Posts Tagged "resistenza"


La resistenza è dolore: perché il ‘vivere nonostante‘ costa molto. Prima o poi dunque, ma sempre, si vuole la liberazione dal dolore corrispondente a quell’opporsi soffocante. Quando il lavoro della resistenza non è più necessario si sente la cessazione del dolore: un benessere che non deriva da azioni positive che abbiamo effettuato ma da riduzione e sottrazione. Non si è ‘più leggeri’ ma semplicemente abbiamo deposti dei pesi che non avevano mai fatto parte della nostra costituzione anatomica. Siamo quello che siamo: non un grammo di più. Forse quello cha avremmo potuto sapere di essere in essenza, che il lavoro di resistere per essere nonostante ci aceva tenuto nascosto. La cessazione avviene per cambiamenti interiori: quando l’esterno è allucinatoriamente percepito ostile e poi viene riconosciuto praticabile. Ma a volte è grazie al venir meno di situazioni oggettive di odio e di cecità con cui avevamo a che fare. È complicato rendersi conto che il ‘nonostante‘ sia lo stesso nei due casi per cui ci si difende dai fantasmi che noi stessi abbiamo inventato con la stessa determinazione con la quale ci opponiamo alla distruzione che viene da una realtà esterna. Dunque la resistenza da sola, perdurante questa genericità non può essere, o non dovremmo contentarci che sia, l’unica nostra risorsa. Neanche la vitalità che la sostiene, pensata come fatto legato ad incrementi energetici di azioni muscolari, è dirimente. Il concetto di conoscenza non riguarda infatti solamente la quantità delle nostre acquisizioni ma la modalità con la quale esse vengono assunte. Si può ipotizzare dunque che la vitalità -che è funzione di limite fisico e psichico insieme-si estenda fino alle ‘fibre’ dei singoli atti percettivi separando, via via che essi si attuano, la realtà dalla fantasticheria. Si può tentare di sviluppare una idea meno muscolare della vitalità. Che diventerebbe un fenomeno di barriera intelligente, una azione di epitelio negli scambi di contatto tra noi e il mondo esterno. La massima precisione di intuizione sulla frontiera fa una nuova presa d’atto del mondo e riduce gli sforzi per sostenere la lotta fisica con mostri che la distorsione illusionistica della natura delle cose e dell’interiorità delle persone portava come conseguenza inevitabile. Come sia possibile eventualmente verificare una tale ipotesi non so dirlo. Forse intanto imparare a esprimere con parole sempre più adatte e costruzioni grammaticali sempre meglio costituite una asepsi chirurgicamente efficace sulle piaghe di una cronica confusine che dovremo operare.

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incertezza per resistenza


Posted By on Ago 27, 2015

"uncertain"

“uncertain”

In attesa di cominciare l’attesa è diventata crisi che ha fatto scomparire ogni traccia degli ultimi avvenimenti. Ultimi avvenimenti intendo un mese fa: quanto avveniva alla fine di luglio. La crisi è tempo di agosto. La parola crisi -cioè frattura- mi appare, in questo caso, più che altro un processo di trasformazione dolorosa. Un dolore costante di trenta giorni invivibili vissuti. Poi, lentamente, non separato dalla sofferenza, l’affermarsi dello stabilimento di nuove convinzioni. O, meglio: precisazione con scalpelli e strumenti incisori e chirurgici dell’operazione psicologica. Metto insieme due tra tante cose che fondano la banchina strabiliante del nuovo scalo quaggiù nell’area portuale.

Una frase di Hanna Harendt in proposito a quanto accade alla vita mentale umana di fronte all’impossibile sia da perdonare sia da dimenticare insomma di fronte al non emendabile più. La frase ha tuttavia esigenza di sperare e di riparare tutto quello che, e fino a dove, si possa. E si deve potere e si potrà portare a termine il processo di intenzione di terapia della grave ferita, solo se ci si accorderà tutti sul fatto che:

La realtà non è tenace, ha bisogno della nostra protezione.”

