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ri(e)voluzione


Posted By on Apr 3, 2017

Per capire devo rimanere aperto e non assumere una posizione sistematica e non voglio fermarmi troppo: non tutto il tempo che sarebbe necessario alla elaborazione di un grande schema dove collocare abbastanza cose del mondo o del pensiero. Tanto sento una identità intuitiva che raccoglie quasi tutto, tanto questa capacità resta in se stessa o appena riversata attorno. I grandi possedimenti li percorro senza appropriarmene mai. Evito gli intenti proclamati: restano dentro di me, e scorrono nel sangue, fino a quando si fanno dispacci epigenetici. La cultura, tramite una forma esatta di pensieri minimi successivi, si fa natura. L’elica ricorsiva delle azioni neuroelettriche gira in una gelatina grigio azzurra filando differenti pensieri avvolti gli uni agli altri in numerose eliche. L’io è un tratto di unicità composita. Così la relazione sensoriale col mondo che è uguale per tutti, si trasforma nella realtà mentale di tanti soggetti quanti furono gli esseri umani dalla comparsa della specie ad oggi. Per andare dalla natura esterna all’interiorità del soggetto… si attraversa la linea della figura umana. La trasformazione, poi, avviene al sicuro, entro scatole di forma uguale. La natura fisica della vita mentale non è sovrapponibile alla struttura funzionale della biologia cerebrale. Gli intrecci sinaptici sono fin troppo semplicemente evidenti tanto da poterli descrivere in uno schema. Al contrario: il filo rosso dell’io, filato dall’elica di azioni ricorsive nei parenchimi encefalici, è incapace per sempre di sciogliersi nelle proprie componenti. Irrisolvibile a se stesso, pena la propria dissoluzione, sviluppa la coscienza insieme al sogno ed evoca tutti ad un lavoro differente da ogni altro. Che si compie al telaio della ri-evoluzione. È una prassi ignota che non è più compresa nella forma del pensiero di Marx.

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Inviti a ricordare. Gli anni che non li credi tanti quanti sono diventati. Dalle camminate sul mare di allora ai voli attuali sopra l’oceano. “Sai non credevo di avere l’ansia per l’altezza” mi scrivi: e pensare che non avevi ripensamenti di sorta!

“Qui è l’estate che si presenta invadente e fa precipitare valanghe di arie marine sulle soglie”: ti rispondo. “Separati e lontani, tu lassù ed io qua, teniamo in mano differenti prospettive geografiche” dico: rivolgendomi a questo tu che ho sempre in testa per consolarci tutti e due della mancanza.

Ho inaugurata una abitudine nuova: il lavoro notturno come traversare il deserto dopo ogni tramonto per non patire la canicola. Un volo al calar del sole. Faccio il pilota di linea: vado e torno dentro il cielo buio e non ho tempo di visitare le città stellari. Più che altro è un esilio. Prerogativa di una storia d’amore che non è stata.

Sbandiero dalle finestre aeree un vessillo di camicie bianche o azzurre. Mi cambio velocemente come un trasformista poi recito. A quell’ora di notte la verità è lieve e non interessa nessuno, francamente. Si parla svagati ascoltando appena. Si impara a camminare senza pensieri.

Il cammello in testa alla fila dalla mia posizione di fondo è sbiadito come la memoria di un sogno ma porta avanti la traversata. Quella coscienza animale è una presenza distratta e rassicurante. Una groppa gobba umida d’acqua è la promessa di nubi piene di pioggia.

Per non appesantire gli animali camminiamo al loro fianco. Non un suono su tutto l’atlante. Il preverbale non è nemmeno una immagine acustica. È una traccia tattile che rivive  alle carezze delle labbra degli animali che succhiano i nostri capelli e al pediluvio di questa sabbia fina: che allagando tiepida le piante dei piedi ci invita ad avanzare.

