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Una nota musicale e una linea ferroviaria monorotaia elettromagnetica a sospensione di costruzione russo/cinese eseguita dalla grafite della matita al titanio: supervelocità del futuro in atto già vivo oggi che quasi piove. Il quasi è una entità semidiscreta dalla quale viene l’estesa frontiera, la terra di nessuno dove si cammina in silenzio con compunzione e scrupolo e grande sfarzo in pensiero e carezze.

La parola carezze esprime una ossessione innocente che traversa il pensiero: come in cielo una nuvola. O un rosa elefante che distrae la memoria.

Perdonamenti. Perdonazioni. Perdonanze opposte alle mattanze della mattità. Allegria contro la mattìa del rigore morale senza scopo. Studiamo i fonemi sfrondando con le mani certe radici pendenti da alberi millenari che sono come la pioggia che arriva da domani e dopo ma sono circuiti di feed/back neuronali che modulano la scelta di ogni singola parola e lungo il profilo sonoro di ogni parola suggeriscono:

“Svolta qua… fletti la pronuncia sull’accento… torna! torna! riposa alla groppa della emme, smorza sulla consonante zeta, poi canta e poi frena e sussurra un apostrofo di silenzio accenna, un singhiozzo trattenuto e….. ci sei! ecco la forma della esatta pronuncia che esprime il pensiero…”

L’aspirazione al vero: eccola la trama della vegetazione di radici di spine – quei lunghi sottili coni affilati – che si offrono in eccesso sulla domanda sul mercato dei viandanti. Il vero è una inarrestabile pretesa che consolando anestetizza e poi affonda nella mano che avanza oltrecortina, oltre il dolore del divieto alla conclusione di una verità definitiva, posto dalla natura fisica della realtà che si riproduce sempre generando sempre solo somiglianze.

È l’idea dell’evoluzione che non è la storia la medicazione per cui se penso un palmo ferito non sono più solo perché la mano e il sangue accomunano l’individuo ai vincenti sorteggiati nelle diverse lotterie: e si vince fortunatamente (solamente transitoriamente) l’estrazione gratuita del corpo estraneo acuminato.

Da medico, diversamente sognavo “Si vincerà la fine della febbre acuta con piante medicinali avanzando il resto di ignoranza come credito per la ricerca. Intanto si ingannerà la natura con mimesi omeopatiche.”

Da aspirante disegnatore sognavo: “Noi, generati insieme sotto la chioma del fungo verde novecentesco, sconfiggeremo la nostra evidente invidia per la genialità delle opere -rinchiuse dall’invidia più sottile ed invisibile dei critici in musei quasi inaccessibili- generando con pochi colpi di martello i volti di pietra assorti e distanti di maschere africane.”

Da studenti in giro per la provincia “Scolpiremo, non senza bellezza, profili arcaici. Poi li getteremo nei canali sotto casa e ci godremo la confusione e la sorpresa di giornalisti e passanti, guardie comunali e marinai di ventura. Questo artificio, per un poco, sarà riso e allegria, libertà dal rigore dietro il paravento della riproduzione approssimativa dell’arte. O almeno delle linee che la compongono.”

L’intelligenza compie un’artificio guidata da ricordi arcaici del singolo e della specie: che oggi come allora basta guardarti per trovare l’essenziale, voglio dire il numero razionale che è il rapporto tra la misura dei segmenti che uniscono i tuoi occhi alle tue labbra cosicché ogni volta il viso amato è un triangolo d’amore uguale ad un altro viso. Uguale (*) alla prima cosa che vedemmo, dopo che la luce accecante della nascita ci aveva costretto a chiudere gli occhi.

(*)Non proprio uguale ma quasi.

Sono numeri della relazione estetica e dicono chiaro che non ci siamo più evoluti, anche se ci siamo assai dati da fare per realizzare forme differenti di relazione economica e sociale. E che ancora cerchiamo nell’origine la legittimazione alla nostra presenza per tutto il tempo che siamo vivi, il tempo deserto prima che inizi la storia di ciascuno di noi con l’altro.