L’altra cosa è la foto del manoscritto dell’Infinito di Leopardi. La grafia del sentimento imprecisato e incerto suscitato da una cesura dello sguardo. Per metafora, la aggiungo: ché la frase è ‘siepe’ e crisi. Questa stupefacente frase della Harendt è per me la grande siepe al di qua della quale tutti ci troviamo. È la frase che dovevo trovare per fermare il dolore dei trenta giorni di vano nomadismo sotto un sole altrui. Allora va bene anche agosto così come mi è apparso ogni istante. È stato, sarà stato… ciò che, avendomi celato ogni buon oggetto nel suo doloroso svolgermisi addosso tuttavia ha in sé che uno possa ‘fingersi’ nel pensiero ben altro. Un altro ‘bene’. Fingersi che vuol dire ‘immaginare’ ma non necessariamente esser cosciente di sapere. È una conoscenza irrazionale. Una resistenza.

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“GRAFFITO”
©claudiobadii

Mi prenderò la libertà di confidare in noi. Tu ci hai descritti. Definiti. Io, senza neanche una parola di avvertimento disporrò di te. Tu sei la presenza intellegibile. L’amore, voglio dire, è quel tipo di capacità che si può avere di porsi di fronte all’altro che, improvvisamente, si sente capito, di non dover spiegare nulla. Si può non averla questa capacità di alleviare, intanto, tanto di quanto prima pesava agli amici ai commensali agli ‘altri’. Gli altri, alle persone dotate di una certa capacità appaiono comprensibili sempre. Questi che hanno la capacità hanno uno spazio intimo nel quale i cosiddetti ‘altri’ possono riposare le loro ossa rotte. Quando siamo profughi dagli scontri di piazza contro la polizia del dittatore e quando siamo profughi dalle torture della polizia segreta dei rapporti privati. La polizia segreta dei nuovi strumenti di controllo poliziesco, i Facebook, i WhatsApp, i socialnetwork, come si chiamano i moderni luoghi del narcisismo collettivo.

Serve una qualità di grandiosa modestia. Far sentire gli altri legittimi. Il grande male, la tragedia diffusa, la polvere di gesso che copre tutti… è la ‘certezza’ della propria illegittimità, il senso di precarietà, i numerosi sospetti a proposito di sé nel momento che si comincia a riflettere su noi stessi.

E’ stato necessario studiare, prepararsi, essere previdenti faticando quando erano grandi le forze. Abbiamo studiato lungamente. Abbiamo scovato, traversando dalla teoria psicoanalitica freudiana disperata e parziale alla nuova scoperta della nascita, poi guadammo la prassi terapeutica il fiume dello Stige, l’interpretazione della realtà psichica, l’annullamento della realtà materiale, il rifiuto delle scuse coscienti per il sapere dell’inconscio che, però, faceva dimenticare tutto. Dunque troppo. Gli analizzandi mangiavano le focacce di pane dolce per dormire e non uccidere più. Ma non era ancora il tempo della loro vita, perché il transfert era idealizzazione e loro -nel sentirsi ‘bene’- invece erano ancora fragili, ipersensibili, irritabili, neuroastenici, deboli, impauriti, isterici. E non essendo ancora il loro tempo di vivere restavo fermo anche io nella relazione di scambio, senza nessun margine di ‘resto’, senza nessuna altra possibilità. Non era, voglio dire, nemmeno il tempo della mia vita. Il contro transfert risentiva dell’obbligo di accordarsi sapientemente al transfert. Era impossibile, di fronte alle loro evidenti difficoltà (a capire a vivere a trovare la forza a superare l’isteria a superare la fragilità a superare il loro odio verso di me che li rendeva nevrastenici) che io potessi avere la calma per vivere ‘normalmente’ … ed il contro transfert era solo disciplina di lavoro, difficoltà, inquietudine, paranoia… “Poi ce la fanno a farmi fuori…”

Decenni di parole e di pause, ogni volta sette giorni. Avevamo fatto tanto per dividere il tempo in frazioni non decimali per accordare il ritmo delle pause e degli incontri alla luna alle mestruazioni alle fasi calanti e crescenti. Al sangue. Trovavamo con le mani cieche quel sangue secondo un sapere che veniva dal nomadismo delle dita sul seno materno profumato dei primi momenti. Fasi crescenti e calanti. Le imposte aperte e poi accostate per fare giorno e sera secondo il sonno reciproco del neonato e della donna. Lontano dal mondo della produzione del padre. Abbiamo studiato per trenta anni. Aprire il libro. Chiudere il libro. Fase crescente, gli occhi sono saracinesche, persiane, che calano si serrano fanno il buio artificiale per sognare una comprensione, per chiudere le braccia attorno a te e fare l’amore. Per chiudersi a te e lasciarsi succhiare il latte come non ci fosse altro.

