anima che resta povera e bisognosa. Volevo darti la vita. Non so se una prerogativa del medico abbia a che fare col gesto di dare la vita con un bacio da lontano. Con il volo di petali dei fiori dei ciliegi che durano un giorno. Se ha a che fare con la fatuità di un gesto unico e irripetibile che salva la vita e va via. ‘Medico’ dunque deve essere stato quanto riuscivo a pensare di me nel chinare il viso e il busto verso di te nel parlarti

“Può venire sempre in questo giorno della settimana proprio a quest’ora”.

Era la composizione del linguaggio verbale cosciente che esprime contiene e protegge l’immagine di sè differente da tutti. L’oro della facilità di un sorriso non alterava l’altra più potente certezza cosciente di stare realizzando un contratto. Il sorriso del normale inizio di una cura nascondeva l’altra consapevolezza: ora siamo legati per sempre ed io non potrò più stare male ed essere distratto o assente con lei. Avevo già le due poltrone blu che mi concedevo come unica esile certezza di realtà fisica ben composta nel timbro cromatico davvero notevole.

“Un gran bel blu!” come notasti, subito prima di annegare senza accorgerti nel mare di attese che avevi disegnato negli anni fino ad allora. Il resto dunque sarebbe stato fantasia, capacità di immaginazione e linguaggio verbale cosciente.

Bisogna star ‘bene’ per riuscire a non assentarsi. Dimenticare tutto per la non intenzionale prevalenza dell’interesse per l’altro. Nessuno si fida che sia possibile. E confidano nella natura di menzogna delle parole della relazione, e neanche verrebbero se non fossero certi nell’animo che l’interesse non esiste. Così anche con te la ‘menzogna’ terapeutica cominciò ad avere i suoi effetti: eri felice per una serie di bugie che raccontavi. Che era amore unico. Ed io non rifiutavo le tue idee. Lasciavo che si sviluppasse il ‘transfert’ positivo. Perché la realtà psichica ha natura fisica e la felicità è sempre una ‘cosa’. Qualunque ne sia l’origine.

Così nella stanza tu avesti la tua prima ‘cosa’. Tu (che avevi perduto il seno, e come tutte le persone normali portavi le tue promesse fiorenti gonfie di disperazione, come fossero al contrario seni gonfi: l’uno di latte e di miele il fratello) avesti inspiegabilmente quella ‘cosa’ -che credevi impossibile/sparita- in cambio dell’altra cosa che promettevi per nascondere la disperazione di averla perduta.

Ora che si poteva intuire una realtà diversa dalla impossibilità e dalla disperazione dovevo impedirti di distruggerla. Non ‘dovevi’ avere più il ‘potere’ di distruggere i ragazzini, gli amori e le parole, come apparve immediatamente evidente che avevi imparato a fare da tempo immemorabile. Non dovevi potere dico non secondo un ‘giudicare’ di ‘valori’, ma per sapere che -avendo la vita psichica natura fisica- la distruzione delle cose immaginate porta inevitabilmente ad una alterazione fisica invisibile che corrisponde ad una lesione di funzioni.

Allora, in piena coscienza e con ferrea determinazione, cominciai a disegnare quella cosa del tuo pensiero che era comparsa come felicità e come terrore dell’esistenza di una ‘fisiologia del benessere’. Cominciai a disegnare disegnando tutto quello che capitava. Era il mio contro/transfert. Disegnavo le cose che mi passavano per la mente. Non copiavo la realtà esterna. Era un modo di amarti continuando a mentire. Le bugie diventarono una galleria di spunti di inchiostro e acquerello. Fissavo il disegno delle cose che dicevi con le puntine colorate al muro grande bianco. Fissavo ‘la vita’ dei disegni sulla ‘morte’ bianca: la storia che non potevi dire: la tua morte per assideramento.

Io mi tenevo meglio che fosse possibile in quelle circostanze estreme. Quando andavi via restavo sull’isola australe a sud della Terra dei Fuochi. Studiavo i viaggi di Magellano. Il passaggio a Nord-Ovest dei pazzi navigatori che inauguravano gli oceani: avevano un oceano di impazienza più grande di quello che volevano solcare. Bisogna avere un orizzonte dentro la mente come un sottile filo che tenga lontano il pensiero dalla disperazione e dalla certezza del nulla per avventurarsi in quello che non si conosce. È l’attrazione per la ‘donna’.

