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il raggio nuovo


Posted By on Gen 22, 2017

C’è un telo chiaro opaco su ogni (presumibile) figura. Così sullo schermo oggi che i flussi della connessione sono tardivi non si ricompongono i dati per la trasmissione di cose virtuali. Così dico che non vedo niente ma è solo che quel che vedo, icona traslucida omogenea, non è ciò che aspettavo.

Ma anche il chiaro sfondo è figura. Ci si aspetterebbero segni diseguali, questo è. È questa la piega che hanno preso le aspettative. I nostri pensieri in fuga si aspetterebbero terre coltivate e città. Siamo figli dei racconti del passato. Fili di favole tessono il tappeto della nostra vita psicologica. Che è oramai una premessa dell’esistente. Una clausola escludente.

Così non possiamo sapere, da una riflessione ragionevole basata esclusivamente su erudizione, come si mossero gli sciami preistorici. Se ci furono una figura chiara, un opale rettangolare, o uno schermo di pura attesa a sospingerli in fuori.

Quel che si legge nei musei delle grotte è già tardi. Nelle stazioni di posta della corsa evolutiva i predecessori erano già lungo le vie delle transumanze predatorie ed avevano in mente, quanto meno, bisonti verso i quali scoccavano frecce lungo parabole misurate perché sapevano di già le leggi fisiche del moto flesso dalla gravitazione.

E prima? Prima mi appare chiaro nel chiaro del rettangolo radiante dello schermo. Prima è nelle icone deserte, nella galleria disertata da qualsiasi figura, nelle tele di madreperla su cui si è dipinta una serie di sfumate tele di madreperla differenti tra loro e opposte al manierismo del nulla.

Prima le cose non derivarono da una sottrazione di flussi. Prima è l’espressione energetica della vita fisica dei substrati. Superficie vivente di un epitelio trasduttore. Prima è noi quando capita che siamo vigili diurni incoscienti.

Prima ci spinge in fuori più che semplicemente in avanti: a non lasciare intentato il risveglio. Frazione di infinito, prima è ogni volta lo shock estetico alla fine del sonno quando noi risorge dal buio della biologia indifferente portando alla luce la notte nel racconto di un sogno.

La vitalità di un epitelio è il confine traversato che esclude, oltre sé, ogni presunta figura che dunque non si forma sul monitor e mostra lo schermo muto e brillante e delude l’aspettativa di un a/priori. Lo schermo va a stimolare una nostra insofferenza, un nostro fastidio, una nostra irritazione che insieme ci impediscono di risiedere e ci costringono a progredire.

Uscirò stanotte a tentare ancora un percorso senza direzione. A bruciare, nello sforzo muscolare dei passi, il passato. Verso una con il volto buio e la risata rossa che guida su di se il nuovo raggio.

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Inviti a ricordare. Gli anni che non li credi tanti quanti sono diventati. Dalle camminate sul mare di allora ai voli attuali sopra l’oceano. “Sai non credevo di avere l’ansia per l’altezza” mi scrivi: e pensare che non avevi ripensamenti di sorta!

“Qui è l’estate che si presenta invadente e fa precipitare valanghe di arie marine sulle soglie”: ti rispondo. “Separati e lontani, tu lassù ed io qua, teniamo in mano differenti prospettive geografiche” dico: rivolgendomi a questo tu che ho sempre in testa per consolarci tutti e due della mancanza.

Ho inaugurata una abitudine nuova: il lavoro notturno come traversare il deserto dopo ogni tramonto per non patire la canicola. Un volo al calar del sole. Faccio il pilota di linea: vado e torno dentro il cielo buio e non ho tempo di visitare le città stellari. Più che altro è un esilio. Prerogativa di una storia d’amore che non è stata.

Sbandiero dalle finestre aeree un vessillo di camicie bianche o azzurre. Mi cambio velocemente come un trasformista poi recito. A quell’ora di notte la verità è lieve e non interessa nessuno, francamente. Si parla svagati ascoltando appena. Si impara a camminare senza pensieri.

Il cammello in testa alla fila dalla mia posizione di fondo è sbiadito come la memoria di un sogno ma porta avanti la traversata. Quella coscienza animale è una presenza distratta e rassicurante. Una groppa gobba umida d’acqua è la promessa di nubi piene di pioggia.

Per non appesantire gli animali camminiamo al loro fianco. Non un suono su tutto l’atlante. Il preverbale non è nemmeno una immagine acustica. È una traccia tattile che rivive  alle carezze delle labbra degli animali che succhiano i nostri capelli e al pediluvio di questa sabbia fina: che allagando tiepida le piante dei piedi ci invita ad avanzare.

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Mi chiedo se sia possibile formulare una ipotesi e poi riposare.

Riposare fidando in una auto/medicazione.

Durante il riposo.

Le qualità nutrienti del pensiero che aveva formulato l’ipotesi si diffondono su noi.

Premiano il lavoro della fantasia.

Il sonno felice.

Ingenua (incosciente) riflessione su un giorno superfluo.