Lo studio dei libri, delle teorie, della scienza fisica, della scienza letteraria, della critica sociale, della politica, erano il setting: la sistemazione delle cose nell’universo esistente. Non ho ricordi differenti da quel procedere, ogni giorno, avendo intuito contro/intuitivamente ‘qualcosa’. Non ricordo niente altro. Come un amore di passione che non ragiona anche se non diventa bramosia e, pur volendo la carne e la saliva, tiene la distanza e l’idea di desiderio come certezze inestinguibili.

Studiare i contenuti. Poi si arriva alla linguistica, alla neurofisiologia, alla neurobiologia, alla certezza della origine materiale della vita mentale. Le dita sulle pagine fanno sempre il nomadismo come si era cercato. Le dita tracciano, muovendosi sulle pagine, il disegno del reticolo epidermico della cute sulla ghiandola mammaria che è irrorata dal calore. Lo studio ha questa sua legittimazione di desiderio, ma non c’era più, in quel tempo, la madre vista stando in piedi di fronte a lei. Nella regressione che doveva togliere l’isteria che è irrealtà, si perse la visione della madre intera. Si andava ai milioni di anni. Alla paleoantropologia. Se non avessi studiato anche quella branca della scienza dell’uomo avrei temuto che fosse una regressione pericolosa. Le parole che nominano le aree pulite del sapere mi rassicuravano che era possibile.

Dalle teorie mi sciolsi per arrivare all’impotenza assoluta del pensiero non razionale. Persa la visione della madre intera tornato ai milioni di anni dicevo parole senza senso. “Veglia senza coscienza”. (Dove altri dicevano immagine inconscia non onirica, che forse intendevano tutt’altro da quello che io credevo volessero esprimere..). Ma io non volli scomodare più la seta usurata dei discorsi altrui. Mi facevo le ossa con le carezze alla voce delle donne sconosciute. Fisica, scienza sociale, paleoantropologia, linguistica…. Per la pazienza di altre donne. Che concedevano le infrazioni e non si fecero mai ‘legge’.

Grazie a molto di questo che è solo sabato pomeriggio torno fino all’antropologia ultima, quella dell’evoluzionismo attuale. Ecco la mela rossa che, vada come vada, lascia affondare i nostri denti bianchi. L’evoluzione non ha un andamento lineare. Le mutazioni vantaggiose crollano. Mutazioni controproducenti emergono e progrediscono. Gli ominidi, lenti nella savana e appena sufficienti sui rami, sono riusciti. Saranno due milioni di anni fa. Imprevedibile. Non ci si sarebbe scommesso. La legittimità figlia della improvvidenza. Il successo di non essere annullati e spazzati era steso ad asciugare sulla via della resistenza (c’è un articolo e un disegno in proposito nel blog..). In equilibrio precario lungo la linea confinaria. In equilibrio precario di un sabato pomeriggio di due anni fa. Per un sorriso.

Il controtransfert adesso è una scelta di marginalità a presidiare i confini solamente, a controllare nulla. A guardarti telefonare certamente ai tuoi amori senza voler sapere. Tanto lo so. L’ho sempre saputo e ti ho amato comunque. Diversamente, senza quella bellezza che ti rendeva orgogliosa, silenziosa, misteriosa, traditrice, non avresti avuto nessun fascino. Io lo so che voi donne considerate amore solo questo coraggio che si deve sapere, e saper immediatamente dimenticare, la vostra bellezza. Di saperla solo quando ci offrite di succhiare il seno in silenzio. Poi dobbiamo essere stupidi e lasciarvi. Io ero fatto per questo. Perché avevo sempre tenuto in segreto la necessità di pensarti dentro il miele dell’universo appartenente al buio dei tuoi segreti luminosi. Così ti ammantavo. Così ma in modo che tu non vedessi. C’era una probabilità minima di riuscire. Una ‘vita migliore’ è un’ipotesi contro intuitiva nel migliore dei mondi possibili che l’amore pretendeva di esaudire. Resto come ero, abbastanza povero, con te sulle dita. Ti lascio scivolare sulle falangi. Sei un’Araba Fenice che scompare nelle aree cieche degli spazi nascosti e ricompare sull’orizzonte dei polpastrelli. Io sono una specie di prestigiatore. In verità mi muovo lentamente attorno ad un atomo d’elio fissato al centro della visione per non lasciar cadere fuori del campo del mio interesse neanche una delle scintille che spruzzi. Mi avvito sul perno di te, che inchiodi le mie mani in un punto non casuale in aria.