Si vuole dare la vita alla madre nel dare il nome al mare che si perlustra. Riservavo al padre la poltrona degli sconosciuti. Mio padre era la maschera del cinematografo che ci accompagnava alle poltroncine di velluto: fino ai tredici anni del mio desiderio. Le interpretazioni sono sempre il primo bacio. Si mente nella cura che si riserva alle parole. Quello che Freud non avrebbe potuto poi dire mai più. Dopo infatti lo trovammo fuori di sè a allucinare una continuità tra la funzione cerebrale del feto e la vita mentale del neonato dopo la nascita del pensiero alla fine del parto. Quando nascono cose nella mente a causa della nascita. Quando nasce la mente alla nascita. Inavvertita/mente.

Stamani tiro su pacchi allineati sui marciapiedi chiusi dallo spago colorato e mi ricordo improvvisamente solo degli ultimi cinque anni. Il blog di Operaprima come contro/transfert.

E ci sei ‘tu’ nella strada e ci sei sempre stata. Forse ci sei da quando volai via la prima volta da mia madre e la vidi allontanarsi dal vetro posteriore della macchina di mio padre che mi portava a giocare lontano. Da quando riuscii a salvare qualcosa dal dolore, dalla paura di morire. Da quando pensai che non era detto che lontano da me, non più protetta dallo sguardo magico del mio amore sarebbe morta. Da quando l’angoscia di essere cattivo si attenuò e potei pensare ad un oggetto non distrutto e dunque non precario. Potei distrarmi forse. Pensare a me libero dal dovere del mio amore magico onnipotente. Fondare la necessità della scienza e della conoscenza. Da allora ci sei e di fatto sei in quanto resta di identità personale per vivere la mia vita che nacque allora come pensiero non più disperato  dell’incurabilità.

Ora posso mettere insieme vita personale e comprensione progressiva della ‘scoperta scientifica’ e sono certo che la vita mentale ha natura fisica che se non viene distrutta annientata e dispersa nel vento dei campi di sterminio allora poi cresce si sviluppa e si può averci a che fare fino a farle trovare la capacità per scrivere:

“Io sono : Tu sei”

E le cose saranno più facili e meno dolorose. Anche se nessuno ci aveva sperato. Si cresce anche senza amore. In attesa di quello che poi arriva. Tale possibilità di immaginare la legittimità del proprio amore senza oggetto si definisce, nella ben nota teoria della nascita, “certezza che esiste il seno”. La capacità di immaginare del neonato è attualmente riconosciuta come patrimonio della specie alla nascita. È risultato per adesso, in ambito scientifico, che essa è indispensabile per la cura della malattia psichica e, in ambito artistico, che è alla base della realizzazione della bellezza. Non sappiamo se -o quanto tempo dovrà passare fino a che- essa sia in grado di difendere poi per sempre la salute ritrovata  e le opere alla fine realizzate… dalla pulsione di annullamento: che è quanto le si oppone come specifico disumano dell’uomo.

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nessuno può farci niente


Posted By on Dic 28, 2013

Devo scrivere il lieto fine adesso. Per un giusto dato di fisica potrebbe essere appurato che la lieta conclusione sia già qui. Spazio e tempo insieme hanno una natura che non possiamo individuare. Nella mente si compongono a fare l’io, io credo. Ho disegnato la sfinge come donna che mi piacerebbe trovare spesso il giorno così disposta a muoversi leggera e sghemba. Le ho fatto una flessione del collo sul busto che indica una assenza totale di serietà, cioè una determinazione ad una costante possibilità d’essere un quesito. Per questo la sfinge, ma una sfinge non mitologica e non irripetibile, una vera domanda continua inquietante, che continuamente chiede ma che cambia ogni attimo le risposte al quesito.

Con una così non ci sarà mai più un Edipo trionfante di boria, perché si saprà subito che non c’è una ed una sola soluzione. Come era scritto? Già, era scritto, alla fine della pagina del libro di psicoanalisi o meglio, di teoria psicoanalitica: Poi lui doveva uccidere il padre” e poi non aveva ucciso il padre, non era stato più necessario. Allora avevo capito che il discorso psicoanalitico nuovo non riguardava solo una certa teorizzazione sui modi dell’interpretazione, riguardava un modo differente di intendere la natura (la ‘nascita’) del pensiero. Non riguardava la storia ma la biologia. Non la scienza che il pensiero umano aveva definito originariamente “filosofia naturale”, ma la determinazione di una scienza più chiara e di una ulteriore scoperta sulla realtà fisica delle funzioni mentali.