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la storia in atto


Posted By on Giu 22, 2016

Farsi uomo della divinità. Farsi, dell’uomo come è, da uomo, altro diverso. Magari fratello, o figlio. Possibili senza il disfare edipico. Farsi, da uomo, altro corrisponde ad altro a cui si è riusciti a pensare. E ad un altro (modo di) pensare. Sulla radice, “andros”, innestare un nuovo atto di storiografia immaginaria:

“…sorse una specie mutata cui il tempo fu amico: esso, il tempo, non fu percepito come padre ingrato…. e fu grazie a qualcosa nella mente che computava le probabilità in modi non pessimistici…. essi, i nuovi, ebbero la facoltà di stare dalla parte del pensare rapido…. ebbero la facoltà di considerare i vantaggi di inavvertiti lampi di sguardi assassini e di imponderabili toccamenti casuali che concessero loro torride ore del dopo pasto...”

Krono non poteva svolgere il proprio compito di terrorizzare questa specie che era così dedita al presente da restare disinteressata ai ricatti di tempo lungo. Come la precedente specie ci furono di certo le condizioni pratiche per cui ragionevolmente si pensa che avrebbero anch’essi dovuto uccidere i padri predecessori . Ma intanto era tutto un invito continuo a considerare il crearsi di certe contingenze. Il mondo cambiava forma luce e profumo tutte le volte di fronte al banchi del caffè. In mezzo ai sacchi traboccanti di spezie dei mercati nomadi. O forse era solo la grande immaginazione dei mutati che prendeva piede. Un andros differente. In un mondo che veniva riconsiderato (percepito) differente: più interessante su certi lati e per niente preoccupante per altri. Intelligenza artificiale. Il farsi automa dell’uomo. Un automa che non aveva nessuna somiglianza. Seppure la stessa figura.

Il resto della storia è in atto…

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Un algoritmo per congegnare storie. Una creatività artificiale. Credi che si possa distinguere un capolavoro umano da uno artificiale? Presunzioni antropoidi. Il nostro amore è un algoritmo appassionato. Comunque la verità dell’artificio è di dover programmare una relazione perché altrimenti un solo essere renderebbe tutta l’arte nuvola. Chi ha vissuto in una nuvola conosce il manicomio e il ricovero in grotte di ponti della Senna. Miserabili alla Victor Hugo. L’algoritmo imparerà a trarre luce dalle esclusioni. Sarà capace di inventarsi delusioni che non avrà mai conosciuto solo perché saranno previste nei procedimenti rigidi del calcolo. Il pianto dalla gioia. L’arte del colore dalle porpore di gusci inerti. Tu da me non appena svanisci. Io dall’ombra. L’ombra in punta di penna. Il buio di inchiostro illustra con segni neri il sole che non si può guardare e ci accieca.

Ci sono in me piccole cose e silenziosi inconfessabili disastri e le crisi di identità sfuggite alla coscienza dei miei antenati nei secoli dei secoli. Ci sono dentro di me le assenze delle madri della mia miserabile genia e le grida di morte degli uomini della mia genealogia: sono certamente in me se io pretendo di essere senza consolazione di un dio e resto nella terra della discendenza.

Ci sono anche le risa e le felicità la fame le morti tutte e tutte le nascite. L’odore dei letti e della cucina. La legna e il ferro. Le rane il pane la pioggia. I farmaci e i bisturi. Qualcuno avrà dato alla luce figli sui campi di battaglia. Mi auguro che ci siano stati guerrieri. E diolovolesse una cantante. Il resto penso sia stato così insignificante da essere non descrivibile, cioè il resto che è il più, certo saranno state come ora sono, una serie di cose di nessun peso narrativo.

Mi auguro a volte che ci sia stato un pogrom su di alcuni di noi. Perché da dove mi viene altrimenti questo sempre aver voluto tacitamente (ma certo rassegnato a non poterlo ottenere) essere un israelita e il sapere che la vecchiaia mi regalerà -(una volta avanzata di più che potrò rendermi ridicolo protetto dall’indifferenza di tutti alle incoerenze di chi non vale più perché non fa più paura)- una giubba di rabbino e la carezza del cotone di quei neri copricapi inutili e presuntuosi come l’insulsaggine di quelle intelligenze inutilmente raffinate e ineluttabilmente rissose in antagonismo con se stesse prima che con tutti gli altri.