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un padre deludente


Posted By on Ott 30, 2013

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RESISTENZA ALLA LUCE
©claudiobadii

Dedicato alla ragazza e al ragazzo che da trenta anni insieme a me tessono gli arazzi e mai il medesimo disegno perché nessuno di loro due è più Penelope e Telemaco. Perché telemaco* e penelope* sono reali solo rispetto al padre* violento che  impone il proprio ritorno. Dedicato alla morte* di Telemaco e Penelope. Dedicato alla morte* della madre* e del figlio* incurabili che non hanno avuto abbastanza resistenza alla luce e hanno subito il ritorno del padre. Essi -cui non si può dedicare questo che segue-  immediatamente soffocarono sotto il peso del tempo passato ad aspettare un padre deludente, che era rimasto per sempre fedele a se stesso attraverso gli anni e per questo al suo ritorno era oramai un ebete sorridente ed era stramazzato attraversando la soglia.

Troppo* grande e troppo* piccolo sono le dimensioni della vita fisica. Il pensiero ha architettato avverbi di modo e aggettivi qualificativi per correggere la propria inadeguatezza dalla quale nasce anche tutta la letteratura la poesia e le arti grafiche, diciamo. Tutto quello dove ciò che conta non è visibile* e pensabile* seppure in realtà sia saputo* e immaginato*. Un arazzo con levrieri seduti in primo piano, e cacciagione su vassoi d’argento e frutta e certi guanti ricamati per ragazze da marito in secondo piano, e poi -nelle successione di quinte verso l’infinito spreco e l’infinita diseguaglianza e l’eternità beffarda dell’ingiustizia insanabile- una sfilata di cacciatori in livrea servitori sudati e servili e brusio dipinto in forma di cappellini e baffoni e marsine da caccia e una luce di cipria stantia e di profumi untuosi che aleggia cade si adagia dalle nuvole della campagna incolta saldandosi pesante sulle curve delle guance perché i protagonisti della grande storia che dovrebbe essere edificio e maestranza del presente erano, dopo i trenta anni, quasi tutti ammalati senza che si potesse conoscere il grasso e lo zucchero e gli acidi urici -che li asfissiavano e li corrodevano subito dalle tavole apparecchiate e nei tuguri fangosi e senz’aria- se non in prossimità della evidenza rovinosa della digestione finale da parte della madre terra che si riassorbe i suoi figli.

Vedi oggi come è possibile reimpostare la tessitura e come domattina (essendo una folla di penelopi* clonate a meraviglia tutti gli artisti e gli ossessivi) si tesse di nuovo -senza che per i primi sia una ripetizione sterile, o proprio, nei secondi, essendo una morbosa coazione mascherata dalla forma sciatta della vita quotidiana- domattina saremo sull’attenti a vivere il futuro di noi riflesso nella luce che filtra dalle tapparelle. Siamo resistentissimi alla luce. Non saprei come dire ciò che si capisce via via degli esseri umani. Resistenti alla luce vuol dire -attraverso l’aggettivo qualificativo- che, nascendo, la dialettica energetica del primo scambio extra uterino è di opporsi: cioè offrire il volto alle lampade o al sole senza poter sfuggire e dunque subendo e addirittura ampliando attivamente e reimmergendoci per una nostra ridondanza di specie in una variabile cascata di eventi a partire dallo scarto neonatale rispetto a subire passivamente lo stimolo cosicché la nostra vita è una serie impressionante di conseguenze a partire da una deriva originaria.

