Ingeborg Bachmann (biografia)


Ingeborg Bachmann (biografia)

Nata a Klagenfurt in Carinzia, vi rimane fino al 1945, anno in cui inizia gli studi (dapprima filosofia e giurisprudenza, successivamente filosofia e psicologia) ad Innsbruck, che prosegue a Graz e successivamente a Vienna. Nel 1949 la rivista viennese Lynkeus pubblica alcune sue poesie. Nel 1950 si laurea con una tesi intitolata Die kritische Aufnahme der Existentialphilosophie Martin Heideggers. Tra il 1950 e il 1951 soggiorna a Parigi e Londra. Al ritorno è invitata da Hans Werner Richter, insieme a Paul Celan ed Ilse Aichinger, al 10° Congresso del Gruppo 47, che nel 1953 le assegnerà un premio per la raccolta di poesie Die gestundete Zeit. A partire da quest’anno vive per lo più in Italia, a Roma e Napoli. Nel 1956 pubblica il secondo volume di liriche, Anrufung des Großen Bären, per cui ottiene il premio letterario della città di Brema. Due anni più tardi viene trasmesso per la prima volta il radiodramma Der gute Gott von Manhattan, che le frutterà l’«Hörspielpreis der Kriegsblinden». Il discorso di ringraziamento pronunciato in quella circostanza (Die Wahreit ist dem Menschen zumutbar) è un’importante testimonianza della consapevolezza critica che la Bachmann ha del ruolo dello scrittore e dell’artista nella società contemporanea, nonché un’analisi del linguaggio che si muove nella medesima direzione dei precedenti studi su Musil e Wittgenstein. Nella stessa prospettiva devono inquadrarsi anche le lezioni che la Bachmann tiene a Francoforte, dove occupa la cattedra di Poetica, nel semestre invernale 1959/60. Nel 1961 pubblica la raccolta di racconti Das dreißigste Jahr, che ottiene numerosi premi e riconoscimenti. Dell’opera in prosa della Bachmann fanno parte anche un secondo volume di racconti (Simultan, 1972) e il romanzo Malina (1971), primo di un ciclo che avrebbe dovuto intitolarsi Todesarten. Questo progetto, di cui ci rimangono altri due frammenti (Der Fall Franza e Requiem für Fanny Goldmann) rimane incompiuto per la tragica morte della scrittrice, scomparsa il 17 ottobre 1973 a Roma in seguito ad un incendio. Amica e compagna di Hans Werner Henze, per cui ha anche scritto libretti d’opera, e di Max Frisch, vicina a Nelly Sachs, Hans Magnus Enzensberger e Witold Gombrowicz, traduttrice di Anna Achmatova e Giuseppe Ungaretti, impegnata in battaglie femministe e contro la guerra del Vietnam, collaboratrice della Televisione bavarese e della rivista «Botteghe oscure», Ingeborg Bachmann attraversa con il suo “disperato sforzo intorno all’indicibile” la seconda metà del Novecento europeo. Nella sua opera è posto in discussione il valore della parola, sulla scia di Hofmannsthal, certo, ma con il rigore e la determinazione di Wittgenstein:

Così il mondo intende

definitivamente

imporsi

esser già detto. Non lo dite.

(Ihr Wörter)

Già in Die kritische Aufnahme der Existentialphilosophie Martin Heideggers, ad esempio, la Bachmann interpreta il Tractatus e l’intera produzione del Circolo di Vienna come tentativi di «mettere ordine» nella lingua, di smascherare il vuoto che si cela dietro la «chiacchiera» esistenzialistica. Il suo intento è quello stesso che già era stato di Carnap e Schlick: negare l’esistenza di una “seconda scienza”, della possibilità di “costruire proposizioni su proposizioni del mondo”. Alla filosofia, per dirla con il Wittgenstein del Tractatus, spetta unicamente “il compito di esercitare, in quanto analisi logica del linguaggio, una sorta di controllo sulle proposizioni delle scienze della natura”, le sole che possano e debbano descrivere il mondo. In questa dissertazione, come nei due saggi successivi su Wittgenstein del 1951 e 1953, quello che interessa non è tanto la presa di posizione contro Heidegger o la puntuale rassegna delle critiche al suo esistenzialismo, quanto piuttosto la chiara delimitazione del campo del dicibile – il mondo – e di quello dell’indicibile – il mistico in senso lato. Non c’è spazio per una metafisica, per una teoria estetica o morale: di tutto questo si deve tacere. O, almeno: la filosofia deve tacerne. La limitazione del dicibile alle proposizioni verificabili intersoggettivamente, che rende impossibili le domande circa il senso della vita e finanche l’espressione delle emozioni, porta però ad un vuoto che non è più linguistico, ma esistenziale. Ora, la Bachmann scrittrice tematizza tanto l’accettazione dei limiti rigorosi che ha mutuato da Wittgenstein quanto il desiderio di superarli. In chiusura del racconto Jugend in einer österreichen Stadt l’io narrante pronuncia una frase che ricalca quasi letteralmente la proposizione 6.41 del Tractatus: “Allora sappiamo che tutto è stato com’è stato, che tutto è com’è e rinunciamo a cercare una ragione per ogni cosa. Perché qui non cÕè bacchetta magica che ci sfiori, non vi è metamorfosi”. Eppure “…quando l’albero davanti al teatro compie il suo miracolo, quando arde la fiaccola, […] allora riesco a vedere che tutto si mescola come le acque del mare…”. Esiste per lo scrittore una sorta di obbligo morale ad infrangere il necessario silenzio delle scienze sui sentimenti umani (per dirla con Christa Wolf : “Su ciò, di cui non si può parlare, bisogna a poco a poco smettere di tacere”).