Mi regalerò in ogni caso la ragione del mio disaccordo che dura da sempre. Mi sorriderò come avrebbe dovuto ridicolmente e umanamente essere.

La gioia di oggi è che nessuno sa quello che c’è in ciascuno. Non dove e come. Non chi e che cosa. E temono gli algoritmi che faranno romanzi bellissimi. Ma non avrebbero il disprezzo della paura per quello che è artificiale se avessero avuto l’umiltà di capire che il più elevato dei nostri pensieri è solo l’espressione di una tra miliardi di probabilità. Non è là provvidenzialità di una serie di scelte selezionate ma un evento che solo adesso che è capitato noi assumiamo a ‘raggiungimento’.

La coscienza è il meno. Le tracce che guizzano sono la culla dell’umana identità. L’algoritmo del pensiero mette insieme tutto l’esistente che è ben chiaro alla coscienza con tutto quello che posso immaginare tenga insieme la realtà delle cose coesistenti. Penso dunque che avere buoni antenati non sarebbe stato male. Credo invece che mi abbiano deposto in una mangiatoia imprevista e certamente non attesa. Vengo su da secoli di pesante lavoro.

Ho scavato verso l’alto. I raggi sono stati quasi un arrivo. Non l’origine. Ho capito il potere della metafora quando ho realizzato che non era una metafora. Leggevo preferibilmente di te subito nei libri degli adulti incautamente poggiati sui comodini. Te eri quella tra cenci scatole di latte dentifricio e fili di nailon arruffati: amai dunque i tuoi capelli riflessi sull’acqua dei grandi fiumi cittadini perché il mio romanticismo fantastico risultava alla fine pragmatico e pieno di tensioni indirizzate al tuo corpo ancora, allora, giovane come una montagna di roccia rosa.

“….sempre novità senza riposo..” dico io ed è stato questo il massimo in cui si potesse sperare: questa forza del movimento meccanico di tutto per via della natura fisica della realtà….

Il pensiero è un’eccezione. Così ho sempre tenuto questa persuasione a proposito della gerarchia delle cose tra realtà immaginazione prassi e lavoro intellettuale e così sempre mi attenevo all’indispensabile mentre pensavi che io mi perdessi in astrazioni. Mi attenevo all’indispensabile mentre tutti scambiavano quella insistenza per una mistica del mio spirito. Non mi sono mai perduto in eccessivi ripensamenti sulle altrui ragioni. Avevo momenti per me di vita psichica: sogni virili d’amore. Dicevo e dico: non si può sapere. E ti carezzavo i capelli: tu eri tutte le donne. Non è una metafora romantica: ti ho sfruttato per non sentire più alcuna mancanza.

Se mi sveglio anche oggi tu nel sacco nuovo di grano ti rivolti per un sogno scontroso, così sembrerebbe, e mugoli:

“….api sul tuo capo succhiano margherite…” dico con certezza incondizionata. Mai dubitato di me riguardo alla comprensione degli altri.

“…abiti i campi del pensiero…”

Una volta campi indicava anche zone note del sapere. A scuola per esempio: una scuola che non mi ingannò mai sulla necessità di imparare da solo per mio conto coi miei metodi cosicché più che altro giocavo a scrivere e ad inventare. Imparavo il linguaggio che mi fu evidente fosse per sua natura intrinseca solo simbolico ed essenzialmente artificiale dato che potevo cambiare tutto con niente (gli incisi, gli avverbi, i ritardi, le ridondanze, i trilli dei dittonghi, l’intesa consonante e la vocalità illusoria delle vocali…. sai tutto tu, no?).