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Il lavoro sulla macchina perfetta ha causato un lungo riposo. In una città venuta su come fosse a caso. Il disegno delle attuali strade e quartieri porta anche a stagioni insolite. Uno ziggurat si alza sui campi di frutta ma dalla parte urbana mostra che è una rete la forma del progetto. La casa nuova dei giovani sta tra il porto e la città. Il romanziere che abita di rimpetto ha parlato di giunzioni. Di connessione tra territori. Loro sono ammirati dalle terrazze che ci si può fumare e fare tardi e chiamare se ci si dimentica di dire che ti amo uscendo la mattina. Il lavoro sulla macchina perfetta ha aperto una piazza come la mano che libera una scrivania. Per fare pulito e studiare o per mandar via il passato prossimo e leggere il libro regalato. Il romanziere parla di giunzioni e connessioni, di una costruzione di frontiera piena di gente non ancora del tutto comprensibile, forse senza idee chiare sul proprio futuro: “Qua dentro – dice – abitano quelli che si caricano di responsabilità di una vita transitoria, non assicurata, che camminano giorno e sera, che gioiscono nelle piccole pause al semicerchio delle piazzette, al tavolo tondo, al vertice del bar sulla strada.” Le giunzioni sono gli incroci. Un primitivo si perderebbe e forse non tornerebbe mai più. La macchina perfetta prevede anche questa possibilità: di immaginare un braccio fluttuante dell’algoritmo, una formula che non porta a niente, uno che guarda il sole e porta la mano sugli occhi e si addormenta aspettando l’assunzione alla catena di montaggio di un lavoro improduttivo. Costruisce con cubi colorati il tempo importuno degli entusiasmi per niente: e non si lascia percorrere e deve essere attraversato. Le terrazze ne sono l’effetto progettuale. Costruite apposta per tornare sulle proprie decisioni a chiamare chi è uscito e legargli al collo il breve grido ti amo come una collanina o una sciarpa. Superfici sospese. In realtà protese come braccia che rimediando ad una distrazione, perdonano una dimenticanza. La macchina perfetta è piccola penso, ha però abbastanza braccia amorevoli non solo operose, ha una struttura essa stessa modificabile e dunque impara ma in verità crea quello che non sapeva, le vengono le cose alla mente: non prodotte dalla mente ma come se la mente fosse al servizio di quelle cose ricordate. Dice: “Il pugno di sangue infuocato è al cuore del radiatore. Le celle esagonali di carbonio vibrano e l’uomo ricorda operaie e operai nelle fabbriche sotto terra. La pressione del sangue fa sciamare nell’aria le forme leggere perfette e tutte differenti delle figure umane. Stamattina dalla città verso il porto. Dalla città alle piazze di partenza dei pullman. La folla si dirada fino al numero uno dei singoli. Il calore viene portato con l’ossigeno a contatto con il cielo. Il lavoro sono ore silenziose invisibili. Quasi non conta perché non racconta che se stesso. Sono ore di attesa. Senza tempo. Poi il cuore della macchina si dilata e aspira. È l’improvviso ricordo dei giochi infantili. Dei cubi di tempo colorati. Un richiamo inverso che attrae. La solitudine si interrompe. Le persone si affiancano e tornano ricche e affaticate. Le terrazze che erano restate abbandonate chiamano, respirano a loro volta. Le lucertole uniche abitanti sui muri tiepidi delle case vuote si muovono appena strusciando col ventre bianco l’intonaco mentre nel pensiero la forza del lavoro perde attrattiva. La macchina perfetta genera, in occasione della perdita, la festa. Non nasce come vacanza e vuoto quello che c’è di nuovo.”

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ultimo l’amore


Posted By on Dic 3, 2014

IL SEME, IL LAVORO, LA PRESENZA. ULTIMO L'AMORE"

“IL SEME, IL LAVORO, LA PRESENZA. ULTIMO L’AMORE”