Ecco non c’è sempre solo un destino. Poi lui non aveva ucciso il padre. Per una serie di pratiche sensibili e di scelte imprevedibili e non ortodosse, il contro transfert del medico era stato capace di deviare il ‘fato’. Si era trattato semplicemente, dico ora, di cultura coraggiosa, di una solitaria scelta: pericolosa, forse, per uno che avesse avuto un super-io appena un poco severo. Ma al medico in questione le cose non parevano così dissennate ed ebbe ragione infatti.

Ora: non ci sarà mai più Edipo alla fine della strada maestra. Non più un’unica possibilità. La sfinge non ha una sola domanda e non c’è una sola risposta. La donna avanza come sarebbe anche possibile. È un’ideale variabile per restare verosimile. Tale ideale plausibile pre-figura il lieto fine. Meglio: già lo è. Non fa da storia narrata, è prima delle presenti parole, è un disegno capitato al pomeriggio.

Cerco sempre le linee. I circuiti del piacere producono, alla visone della linea sottile, una certa quantità di dopamina: cosicché resto invischiato in un modo di pensare che mi farà finir male, cioè bene, dato che cercherò sempre più linee, e se allora riuscirò a mangiare e lavorare appena quello che mi serve per la vita fisica e il sostentamento delle persone che da me dipendono, resterà assicurato il tempo mio, la felicità segreta dentro le sbarre ritorte, le linee della prigione delle figure che spingono attorno il vento delle parole: la ‘grafia’ del pensiero.

Finirò per non fare altro che questa vita. Come Cezanne e come Manet. Nel giardino di ninfee. Edipo si è affogato nello stagno di un pittore impressionista ossessionato dai riflessi di fiori e cielo su acque ferme. Vedo documentari sulla vita -ricostruita postuma- di artisti barbuti grassi e dallo sguardo terribilmente dolce e spaurito. Costretti a fare il muso duro tra le braccia di donne imperative, corazzate per la dissuasione del genio. Barbe folte e lunghe, colline deludenti a vederle dal vero, colori sulla tela che assolvono dio per certi paesaggi che non avrebbero avuto nulla di strepitoso, non fosse stato per la cresima della vernice ad olio sparsa all’aria, che è la liturgia della trasformazione del corpo in lavoro e colori e, la notte, per ripicca, trasformazione di alimenti e bevande in veri e propri banchetti di pittori impressionisti a trangugiare il golem dei corpi delle modelle.

Finirò male cioè bene. Devo finire come loro. Da far pietà a disegnare linee. Nessuna figura. Nessuna compiacenza alla comprensione. Ho fatto abbastanza di logico e di logicamente criticabile sbagliato e condannabile. Adesso vado nella vita sospesa. Tra le braccia di ragazze sbadate e prive di senno. Con il tempo nel seno ricco di latte. Avvolto nelle nuvole di profumo. Una serie di giornate da far invidia. Non agli antipodi. La felicità nel giardino di casa. I mazzi di sorrisi sul pianerottolo. Venere porta i fiori. Stavolta è stato facile. Scrivo il lieto fine cioè che la felicità di adesso è permanente. Bisogna capire lo spazio-tempo della presente dimensione.

Esco con amici che non capiscono nulla di queste parole. Si ostinano di attribuire alle loro compagne e ai loro compagni la responsabilità delle incomprensioni d’amore. Dicono “È colpa sua io l’amo ma non me ne viene niente indietro e così” …. Ma non è quello il verso delle cose. Non vanno mai nella vita sospesa. Non vanno mai nel mondo oltre le figure. Non disegnano le linee. Non discutono tormentandosi le dita, allacciando e snodando le dita delle mani nella grafia della prigione cioè nel canto blues dei campo di cotone, discutono seri e corretti con mani pulite. Hanno i corpi tondi senza spigoli: differenti dalle mani degli artisti.

Ho amici pericolosi, che non accettano le linee avvolte ingarbugliate intricate dell’uomo di filo di ferro che io invece, appena me ne fu offerta l’occasione, feci subito entrare nella mia stanza avendone compreso l’imponente dolcezza. Avendo capito che era un uomo attorcigliato coi fili della pazienza dalla pazienza di un altro uomo che ne è l’autore, come si dice. Un uomo fatto di carne e sangue aveva creato un uomo fatto di fili di ferro dipanati e poi attorcigliati di nuovo ma in uno spazio angusto, quello spazio in cui l’immagine dell’artista voleva condensare il tempo che aveva visto nella crescita e nella maturazione della vigna che il filo di ferro teneva in filari paralleli ordinati.