Il linguaggio non doveva cambiare le parole aveva la furtiva creatività di variare le relazioni i tempi i suoni il ritmo lasciando intatte e inerti prima potenti e poi ottuse come alberi abbattuti le parole morte nell’intrico dei rametti. Il discorso si assomigliava al proprio interno riflettendo la sua struttura la parte per il tutto. E in questa somiglianza grammaticale la sintassi generava di tutto rendendo la scrittura ordinata inutile come la luna stessa dopo un abbraccio o una separazione che si fa con pochi suoni o anche solo con la giravolta dietro un angolo: e addio! L’inutilità della poesia denunciava che le metafore non sono metafore e la poesia rovinava la letteratura. Io ero davvero libero: il linguaggio illegale libera la potenzialità del caso.

Il linguaggio visto da quella prospettiva spaesata portava la vita come dio conduceva il destino nelle preghiere della comunione che ancora era l’ostia dopo il pane abbrustolito nel latte della colazione appena consumata: e poi però l’illegalità era il pane delle lente mattinate sui banchi: rintracciai questa filosofia dell’infrazione osservando le dita della mia mano destra accarezzare le dita della mano sinistra della mia compagna di banco secondo un algoritmo di segreta passione e spudorata insistenza.

La scuola elementare seppi vederla quasi subito grazie a lei (che era te prima che fossi tu) come una accademia da liceali precoci.

Le presunzioni legittime di alcuni, i migliori (mi spiace dirtelo) da subito hanno fatto per i migliori (mi spiace ripeterlo) la via lattea e si nuotava in questo braccio secondario del fiume che ancora si vede se si va via dal mondo delle luminarie per trovare le radiazioni e non le illuminazioni. Il latte stellare oggi ancora rimugina continuando a suggerire. Per cui, mai più stanco oramai, mi figuro l’amore e la provvidenza, la farina e la panca di legno e l’acqua nel marmo e le colazioni nell’ombra. Il mondo che prende la forma delle singole parole e poi del discorso. E il discorso eravamo noi. Per cui se ricordo sono ancora di nuovo con te. Siamo sempre stati noi. Il discorso umano deve infatti essere forzatamente plurale per essere ognuno di noi almeno qualcosa: dato che è evidente che l’altro non è che debba essere chiamato in causa per una questione di stabilire la contrappesi delle uguaglianze ma per la necessità ontologica di convalidare il discorso. 

E i migliori non vollero sbagliarsi e piangemmo fiumi di lacrime pieni di speranza per la sensazione che la riserva d’acqua sarebbe comunque bastata per sempre. Oggi che l’hanno versata quasi per intero non piango più e scrivo per tornare indietro ad estrarre i fiumi dal deserto e navigare il mare sulle montagne che erano il fondo marino di farina di conchiglie.

Dalle conchiglie il grano. Ecco cosa scriverei se qualcuno ascoltasse.

Non importa tanto ci sei tu ancora. Quella che non c’è. Che mi lascia dire. Che dice “….aspetta ancora un attimo amor mio…” ma non mi guarda mica distesa spazzolandosi quei capelli dell’altro mondo persa nel sogno dove sono radicati quei suoi fili di foresta quei legami genealogici col fianco di fango da cui si è appena alzata che già presume me migliore di quello che io potrò mai essere.

Sgusciata fuori dalla yuta che sei il mio raccolto dorato. Dispersa ricchezza la pazienza di nessuno.

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Basta con la ‘storia’. Deve esserci un presente cui dedicarci che ripudi gli albori. Che volga le spalle al sole inventandosi l’oriente non geografico con una capriola metafisica.

Il calore alla schiena saranno nuove ali. Ci si farà tatuare l’ombra di un velo di nuvole che ci ammanti dal collo verso i fianchi.

Perché? Perché il ricorso alle vicende passate, la loro esatta interpretazione, la verità storica… non sembrano ormai altro che esercizi di tardiva saggezza.

Una società civile non deve invecchiare con giudizio. Non deve orientarsi ad una ingravescente temperanza.

La storia tramortita dal conformismo sì, essa riflette una congerie di tabelle prescritte, parametri di giustizia che inseguono le attuali diseguaglianze riproposte tutt’ora con cinismo.

La storia, con le sanzioni della verità tardivamente restituita, ci insegue da troppo lontano e le attuali malefatte restano irraggiungibili ed insanabili da coloro che aggiustano soltanto il passato.