Spaventapasseri vestiti di rosso. Le frecce d’oro. Ho sufficienti ricordi per figurarmi un futuro. Non solo “seme braccia e presenza”(*). Anche l’amore, per ultimo. L’amore ultimo come il corvo che volteggia a distrarre il soldato e allora… ” …pam !!! ” un solo colpo. Un colpo impeccabile . Questo è stato. Poi a battaglia finita i moschetti diventano attaccapanni. Così costruii l’intelaiatura per stendere il colore al sole. Le frecce d’oro hanno colpito. Il rosso si è lasciato trapassare. L’ombra era già al suolo ed è restata immobile. “Cecità d’ombra non possiamo patirne”(**). Ora cogliamo le spighe da terra. Mietitura. Il grano è cresciuto dal cielo secondo la rivelazione della profezia. “Basta che una cosa sia in noi in noi ben viva ed essa si rappresenta da sé per virtù spontanea della sua stessa vita….”(**)

note: (*) in “L’uomo seme” – Violette Ailhaud – edizioni Playground.
(**) in “I giganti della montagna” – Luigi Pirandello.

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“DIALOGHI”
copyright: claudiobadii

Figli miei. Lontano da una speranza di cristianità porta la ricerca. Non ha troppe consolazioni. Certezza di comprensione ‘umana’ come si diceva, ricordate…. sperando di trovargli una sistemazione a questo termine qualificativo e terribilmente scontato nel linguaggio quotidiano. Ma niente. Ho abbandonato la speranza della facilità. E anche la poesia. Non poesia l’elemosina delle noci. Linguaggio non è detto che debba voler significare un oggetto. Poesia non è un viandante commovente. È un disperso. Il linguaggio al contrario non ha alcuna tendenza. E dunque voi non fatevi cogliere ad indicare alcunché. Non indicate, semplicemente. Il respiro comanda, dico io. La mano sul torace è imperativa. Ricordate sempre i vostri amanti. La ricerca in questa prassi medica scopre come fare certe pause. Se il discorso è troppo serrato -quando tra voi cambia qualcosa- è allora che la frequenza cardiaca misurata alla base del collo si trasforma in una modesta fame. Ecco, durante il lavoro, per farvi capire, nei contrattempi di quel tipo scatta la mia involontaria riflessione su di me. Si interrompono attenzione e successione. È quello che io definisco diagnosi tramite il contro transfert ed è quello che mi aiuta a orientare un certo sospetto diagnostico o uno diverso o un altro ancora. Non serve averne a disposizione troppi. Tengo le mani sul mio petto. Sono solo. Lavoro solo. Nella mente la traccia di tanti anni fa. Essa unisce primo e ventiseiesimo anno. E quelli al sessantacinquesimo. Sono archi. Costole di storia che tengo e cullo con la pressione invisibile dell’interno delle braccia. Come ieri ‘lei’. Uso spesso l’idea di un amore addosso. Uso avverbi di tempo differenti per disseminare la stanza con zolle d’erba e altre coltivazioni. ‘Ieri’. Oppure ‘subito’.