Ma noi vogliamo parlare dei limiti,

e limiti attraversano ancora ogni parola:

spinti dalla nostalgia li oltrepasseremo

e poi saremo in armonia con ogni luogo

(Von einem Land, einem Fluß und den Seen)

In quanto lotta contro il silenzio, la letteratura è rievocazione delle “memorie taciute”, dei “crimini accaduti sui luoghi reali del delitto, quelli interiori” e in questo modo oltrepassa l’orizzonte dei fatti verificabili empiricamente. È una forma particolare di conoscenza, l’unica in grado di gettare un ponte tra noi e una verità che non sia quella “astratta e formalistica” presentataci dalla logica:

Il compito dello scrittore non può consistere nel negare il dolore, nel nasconderne le tracce, nel far nascere illusioni su di esso. Per lui, anzi, il dolore deve essere vero e deve essere reso tale una seconda volta, cosicché noi possiamo vederlo. Tutti, infatti, vogliamo diventare vedenti. E solo quel dolore nascosto ci fa sensibili all’esperienza e soprattutto all’esperienza della verità. Quando siamo in questo stato in cui il dolore diventa fertile, stato che è insieme chiaro e triste, noi diciamo, molto semplicemente, ma a ragione: mi si sono aperti gli occhi. E non lo diciamo perché abbiamo davvero percepito esteriormente un oggetto o un avvenimento, ma proprio perché comprendiamo ciò che non possiamo vedere. E l’arte dovrebbe portare a questo: far sì che, in tal senso, ci si aprano gli occhi. (Die Wahreit ist dem Menschen zumutbar)

Il dolore di cui la Bachmann parla come via verso la percezione di una realtà diversa è qui quello della guerra, il “dolore troppo precoce” che aveva provato quando le truppe di Hitler invasero Klagenfurt, l’amara scoperta della volontà di distruzione, del desiderio di supremazia che si cela nelle relazioni tra gli uomini, delle «ombre cupe» che accompagnano la vita di ogni giorno. Come avviene già in Proust, e poi – solo a voler citare due autori vicini alla Bachmann – in Celan e Thomas Bernhard, l’esperienza del dolore è insieme motivo e giustificazione dell’attività artistica, la cui funzione essenziale è renderci «vedenti». Cercando di rappresentare esperienze non verificabili intersoggettivamente (qualcosa fatto di una materia simile a quella dei sogni), la Bachmann non solo lascia dietro di sé la posizione della filosofia neopositivistica, ma giunge anche ad una dimensione politica del tutto nuova all’Esistenzialismo. Nella coscienza soggettivistica dell’Esistenzialismo, infatti, vede un’aporia, perché le sembra che riporti l’uomo ad un oscuro concetto di umanità genericamente presociale e lo destituisca di ogni responsabilità nei confronti della società. Invece l’artista ha dinanzi a sé una responsabilità che è di carattere etico: “Uno scrittore ha il dovere di annientare le frasi”. La lotta si combatte, ancora una volta, sul piano linguistico: stabilito il confine tra filosofia e letteratura, e definiti gli strumenti che è possibile usare in ognuno dei due campi, resta da tracciare il limite che separa la lingua della letteratura da quella che usiamo ogni giorno. “Cattiva lingua”, “chiacchiera”, “parole di morte”, “lingua degli ingannatori”, o semplicemente “frasi” sono espressioni che la Bachmann adopera a proposito di questa lingua opaca, che nasconde la realtà e nega l’esistenza del dolore che sempre accompagna le relazioni interpersonali. La protesta contro quest’uso “per frasi” della lingua – il silenzio – è però solo la necessaria premessa ad una “nuova lingua” che sia espressione di un impulso morale e teoretico, di un nuovo modo di pensare. “Una nuova lingua deve avere un andamento nuovo, e questo può accadere solo se un nuovo spirito la possiede”. È l’Utopia di Musil che si affaccia di nuovo all’orizzonte della letteratura, un’utopia che “non è uno scopo, ma piuttosto una direzione”.

«…e dunque continuerò, bisogna dire parole fin quando ce ne sono, bisogna dirle, fino a quando esse mi trovino, fino a quando mi dicano, strana pena, strana colpa, bisogna continuare, forse ormai è stato fatto, forse mi hanno già detto, forse mi hanno portato fino alla soglia della mia storia, davanti alla porta che s’apre sulla mia storia, mi stupirebbe se si aprisse, sarò io, sarà il silenzio, lì dove sono, non so, non lo saprò mai, nel silenzio non si sa, bisogna continuare ed io continuo». (Samuel Beckett, L’innominabile, citato dalla Bachmann nella III Lezione francofortese).

Tratto da http://www.geocities.com/WestHollywood/Heights/6838/bachmann.html