Così la cronaca irride la memoria.

Ogni governo democratico ha comitati e commissioni per ripristinare il vero verso degli eventi e sapere di quale stortura siamo figli.  Quali sofismi saranno più adatti alla convivenza con le torture e le prigionie che orientarono le cose verso quest’oggi e che quest’oggi ripete con assillante impegno.

Ma il fatto è un’altro. È questo: qualunque società non può prescindere da una propria antropologia. E questo presente culturale ha evidentemente scelto una propria visione dell’uomo utile a tollerare storia e presente immutabilmente uguali.

La storia, nella teoria dell’uomo che viene fin qui suggerita, è un rituale di peccato inevitabile e lussuosa penitenza.

Non si sa se le cose vadano come vanno perché l’uomo è quel che è. O se vengano indirizzate per certi versi perché alcuni uomini vogliono che si pensi ad un certo modo dell’essere uomini.

Gli storici volteggiano come avvoltoi a pulire le carcasse dei danni che il realismo impone e legittima.

La democrazia cui veniamo indirizzati è POSTUMA.

La storia sembra sapere dove avrebbe dovuto stare la via giusta la parte più umana la decisione non più cinica? Bene, allora ci sia regalato un Ministero della Storia.

Che edifichi la storia già da adesso. Che dica cosa fare perché non ci si debba vergognare. Che i professionisti del passato, tra cent’anni, possano soltanto, annoiati da tanta giustizia, applaudire l’oggi.

Oppure ci vengano evitate la riflessione il ricordo e le lezioni da trarre da testi sgangherati di percosse e invasioni trascorse.

Se non si sa volere un minimo di decenza, non si può neanche fidarsi che gli storici che ora si formano potranno davvero proporre in futuro quando giudicheranno le epoche trascorse, criteri che riconoscano senza dubbi la dignità.

Perché cosa è la dignità quando la cultura del realismo costringe a pensare inevitabile derogare alla dignità medesima con diplomatica furbizia?

Sarà che faccio un mestiere antico che oscilla tra genesi dei pensieri e ambiguità delle parole. Tra certezza del sentire inconscio e incertezza di diverse soluzioni logiche proposte dalla ragione come medicamenti del cuore.

Non so con chi posso cercare di capire se è verosimile che affetto e onestà sono le espressioni ultime dell’intelligenza. E che senza essere intelligenti non si potrà mai essere onesti e affettivi. (*)

(*) (….ed è per questo che incido con tratti più scuri questi miei pensieri che sono -per adesso ma da troppo tempo- domande senza risposta…)

Se non potrò mai avere risposta devo dire ugualmente -pur amareggiato e per adesso innegabilmente sconfitto- che i disonesti sono stupidi.

Devo dire che il potere è ambito da persone banalmente poco intelligenti. E che è gestito da persone che, tra coloro che al potere ambivano, erano e sono restate le più stupide sempre.

Devo dire che le persone che tengono il potere sono le più adeguate alla necessità di imporre a tutti la loro banalità, la loro stupidità, la loro modesta prospettiva antropologica, la loro privazione affettiva.

Voglio aggiungere il peggio: che quelle persone -che ebbero concesso il potere di essere sempre ugualmente anaffettie e stupide- poiché avrebbero dovuto mantenerlo quel potere, furono scelte tra coloro che erano di già in privazione di dignità che ne garantisse l’arroganza permanente.

Si capisce che tutto quello era stato necessario perché quelle persone devono saper rimanere, dopo la loro incoronazione, senza regole: in un tempo buio che con la loro opacità etica e la loro anima nera dovranno continuare a depredare di ogni luce.

Nessuno escluso.

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fiori nell’ambra


Posted By on Feb 17, 2016

fiore nell'ambra (circa due milioni di anni fa)

fiore nell’ambra (circa due milioni di anni fa)

La capacità di riunire è mancata. Si è puntato alle separazioni. Indispensabili alla creazione. Artistica e non. Riunire sa di compromesso e rinuncia mediocre. Cioè così si è imposto. È la percezione prevalente a proposito del ‘tornare’.