Ho nella mia stanza un uomo di ferrea pazienza, di fili di tempo svolti nell’universo gravitazionale sotto forma di traiettorie di luce bruna. Ho il gigante dell’io, l’uomo ideale di spazio-tempo. Le dimensioni psichiche si vedono bene negli interstizi d’aria tra i fili avvolti. Si vede lo spazio curvato dalla massa del pensiero centrale che tiene la composizione scultorea. Si vede il nucleo nel quale tutto continuamente precipita, come anche noi sempre precipitiamo nel cono attraente della massa dei corpi chiari o neri delle donne che ci circondano e allora, al colmo della velocità delle nostre vite cadenti, ci pare di volare. Pensa te!

Avevo visto il gigante buono intrecciato da mani piangenti. Un uomo fatto di fili di ferro che erano certamente la forma ridente e irriverente dei capelli di Einstein. Avevo visto e sentito, nel freddo e nel caldo del vino freddo e del coucous gratuito bollente, il futuro già li. Avevo pensato che era un’opera d’arte. Adesso è nella stanza. Non che sia mia la scultura. Niente è mio di quello di cui colgo la bellezza. L’astratta essenza, che è la più potente sostanza delle cose, le libera dal possesso, le rende leggere imprendibili. Così più la guardo e più ondeggia e più mi prende in giro, sorride la statua di filo di ferro. È una figura buona la bella composizione artistica di Simone che Simone mi ha regalato. È uguale e diversa dalle donne imponenti dei pittori della Belle Epoque. Non è burbera e non dissuade la genialità.

Io mi faccio spesso la barba ed evito la grassezza. Per un fatto che deve essere in un certo modo la fisicità sulla quale si affondano le mani dei cercatori. Devono essere come le mani degli artisti e degli scultori soprattutto gli uomini e le donne che vogliono durare a cercare senza il peso dell’ottusità. Devono avere forme magre, sottili, con anelli, con segmenti visibili, con eleganti giunzioni da poter entrare nei guanti dei loro amanti, nei burattini delle loro storie. Devono essere artisti i cercatori, belli come mani brave e disponibili che ancheggiano in aria nei capelli di dio. Devono essere magri e forti capaci di muoversi -magari male- ma mai senza l’eleganza dello scarso ingombro. Come è necessario se si vuole far ridere e piangere.

Le persone che cercano dovranno diventare burattini che recitano l’invidia, il lupo, la rabbia, la delusione, la tristezza, la traversata del pacifico e dell’Atlantico, e, soprattutto, la bandiera sul polo magnetico dell’Antartide dove bisogna arrivare senza morire e senza restare statue. Io ho visto le mani dolci e tristi perché avevano disfatto la vigna allentando il ferro via delle fibre attorcigliate dei vitigni. Dove ferro e pianta entrano uno nell’altra. I chiodi nella carne. Edipo che si accieca perché ha ucciso il padre. E Gesù che viene inchiodato dalla logica del padre che lo sacrifica al male. Due miti. Meglio il primo o il secondo? Sempre di una irresolutezza della ragione si tratta. E poi è mitologia che si ripete. Liturgie. Non può essere.

Vado nella vita leggera. Dentro i ritornelli della musica popolare. Bisogna capire lo spazio tempo, la dimensione che si vive solo nell’io della mente. Lo spazio-tempo che è l’io. Che non sappiamo descriverci da noi. Eccoti che avanzi una ragazza per tutte a chiarire. “Guardami” dici come la modella di Matisse tutta nuda e lui così vecchio e curioso. Che fa le linee, una sola per tutta la figura. Maestri. Spazio-tempo dell’io. Linea intera continua che non finisce mai. Un trucco perché c’è il mondo della tela bianca. L’invenzione dei lingotti preziosi di grafite dentro il legno. Ancora legno e chiodi scuri per disegnare sulla carne del cielo di vernice e di colla impastate a fare lo strato su cui pitturare, dopo. Il trucco dell’amore per la carne bianca e il trucco della passione infinita per il tempo che è un desiderio impossibile a consumare. Se non sarai tu sarà un’altra, ogni altra forse. Non potrò mai smettere. Nessuno può farci niente.