La luce arriva e noi deriviamo appena la linea di rotta. La nascita è lo scossone di un sortilegio che avvolge la nave che quasi inavvertitamente oscilla restando tuttavia ben salda la dinamica delle masse in equilibrio di galleggiamento obliquo verso coste di continente e croste di pane della terra emersa (che ne è esistente più quella sognata che quella conosciuta e nelle carte si vede come, dove sognata e conosciuta si incontrano sotto gli occhi e i sogni degli esploratori, le pergamene si coprono di scaglie nerazzurre di mostri). Il mozzo sulla cima dell’albero di maestra sente bene impressa la spinta d’onda ma in genere è muto, comunque affetto da un deficit che gli impedirà di emanciparsi, ed ha imparato la noncuranza degli ultimi verso il resto dell’umanità, poiché essi sono quello che si diventa quando nessuno ascolta. Ha sentito ma è  uno ininfluente. Un essere sulla cima del vento che è messo dove è messo per avvertire con la sua vita precipitosa più che con la voce. Comunque nell’universo ci sono testimoni dello scossone al fasciame dello scafo. La nascita ha testimoni inascoltati.

Dovrò farti la dichiarazione per gli anni avvenire da mozzo quale sono e tu seguimi al centro dell’appartamento. Vuoto polvere aria sottile pulizia: stamani in grande spolvero stanno il desiderio e il sorriso sulla faccia. Vieni e al centro dell’unica stanza vedrai tutto questo immaginare*. Siamo specie resistente. Beffardi i pensatori tisici hanno viaggiato. Prima del ridicolo splendevano di boria ma nessuna democrazia comunque metteva in ridicolo quell’atteggiarsi. La storia non è poi tanto affollata. Essa si è sempre sbarazzata da sé di sé. Lo stato civile delle parrocchie ne contava a migliaia che morivano come le mosche. E mosche nascevano infinite dalle carcasse determinando altre epidemie. La civiltà è batterica e paludosa però colora e edifica con secchiate di vernici suoni profumi e gocce di spaurito genio una terra mai definitivamente conquistata una terra che bisogna dirlo è ineccepibile in quella sua divina antipatia. Là sopra quel mondo pochi etilisti di genio comandavano eserciti che morivano di più nel fango delle marce di avvicinamento che contro i cannoni. Conquistavano scoprivano se la intendevano tra loro protetti dalla diseguaglianza e dall’ingiustizia senza le quali non ci sarebbe stato l’agio di mettere in forme universali le scoperte dei singoli gli avanzamenti della tecnologia le immoralità che anticipavano e demolivano la morale e gli sguardi che anticipavano occhieggiando un futuro differente. E anche tutto questo è decisamente antipatico e ineguagliabile atteggiarsi dell’umanità alla forma della dismisura di se stessa. Ma resta che la vita ha gloria nel dirsi che nessuna morte è romantica.

Se non si si vede l’asimmetria da cui si parla si pensa che una vena di ardore ci sia nella conclusione. La pulizia e la lucidità delle scrivanie, la relatività evidenziata da esperimenti tra navi e terre immaginarie chiarisce come non si possa avere mai la sensazione del nostro reale quieto e inesorabile movimento. L’odore luminoso nell’appartamento è in granelli di polvere in moto browniano. Si era scoperto il linguaggio che girava intorno a se stesso e contava numerosi sacchi di grano in ingresso nei granai. Il linguaggio allora si era dato la scienza appassionandosi ai propri confini. La psicologia, dopo la scoperta dell’anima, ha inferto alle parole definitive una definitiva lesione. Oggi teologia e psicologia devono vedersela con il dato che la nascita scuote la nave più o meno secondo la vitalità del singolo nascituro. Maggiore la vitalità del feto e maggiore è la resistenza immediata alla spinta luminosa. 

“E’ precario”(*) Al centro dell’appartamento dove ti ho portato una tela di lana antica.