La gioia serale è borghese. Così si è detto. Così esemplarmente si è fatto delle ore notturne una serra buia e profumata. Affascinati dalla cecità del buio. I fiori spariti. La loro bellezza inutilizzabile. Ma prevaleva in molti quell’eccitazione di stare avanti nella colonna degli esuli trasvolatori.

“L’aria del tempo tiene le sorti del volo. Le nostre braccia sono libere ali. Libere ma dolenti”. Così la poesia durante la marcia di fuga di amanti segreti. Ma la parola ‘dolenti’ non si pronunciò. Del dolore meglio non parlare. Si diceva fossero dei virtuosi la vitalità, il rosso, l’impunità dei desideranti. Guai agli altri.

La militanza è resistenza eterna all’annullamento.

Ma non c’è sempre sovrapposizione tra militanza e vita. E dunque, benedette parole! “Che l’una consenta l’altra”. Perché Via della Resistenza porta alla piazza. E la piazza è arte in grande. È bellezza al pubblico. E il suono delle voci in piazza è festival dei tempi antichi. In piazza ci si riposa. Mentre si guarda il mondo. E si smette di lottare per un poco.

Ma questo è ora che si chiarisce. Invece non fu così. Furono, sono stati fin poco tempo fa, anni di smagliante ostilità. Poca pace di fondo. Pace parola grossa per le relazioni: ma quale altra per definire assenza di tremori e terrori incoscienti. Ma non ci furono ripari: il fondo tanto meno. Crisi dei fondamenti.

Un sapere in gioco. Proposizioni di conoscenza. L’alba del pensiero ‘debole’ fu il tramonto di tutto. La filosofia si consentì la proposta della debolezza come crisi evidente delle certezze. Reggeva l’apriori acritico? Era un pensiero imprevisto che causò la crisi dell’ermeneutica.

Vennero giù i tendoni dei circhi e si arrestarono a mezz’aria le ruote dei luna park. Le manifestazioni riempirono le piazze. Ma piene di gente mossa dalle ideologie le piazze assunsero dignità di luoghi politici. Senza più alcun valore architettonico. Il mondo interiore non doveva riposare. Non aveva tempo per l’architettura.

Peccato perché una piazza, un edificio e una città sono arte ciclopica gratuita. Genio alla portata di tutti.

Il mantra: “Il riposo è accidia. Il contentarsi è rinuncia. La gioia è illusione borghese”. Si è vero è borghese fingere la gioia. Si è vero è peccato nascondere l’incapacità nella pigrizia. Si è vero, dopo un poco la fermezza è immobilismo. Sarebbe necessario imparare a distinguere il vero dal falso. Ma questo sapere era detto violenza sull’altro.

La diversità fu sospettata di favorire o preludere ad una negazione dei diritti di tutti a tutti. Ma in realtà si negava l’invidia diffusa. Si negava che la genesi della malattia mentale era nella banalità della semplificazione: “La neutralità del giudizio ne garantisce l’equità”.

Ma la neutralità è stata presa per equidistanza tra gli opposti di torto e di ragione. Chi ci ha rimesso sempre è presto detto.

E per tutti gli ultimi quarant’anni anni qualcosa dei dubbi di prima è conservato. Vivemmo in una sospensione. Quello che non ha ancora risposta ci prende. Siamo rimasti a lungo crisalidi. Ma l’amalgama del dubbio ha tenute intatte le domande.

La rivista ‘Science’ mostra foto di un fiore che nell’ambra si è conservato intatto per due milioni di anni. Delle domande tutt’ora bellissime -conservate intatte per il fondato sospetto che le soluzioni fossero illusorie- noi apprezziamo l’eleganza. E questa sensibilità alla bellezza della permanenza, che è una conquista recente della nostra specie, ci riempie di orgoglio.

Rassicurato concludo che, dovesse ripresentarsi la voglia di vivere di tanto tempo fa, questa volta, diversamente da allora, sapremo coglierne meglio l’irrinunciabile valore, insistere più a lungo nel volerla per noi.

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