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dopo l’amore


Posted By on Dic 26, 2013

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Ognuno troverà la propria identità nella vicenda estetica della ‘comprensione’ del disegno che, non avendo un titolo quando è arrivato, io ho chiamato ‘Dopo L’Amore’. Esso non mi appartiene e non nasce da me in me. Tuttavia è un formidabile esempio di ciò che accade al pensiero di fronte alla creazione di altri. L’idea è di volere per sé il diritto ad essere l’unico interprete e destinatario di quelle creazioni. Esse sono ‘nostre’ nate da noi. Sono figli cambiati e restituiti. Come se i Giganti della Montagna fossero stati solo una volta buoni e non si fossero messi ad aggredire la bellezza e la vita di chi è capace di farla, la bellezza. Il pensiero in forma di figura torna né rimosso né dimenticato. La fantasia dice: non era mai esistito. Chi ha eseguito il disegno lo dice che non è operazione grafica, lo scrive per scusarsi: “Io non so disegnare”. Non importa, dico io. Una volta che avrò digerito l’invidia potrò anche dirti grazie. Non ancora…

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the sleeping lady


Posted By on Ott 8, 2013

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The Sleeping Lady
Provenance – Ħal Saflieni Hypogeum 
Dating – ca. 3600 – 2500 B.C.

The figurine of the Sleeping Lady is one of the major highlights that can be found at the National Museum of Archaeology. This small figurine, measuring 12cm in length and made of pottery, has been found in a pit at the Ħal Saflieni Hypogeum. It represents a corpulent woman lying on her side on top of a couch. There are various hypotheses about what this figure could be representing; ritual sleep or eternal death? Was she a priestess or an ancestor? What is certain is the fact that its workmanship is one of high standards.

Le anime sono un numero finito. Diciamo che ad un certo momento smettono di trasmigrare. In quel dato spiazzo delle loro trasmigrazioni si ha una prevalenza dell’anima sul suo naturale meccanismo di esilio e noi sentiamo d’essere di fronte a qualcuno, o noi stessi porci di fronte a lui, come una persona dotata di una non precaria interezza. L’anima -pur arrestandosi con il clamore della frenata di una carovana assai laboriosa avviatasi all’origine sua con complessa macchinosità- non ha coscienza di una decelerazione. Si assiste dall’esterno al variare dei modi della persona che da quel momento non fa che schiudersi perché si è acceso quel flusso continuo del tempo che manca a quasi tutti.

Le identità non sono tante quanti sono gli individui poiché il realizzarsi di un’anima sta in un solo punto del suo destino cioè in un solo degli individui che essa attraverserà fino alle proprie nozze cioè l’ultimo dei suoi passaggi quando si estingue nella completezza di un matrimonio fatale tra la grossolana materia dei corpi e la sottile natura fisica dell’azione mentale che -in mancanza di un termine meno ottuso- per adesso definiamo “l’io”. Le anime muoiono dunque assai liete dentro una vicenda di materialismo lirico. Muoiono di fatto come collassano funzioni d’onda all’apertura degli occhi alla morte del sonno quando le reti del tronco encefalico friggono le uova della colazione.

L’anima è visibile nelle gocce di sangue di provette di laboratorio come germe d’una malattia d’amori caotici tra fisica e storia. L’influenza pedagogica esercitata sul soggetto compie il proprio ciclo non nella perfezione di una provvidenza ma nella appassionata espressione delle virtù genomiche. Accade l’opposto di quanto notoriamente sostenuto. Solo alla morte l’anima riposa in noi e non vuole né saprebbe esalarsi. E l’eterno è la materia della polvere piuttosto che un concetto spocchioso di alterità divina.

La polvere è il pulviscolo mnemonico dei pensieri di noi negli altri. La virtù del loro sorridere al ricordo di noi trafigge il terrore. E’ parziale capolavoro di romanticismo cattolicissimo il Faust. La storia dell’anima è la poesia neuro chimica di un imprevedibile sùbito che ferma il destino. Per sempre resta il fatto che un numero computabile di anime felici mostra l’imperfezione della natura (creazione). Un numero discreto è talmente imperfetto, ha in sé una tale provvidenziale sproporzione, che i matematici nell’universo sentono più di tutti questa assenza di equilibrio e, tentata ogni formula di ricomposizione, sentono così forte la necessità di pietà dell’imperfezione da evocare l’ipotesi di divinità palliative.