La resistenza è segno della possibilità mantenuta dalla nascita ad oggi di assorbire sempre maggiori quantità di luce e realizzare conseguenze dallo stimolo originario in forma di chiacchiere alla crema e budini di costruzioni elettroniche e di computer e di elevatissime risoluzioni di schermo risoluzioni che placano le nostre ansie di corrispondenza tra l’oggetto e la stampa. Gli sviluppi involontari della gioia di vivere mostrano che la mente è un cristallo aperiodico e sarebbe meglio che  tu e nessuno che conosciamo diceste mai più le stesse cose perché è contro natura. Non contro la natura di una filosofia ontologica  di una estetica della morale ma è proprio contro la forma solida della struttura alla base della chimica dei legami che formano (ricreano fluttuando continuamente senza riposo) il nucleo intorno a cui si agglutina quello che siamo anima e corpo, come si dice.

Un cristallo non è sempre salgemma fermacarte. La vita in me svuota cassetti e spazza i piani delle scrivanie. Dovrò spendere qualcosa e fare un debito per farmene una nuova. Una nuova vita vale un debito d’amore e tu invece risparmi. Un debito d’amore non è una promessa ad un’amante che sorride ma il rifiuto della noia dell’amore presente che rischia una malattia mortale. Come sai la difficoltà e il coraggio è la passione del rifiuto verso gli indifferenti. La resistenza alla luce fornisce la possibilità di opporsi all’anaffettività dei compagni degli amici dei collaboratori.

Vibrerà appena al centro dell’appartamento quello che si era spento. In genere così è il ritorno a casa quando non è ritorno. Questo vedrai al centro dell’appartamento: vedrai di certo i volti infarinati di quelli cui voglio continuare a parlare.

nota * (la sostanza dell’intelletto sta nel dare una legittimità al soggetto di frasi impersonali del tipo “è precario“. E’ questo amore il centro della stanza. Ma… la stanza non è il centro, capisci ?!)

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stelle cadenti


Posted By on Mar 13, 2012

Supponiamo di parlare a proposito di distacco e contemplazione poi di vigore e azione e infine di calore e passione. Supponiamo che il legame sia essere capaci di resistere insieme. E di essere d’accordo che nessuno può avere più di quanto sia in grado di amare. Supponiamo che ti dica, in mezzo al campo dove scendono i paracadutisti, che noi siamo il seme e le ali. Che siamo loro. Che siamo liberatori in caduta sulle nostre stesse teste. Supponiamo che sia vero che tutto quello che conta sta dentro. E lo sia, vero, una volta per tutte. Supponiamo che esista una affermazione decisiva che ci tolga la paura. Perché abbiamo pensato chiaramente, come stessimo vedendo un aquilone o una spiga, che la nostra paura sarebbe il loro alimento.

Di non aver paura di lasciarci alle spalle il domani e di vivere di tutto quello che è successo. Che quello che è successo è il grano sicuro che toglie la fame di conoscenza. E non si muore se si ha nella stiva. Che quello che è stato plana su di noi come i semi attaccati ai paracadute vegetali buttati all’aria dal soffio degli innamorati nel campo. Tutto accadeva là, in quell’area per i lanci delle truppe di liberazione. I partigiani cadenti come stelle. Noi a guardare la vita che prende forma di immagine. Quando le figure suscitano il pensiero verbale e il racconto di quel pensiero è una serie di suoni che mi canti per cui alla fine dormo tra le tue bianche braccia. Era nato tutto di lì. Dalla immagine contenuta nel titolo poggiato sopra il libro appena comprato: ‘LE BIANCHE BRACCIA DELLA SIGNORA SORGEDHAL’ di Lars Gustafsson.

Il libro ha nella premessa una frase di Jelena Selin : CRONACHE DA’UN ISOLA: “Non i demoni sono la minaccia ma la massa monotona della vacuità. I demoni si possono combattere, interrogare, sopportare, minacciare con il pugno. La vacuità si nasconde in tutto, come una verità sconfinata quando si smette di sforzarsi di costruire menzogne, quando la festa è finita. La vacuità dimostra di essere la vera natura del mondo platonico delle idee.”  Certe volte siamo resi fragili da una crisi appena superata e siamo ancora convalescenti per avercela fatta con molto sforzo.  In quei frangenti pare di capire le cose che diciamo di capire, con la stessa chiarezza che se fossero nostri precisi pensieri.

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