Davvero non è il pianto dopo il parto a originare la vita del pensiero. Quando esplode il grido la mente è già nata. Respirare ha il soggetto e dopo il taglio chirurgico di disgiunzione dalla donna ognuno dei due, lei e il neonato, ci si tiene il proprio sangue per sè. Anche se la vita dell’una si allaccia al filo della vita dell’altro perché nessuno più dei due potrà essere libero per molto tempo. Ma, che importa! Deve compiersi la gravidanza dopo il parto. Noi si viene al mondo a completare uno sviluppo intra uterino che nella nostra specie è interrotto dal parto a causa di un ingombro eccessivo di spazio nel ventre. Così, per un anno almeno, unici nell’universo, gli esseri umani vivono in dipendenza assoluta da tutti. Unici, d’altro canto, hanno una assoluta responsabilità di un altro e della sua fisica inettitudine. La condizione neonatale non ha la coscienza, e si capisce, non gli serve. La coscienza non darebbe la conoscenza della relazione che si sviluppa nel ‘ventre’ nuovo di braccia ed aria che ci accoglie fuori dall’utero. L’uscita trova la luce ad accogliere e dare la nascita del pensiero. Nella modalità della biologia il primo anno si svolge allentando l’abbraccio serrato della gravidanza, senza sciogliere il legame nell’abbandono all’aria e alla luce che risulterebbe mortale sia per il corpo che per l’io neonatale. Accosto e discosto il mondo compone ombre, respiri, cavità, prominenze, vibrazioni. Le aree e i volumi sono percepite in unità di distanze che sono frazioni di un passo. In quello spazio così tracciato si completa la maturazione delle funzioni delle autonomie comportamentali. Mentre, paradossalmente, il pensiero cresce di più e -invisibile- diventa quasi geniale. Come se, quei fili intrecciati di due vite non più libere per tempi lunghissimi, sviluppassero, in tale condizione estrema, competenze di un legame sconosciuto nel regno animale. L’in-potenza che trova la pazienza è l’acqua e la farina. Il tempo del fuoco il primo anno del regno che costruisce un pane ovale irregolare. Panificazione dunque, non poesia. Panificazione e vinificazione. Macinazione e rotolamento. Cottura e riscaldamento. Combustione fiamme e voli su per l’aspirazione dei camini. Sospensione. Trasvolate di fiammelle in totale sicurezza. Afferramento. Tenuta. Conferma. Interruzioni dolorose come un singhiozzo. E ritorni uguali ad una terapia. Soluzioni. Uomini rossi e uomini neri. Figure della mente senza ancora un linguaggio verbale. Il non interpretabile mondo di dentro vive per anni in assenza di pratiche corrispondenti. E così, grazie alla costrizione a capire meglio cosa sia il pensiero per tentare di interpretare i sogni posso concludere, provvisoriamente, che gli altoparlanti sulla folla sono i tuoi occhi figlio mio irresistibile e mia docile figlia. Ed io sono il cantante ammutolito. Ascolto. Così voglio spiegarvi le parole che studiavo e mi indicavano che avrei dovuto restare, per anni, ma voleva dire per sempre, in un atteggiamento aspettante e silenzioso di contro transfert. Ma mi sono liberato quel tanto che mi consente di scrivere. Dedicarvi un pomeriggio per dire che ascoltando capisco della vita mentale un sacco di cose indicibili per la loro delicatezza, più che per il loro orrore, come avevano minacciato i teoretici. Quello che mi appare mi lascia senza parole. E anche voi comparite e viene da dire che le storie non sono mai tutte uguali. E certe sono più belle e altre più brutte secondo l’applicazione e le distrazioni. Questa di certo poteva essere una storia peggiore. Il contro transfert si basa sempre sulla capacità di tacere per riconoscenza di quanto non si sia fallito. Si ferma su quel limite. Che è il confine dell’area della competenza di un medico. Che non è infinita. Non c’è l’infinito nell’uomo anche se c’è l’incessante. Ho l’allegria di un pomeriggio. Ho la scaramanzia dello studio che deve proteggermi dall’invidia dei mostri. E cito un erudito che racconta la caratteristica del pensiero di Giordano Bruno. La sua idea di introdurre nella riflessione filosofica cinquecentesca l’infinito dell’universo, e l’infinità dei mondi. Dunque la denuncia della menzogna filosofica nell’invenzione di un dio che si fa uomo che facendo quell’uomo di quella strana duplice sostanza fa la natura di un mostro. Solo ieri mi pareva fosse sufficiente, per restare aderente ad un dignitoso riflettere, dire di un ragazzino zoppo (…dicendo così qualcosa del senso etimologico del mio stesso nome). E oggi, invece, guardate voi!

“Il mostro. Il Centauro. Così impossibile è la loro natura fantastica. Così nello stesso modo fantasticata e impossibile e non esistente (cioè filosoficamente non plausibile) è la natura di Cristo. Dunque, a causa della certezza della natura fisica infinita dell’universo il figlio stesso di dio voluto così dal padre è impossibile mostro né ben fatto nella creazione, tanto meno creatore di sé. Impossibile la consistenza dell’Infinito nel finito, di dio in quel figlio. Così Giordano Bruno è il più anti-cristiano dei pensatori rinascimentali. Mentre Erasmo dice che le origini della fede cristiana erano buone, Giordano Bruno dice che il cristianesimo è corrotto alle radici. È, Cristo, cattivo mago e sacerdote.” (“Giordano Bruno e la Filosofia del Rinascimento” – Conferenza di Michele Ciliberto. Fondazione Collegio San Carlo)

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