Tra di noi prevale la mancanza di un’anima adatta e non vale a nulla la compagnia. Un numero limitato di anime lascia troppi privi della grazia. Caotiche ipotesi su meccanismi provvidenziali eccitano sacerdoti e proseliti. Resta il fatto che la sproporzione tra anime persone percorre la terra come un’onda sul cui crinale pochi sono risparmiati. Il ventre d’onda è notte euforica insonne dove folgoranti sono le conclusioni apparenti. Le creste sono apici e lampi e destino. La donna cannone racconta le solide unioni tra musica e testo

Sono“- essa dice – “folgori quiete che illuminano il naufragio della nave di Corto Maltese.” La scrittura dei dialoghi dentro le nuvole ha la fermezza del ‘tratto’ del disegnatore che disegna mari terre e umidità luminosa dell’aria. In funzione di questi avvenimenti di tempesta e dialogo certi non esitano. La fantasia inventiva fa parere parvenze i si dice. La struttura del racconto si libera della ragionevolezza dei supposti motivi del moto casuale, delle odiate ragioni della casualità medesima, degli ingannevoli Enti di Cattiveria e Bontà, di Bene e Male. C’è chi si spaventa della necessità di tempo. I pochi hanno la simultaneità delle menti parallele senza follia.

Stamani come ogni mattina ci siamo seduti ai bar in attesa del convoglio della nostra anima, dell’instaurarsi che esclude un destino ulteriore e esaurisce le promesse di paradiso, dell’avvento dell’anima nell’uomo che sancisce la definitiva cessazione della speranza. Si è compresa la legittimità di un estensione di tempo che possiede la densità tridimensionale dei volumi di storia e geografia, di psicologia e scultura, di arte e navigazione, e degli atlanti degli attracchi per astronavi, e delle preziose monografie sulla natura sottile dell’anima crudele delle sirene, dei loro nascondigli. Topografie della rotta delle loro migrazioni in banchi attraverso stretti, fosse, deserti, scalini.

È leggendo piano ai tavoli curvi che abbiamo scoperto la grazia delicata dell’abitare dentro la gelatina della vita. Là ho deciso di restare, quasi immobile. Ho scelto la frontiera dei pensieri definitivi altrui. Mi sono fatto cartografo più che esploratore, interessato alla linea della costa più che alla costa medesima. Ho aggiunto io il quadro artistico dei ‘mostri’ di mare e di stratosfera. Ho disegnato cose possibilmente leggere che definissero come si sta quando la costosa leggerezza impedisce la colpa e la predizione del castigo e cura l’ansia incessante di sapere e consente la magrezza per accavallare gambe sottili di anoressico.

L’anoressia potendo anche somigliare alla presunzione di avere la conoscenza. Ho ascoltato una volta ancora il famoso brano “Smoke get’s in your eyes” oggi in mp3 di povera qualità acustica ma non è questo che conta. La musica suona, si impone, fumo dolce. Le retine da far pietà per la fatica di doversi assumere ogni responsabilità sullo ‘stato’ del mondo. E gli occhi possono finalmente chiudersi nel sonno della veglia. Non è più vietato chiuderli, dopo la scoperta che l’immagine è costanza di presenza e vitalità del pensiero che origina dalla materia anche in assenza di luce.

Questo è. L’immagine è pensiero ideativo che nasce e costringe a chiedersi sempre come agisca lo stimolo del ricordo come fosse percezione di una realtà esterna. Come sia che il ricordo che conteniamo è ancora altro che non ci appartiene. Qualcosa che è realtà di un oggetto che non abbiamo mai posseduto cioè mai compreso perché, d’altra parte, una vota compreso sarebbe scomparso come non ci fosse mai stato. E invece….

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tragicità (?) del conoscere

tragicità del conoscere (?)

Perché qui il regno inizia sulla soglia e questo dimostra che la sanità deve stare nell’origine e poi svolgersi. Sull’asino senza una sella si sfiora continuamente il ridicolo. Questo grigio è l’immagine della nascita quando l’infinito è l’inesteso e l’immagine è una struggente finzione e il pensiero è la certezza di te. Per darti un’idea ho fotografato il cielo con le bandiere“.

Così scrivevo appena trascorsi certi giorni. Il regno era il cielo grigio. Aumento la lettura, perché non saprei come altro fare. La tazza di libri ricostituenti sta sul comodino e sulla scrivania. Come una volta gli sciroppi per la tosse, e le vitamine per la crescita. L’idea è sempre stata di cercare nei limiti, nelle transizioni: il grigio va bene. Come va bene il cielo, che a me pare sempre una soglia.