Gli studi di neuro/fisio/psicologia confermano.

Il sonno dei giusti è il solo efficace.

Neanche fossero la Bibbia: il tipo peggiore di sonno è quello dei disonesti.

(Anche, purtroppo, degli afflitti da sensi di colpa immotivati).

Leggo che secondo Lessing ‘..la ricerca della verità è più preziosa del suo possesso’.

Una frase inutile.

Un invito onesto alla rinuncia del possesso definitivo.

Il buon riposo.

L’onestà è intelligenza.

Confida nelle conseguenze di azioni che non portano nulla.

Solo -eventualmente- convergenti su mete condivise con amori sconosciuti.

Che ci navigano lontani.

Amori di cui possiamo rifocillarci.

Alla lunga.

Alla distanza.

Misteriosamente.

Ci assecondano e ci legittimano.

Esistono tangenti di quiete alle curve di deriva dei viaggi lunghi.

Sogni insoliti durante le traversate.

Il corpo in equilibrio su un filo.

Un capo legato oltremare.

Il pensiero del domani è vago.

Le onde non mostrano la mappa delle terre emerse.

Il giorno di un viaggio non ha alcun margine.

Aspetta.

Tenuto dal sonno da cui la coscienza si alza la mattina.

La vita vigile ha memoria del riposo.

Protegge la vitalità.

La perdita della vitalità è fatale.

Si muore a causa del disordine della termoregolazione.

La vitalità ci porta nel buio.

Ci fa chiudere gli occhi per dormire.

Senza la vitalità il buio è una cosa che arriva.

Impossibile a credere.

Allora, non si sa come, la vitalità ci fa chiudere gli occhi.

Fa sparire la coscienza.

Un tuffo ci evita di morire di terrore.

È così da sempre.

Da che abbiamo memoria di noi.

Il sonno è coraggio che ci nasconde le cose.

Il risveglio è meno vitale.

Porta il movimento.

Per periodi brevi.

Segmenti spezzati di veglia.

La coscienza vigile debole com’è deve sempre riposare.

Il sonno aspetta sempre.

Potente.

Sicuro.

E noi torniamo sempre.

Pensiero e raggiungimento sono sulla strada.

La strada è chiara.

Consapevolezza.

Coscienza.

La strada è un segmento spezzato.

Una scrittura di chiaro e scuro.

Ombre e luci sotto la dittatura del sole.

Il corpo ha la vitalità per non cedere alla ripetizione della natura.

Si addormenta e sarebbe meglio che non lo facesse.

Si sveglia e potrebbe continuare a disconoscere la freddezza del mondo.

Dicono: la fame.

Ma l’urgenza deve essere un’altra.

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Le cose che contano non stanno dove me le aspetto. Intanto è pieno di cose che mancano che dovrebbero esserci e cerco. Poi non so mai dove andare a cercare. Comunque ormai ho imparato che sono sempre ‘da un’altra parte’. Evito i luoghi preposti ché là non si trovano. Bisogna essere curiosi di sapere tutto per vivere bene e comunque non annoiarsi mai. Secondo me contrario di tutto non è nulla: che sarebbe un assoluto e dunque grandioso seppure in senso sciagurato e negativo. Il contrario di tutto, nella vita non filosofica cioè nella giornata non metafisica, è troppo poco. E aver quel poco in mente è un ridere tremulo e freddo da cui si leva e spira il fiato di un malumore. Lo scontento. Perché aver così poco in mente lascia con ancor meno in cuore.

Siccome sono ignorante del tutto che vo cercando mi entusiasmano molte notizie ovvie per i sapienti: e li guardo scuotersi per il ridicolo della mia ingenuità, che piano piano devo levarmi…. ma l’entusiasmo rende il cercare pieno di meraviglia.

In città di grazia e potenza popolate di illusionistiche presenze vivo aurore e tramonti nuovi come il figlio di una civiltà di coloni fondatori. L’ignoranza mi tiene disponibile e quanto senza posa mi manca sempre mi sveglia: e non dormendo mai da sempre il necessario, febbrile traverso i campi intorno a accademie e licei.

In libertà distratta uso parole grosse per uccidere parole morte. La parola fine scova e caccia via gli spiriti velenosi delle frasi malate. I bisturi sono neri come la notte più nera. La morte, che amplifica i poteri, si scaglia contro certe parole deboli e tisiche. Come una grande febbre uccide l’ombra di palazzi abbandonati, il nulla affilato dei fulmini non uccide ma risveglia il cuore che si era fermato. Le maledizioni delle vittime ribelli taglia le corde che li legavano che diventano autostrade nel cielo. La prigionia studia. Il malato apprende. Il prigioniero – malato legato e annullato – scrive. La notte buia canta. Le veglie della febbre sono coperte dalla prima luce. I brividi della malaria remittente sono sedie e lanterne. Gli amori durante l’apprendimento sono ciechi che leggono sotto i polpastrelli la verità. Gli abbracci dei cenciosi sono passioni di confine. A volte mi pare che una cosa, finalmente compresa, sia l’amore sotto zero delle donne nude negli igloo.

In questo freddo pulito stamani che piove piangendo un sabato abbastanza libero ti dedico uno straccio di inquieta presenza per coprire la vergogna di un momento insensato di felicità.

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Dunque eccoci a cena per scegliere quanto escludere. Cosa non ordinare. Per osservare quietamente il mondo della cucina da sale apparecchiate. Dove sediamo insieme e me che ti osservo respirare su giù su giù. Me che ti leggo le pietanze che non ascolto le mie parole. Sei testimone che è questa la verità della cena. Il mondo condiviso delle intese invidiate. Ci sarebbe assai da rivelare ma, no, è infatti in evidenza, e che vuoi rivelare. Sono decenni poco raccontati. Personali. Ininfluenti. Nessuno conta più così tanto. Anche se poi si sceglie di mettere in evidenza…. però mai la diffusa qualità. Semmai il genio. Non il cobalto né il mare né il cielo verdazzurro di Brasilia: si mettono al sole dell’osservazione le isole, i fenicotteri, il primo piano e, in poche parole, le rarità. Io, superbamente, alle cene, come un vescovo osservo altezzoso dall’impietosa mia altezza, seduto sulla pietanza al timo. Spargo i miei occhi stralunati dalle ciminiere dei vasetti delle marmellate di pere fichi pesche mele cotogne. Mentre scegliete scegliete mangiando già con gli occhi e consumando il dopo cena che invece dovrebbe essere, della cena, il piatto forte (salvaguardato sappiamo tutti perché…) sfamo gli affanni con la fantasia pseudo-aristocratica in realtà snob, solamente e miseramente snob (se sai l’etimologia): fantasia che lotta contro i morsi della fame. E con te accanto e gli altri sorridenti sopra i piatti bianchi e tiepidi si ergono sull’agora delle palme di tutte quelle belle mani ben lavate e profumate eroi-guerrieri stravolti dagli orgasmi con le ‘madri’. Fantasia sovversiva di incesti inevitabili per la penuria di vettovaglie nell’assedio, per la carenza di alimenti cui mi consegno anche oggi circondato dalle linee asciutte che voglio per me. Stecchi di gambe magre così che palustre è l’aggettivo che meglio si adatta alla mia cena. Palustre acqua smeraldina lascerei sgorgare con ruscelli di parole nel verde di erbette e ramoscelli. Poche parole, strette come mani impaurite. Così strette da far salire nella mente qualcosa che frigge il disegno di un fulmine di fortunale e mette insieme energia e tempo: direi…. “ostinazione”! La ricerca ostinata. Composizioni di persone su divani e seggiole antiche e cuscini in terra. Giovedì composero una scala di clavicembalo ben temperato. Do, do diesis, re, re diesis, mi, fa, fa diesis, sol, sol diesis: se vedi è nella grafica del disegno illustrativo precedente ad oggi. Vuol dire: una ragazza, un ragazzo, una ragazza, un ragazzo, poi accanto due ragazze ancora che si succedevano (mi e fa) secondo l’intervallo di un semitono e poi avanti fino al sol diesis. Legami di sangue. Intrecci di pensieri intravisti oltre il fumo profumato che sale dalla matassa succulenta dei tagliolini. Anche il pranzo della festa nel brusio e nel vapore richiama i fasti del laboratorio di chimica e elettrofisiologia e le cucine, si può anche aggiungere, come io credo sia il pensiero dei fisici contemporanei. Istrici e volpi ribelli della scienza. Penso, mentre ceniamo, alle cose meravigliose che mi mancano ancora da conoscere. Perdo appetito e mi viene l’orgogliosa umiltà che è il tempo che mi mangerei. In fondo, da ora in avanti, il poco di comprensione, quel tanto in più di quanto sarebbe stato normale aspettarmi, non sarà che provocazione anoressica. Offesa di  bicipiti deboli, e quadricipiti esili: sottili segmenti acuti attaccati saldi alle ossa in risalto, come le cavallette appese alle canne sulla curva per il mare, l’ultima prima della duna che va perennemente a fuoco ogni agosto e cuoce i piedi e la fronte.

Signora contessa…. vieni alla ricerca, stacca il biglietto con un morso uguale pieno di saliva di piacere quando affondi la vita delle tue labbra rosse attorno ai fianchi di quei fichi secchi che pochi rarissimi chef offrono, su tovagliette di lino, uno per ciascuno dei commensali arrivati fino alla fine: oltre il fiume dei caffè, solo per chi non teme l’insonnia.

È adesso l’ora buona di smettere di piangere per la ricchezza delle cose mai staccate via per sempre. Nella ricerca trascorsa fu sempre il futuro prima di tutto.

Mi sono regalato, in cambio di una serie di difficoltà e rifiuti, tutto quello che a tutti, quasi tutti, manca ad esser ‘pronti’ per la notte.

 

 

 

 

 

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