Potrei riprendere paragrafi e riascoltarli. Cercare tutto quello che contengono. In ogni iniziativa resta la nascita come un loop. Un tema che si ripete. Immagine, inesteso, infinito, finzione, pensiero, certezza. Perché cerco nel pensiero corrispondente a queste parole? Perché mobilitano aree cerebrali assai estese. Sono parole senza figure che ne esprimono il simbolo. Sono tenute insieme dall’interno, non hanno l’esoscheletro della figura né dell’esempio: lo scheletro è esclusivamente interno ed invisibile, è un numero pressoché infinito di reticoli sinaptici.

Così l’inesteso della parola che non può essere percorsa sulla superficie di una rappresentazione, si contrappone al numero incalcolabile (infinito) degli elementi funzionali, necessari alla creazione e al mantenimento dell’idea che alla parola corrisponde. Nella tazza balsamica di letture ne trovo una che fa al caso mio.

Paolo Zellini -“Breve Storia dell’Infinito”- Adelphi – Marzo 1996 – Capitolo VI – pagina 105 e seguenti. “Può accadere in realtà che l’insosteniblità logica di un discorso matematico, proprio perché tale, contenga il seme di una qualche verità, o addirittura che questa stessa illogicità si tramuti nella imprescindibile caratteristica dell’unico segno visibile di idee o di realtà inaccessibili. Simon Weil non andò lontano dal vero scrivendo che “l’invenzione matematica è trascendente” e che “essa procede per analogie assolutamente non rappresentabili, di cui si possono solo constatare le conseguenze” (Chaiers. II, Parigi,1972, pag. 156). Abbastanza singolare è l’accordo di questo punto di vista, certamente estraneo alle regole canoniche del moderno esercizio matematico, con la critica formulata da Brouwer all’indirizzo logicista della matematica: il primo atto dell’intuizionismo matematico rende del tutto indipendente la matematica dal linguaggio che la esprime, e ne fa un’attività autonoma della mente: “Nell’edificio del pensiero matematico…. il linguaggio non svolge altro ruolo che quello di una tecnica efficiente ma mai infallibile o esatta per memorizzare costruzioni matematiche e suggerirle ad altri” (L.E.I Breuwer, ‘La Filosofia della Matematica’, Bari, 1967, pagg. 223-231) In altre parole: in un senso che si potrebbe definire ‘assoluto’ i più riposti meccanismi dell’invenzione matematica sono linguisticamente irrappresentabili. All’esistenza di un ‘quid’ discorsivamente imprendibile si può quindi naturalmente contrapporre l’ultima risorsa di un’arte descrittiva basata sul paradosso, sull’apparente incongruenza, sell’enigma matematicamente rappresentabile da configurazioni incompatibili con qualsiasi rigore razionale: è l’arte della ‘dotta ignoranza’ di Niccolò Cusano, nonché l’ultima giustificazione della teoria dei minimi geometrici di Giordano Bruno.

Qui il regno inizia sulla soglia che diventa il “primo atto dell’intuizione“. In IDMEC il pensiero alla nascita è caratterizzato da “intuizione-certezza che esiste un seno”. La cultura umanistica -negando la scientificità del testo che si pone al cuore del problema che esso stesso pone (e al centro del nostro cuore per il coraggio che suggerisce e pretende)- deve aver voluto escludere legami di interdisciplinarità. L’interdisciplinarietà è necessaria non solo per la comprensione, ma anche per la compassione che noi dobbiamo alla nostra stessa incompetenza iniziale di fronte alle novità assolute.

Sarà via via certo che esse sono intuizioni. L’ufficialità le associa ad una specie di natura vibrante: la loro vibrante natura è posta subdolamente nella pronuncia semantica del termine intuizione, solo apparentemente generoso. In realtà si vuol togliere a quelle idee solidità e fortezza, e attribuire loro una particolare debolezza formale o una struttura di dubbia tenuta. Le intuizioni peraltro sono di fatto pensieri precisi, che vanno intesi come visioni forti, per le ragioni accennate nella citazione balsamica e ricostituente che sta sopra.

Esse hanno la natura speciale intrinseca degli atti di conoscenza e di scoperta, caratteristici della costituzione del pensiero umano. Tali atti di conoscenza sono NON ECCEZIONALI. Se io rileggo “Nell’edificio del pensiero matematico…. il linguaggio non svolge altro ruolo che quello di una tecnica efficiente ma mai infallibile o esatta per memorizzare costruzioni matematiche e suggerirle ad altri” e tolgo gli aggettivi ‘matematico’ e ‘matematiche’ posso estendere l’irrappresentabilità all’atto di intuizione in genere.

Quando fu scritto che l’io è alla nascita non fu porre addosso alla nascita un io da fuori. Fu un gesto intuitivo cioè di conoscenza di come effettivamente stanno le cose. E riscriverlo adesso, mentre sono qui a concordare con una teoria, non è rivestire di nuovo ripetendo: potrebbe essere una ulteriore intuizione. “In altre parole: in un senso che si potrebbe definire ‘assoluto’ i più riposti meccanismi dell’invenzione matematica sono linguisticamente irrappresentabili.

Il pensiero in proposito alla nascita umana, negli anni, si è compiuto meglio in questa direzione della mia convinzione: che l’io neonatale non ha la possibilità di descriversi, e mai più avrà tale possibilità di dirsi esaurientemente con le parole. L’intuizione dello scienziato Massimo Fagioli, sulla esistenza dell’io della nascita, ebbe e mantiene, a mio parere, le caratteristiche intuitive che non sono ‘a proposito‘ della certezza di tale esistenza, ma che sono le stesse dell’io la cui esistenza si afferma. Più ampiamente, e senza ancora che il discorso si sia fermato, l’io alla nascita (e la scoperta-affermazione dell’io della nascita) è un generatore di parole per ulteriori sviluppi teorici. Probabilmente non appartiene alla sfera dei fenomeni del pensiero verbale, e non sarà possibile riportarlo ad essa in modo conclusivo.

Come detto, infatti, potrebbe essere anche in questo caso che “in un senso che si potrebbe definire ‘assoluto’ i più riposti meccanismi dell’invenzione (matematica) sono linguisticamente irrappresentabili”. Allora -se questa irrappresentabilità può essere accordata alla natura di certe intuizioni (pensieri a proposito di una realtà originaria della vita mentale soggettiva dell’uomo) ritengo che tutto quanto scritto e detto da me da molto tempo in qua, almeno dagli anni 1976 e 1977, sia stato “contrapporre l’ultima risorsa di un’arte descrittiva basata sul paradosso, sull’apparente incongruenza, sell’enigma (matematicamente) rappresentabile da configurazioni incompatibili con qualsiasi rigore razionale” contrapporre tutto questo …. alla scoperta diesistenza di un ‘quid’ discorsivamente imprendibile”.

Praticare la ricerca a proposito della scoperta scientifica in questione (IDMEC), ha permesso di arrivare, per strade diverse tra loro e assai numerose, all’idea che ci sia una inafferrabilità costitutiva del pensiero e dell’iniziativa del pensiero: cioè che ci sia una inafferrabilità costitutiva del pensiero all’originaria iniziativa che il pensiero è. L’io del neonato è certezza indifendibile con attività verbali consapevoli, seppure sia certo che ci sia, nella nascita, un io come intuitività costitutiva in forma di atti mentali complessi. L’originaria complessità dell’io sta specificamente nella complicazione dovuta al fatto che esso si costituisce e si svolge non potendosi legare ad alcuna attività di coscienza come noi poi la sviluppiamo.

La funzione che fa l’io complesso della nascita, non manterrà la proprietà che non accompagnò la nascita: non avrà mai la qualità dello stato cosciente. La realtà psichica della nascita ha tuttavia radici materiali, e la sua esistenza non va annullata né alterata, se si vuole tentare una valutazione clinica e una ricerca sulla fisiologia dello sviluppo degli esseri umani a partire da una origine identitaria.

Poiché sono certo che l’Io corrisponda ad un atto psichico di certezza intuitiva di quella natura non cosciente, esso resterà indifendibile se ne affidiamo la difesa esclusivamente ad attività verbali consapevoli. Questo in qualche modo si avverte, e penso che lo sviluppo dei mezzi legislativi per garantire il diritto della persona, come ricerca centrale dell’etica giuridica, abbia a che fare proprio con la necessità essenziale di difendere i limiti di narrabilità del soggetto così intuito, seppur mai del tutto rappresentato. La legge potrebbe porsi, e forse si pone, il problema dei diritti di un io non cosciente.

Per la natura della nascita umana, il soggetto si pone come colui che non saprebbe difendersi del tutto e definitivamente con una semplice testimonianza di sè. Noi non sappiamo mai testimoniare fino in fondo a nostro favore. Abbiamo assoluta necessità degli altri e della loro onestà: una conoscenza corrispondente alla forma irrappresentabile e non simbolica del nostro esser al mondo.

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