scioperi della fame


la libertà di scrivere


Posted By on Gen 26, 2012

la libertà di scrivere

Ti racconterò amore mio, stamani, l’azione del massaggio: che non è che sia delicata come essa appare ed è solo e soprattutto e definitivamente (per cominciare) uno scandalo.

Si tratta di mani che hanno la forza che -all’inizio di tutto– era per uccidere avendo impugnato la mandibola dello scheletro del rinoceronte o del cervo. E però, adesso, esse fanno cose indicibili che solo agli amanti in genere sono permesse, che alle vette dell’eccitazione dovrebbero condurre l’amore. E invece sono la ragazza o il ragazzo silenziosi, come automi d’aria, sospesi alle nuvole galleggianti sopra le nostre spalle, a fare su di noi gesti che solo l’amore appassionato dovrebbe poter compiere: e che al contrario, in genere, non sa (non vuole) compiere.

Appesi come giacche da sera alla gruccia celeste degli uragani, esprimono l’indicibile e pongono la domanda su quanto sia importante usare la forza. Una forza inaudita e silenziosa. Una forza che non ha parametri. Lo scandalo del massaggio è una delle tante cose che si oppone alla letteratura. Il massaggio è uno scandalo che sfugge, chiudendosi nella sua casa di perfezioni. Consente l’uso della forza per il benessere, come si usano le armi affilate per le operazioni chirurgiche. Noi girati di spalle possiamo guardare il sangue scorrere in assoluto silenzio. Perfettamente obbedienti, il nostro sangue e noi stessi, al comando dei rianimatori che hanno a che fare con la vita e la morte, né più né meno.

Lo scandalo delle mani si oppone alla letteratura che vuole -vorrebbe- dichiararsi lieve e umanissima nella sua capacità di raggiungerci il cuore. Il massaggio realizza da fuori, misteriosamente, con l’azione sulla pelle, ciò che fa perdere la testa impedendo la coscienza. Non il pensiero.

Il massaggio fa parte della mia formazione. Lasciare che il ragazzo e la ragazza, appesi al cielo per quanto ne so disteso come sono seminudo sul lettino pulito, con la forza facciano quello che nessun altro potrebbe fare -se non con l’intento di seduzione o d’amore appassionato in una estrema realizzazione di civiltà del rapporto che porta al sesso e alla reciproca gioia- è parte integrante del mio transfert con il mio mondo umano.

Mi faccio la formazione anche, e forse soprattutto, attraverso oggetti parziali: libri, riviste, articoli scientifici. Ho sempre la sensazione, di fronte alla vastità del panorama, di dover operare delle scelte che saranno esclusioni. A causa di questo eccesso di libri e oggetti parziali, che costringono a fare delle esclusioni, perché l’offerta eccessiva sottrae il tempo per le scelte, ho più sicura la certezza che si scrivono libri poiché gli altri esistono.

Chiarisco: si scrivono libri affinché essi (gli altri) non esistano più: per un poco, almeno per quanto dura l’azione della scrittura. Avevo scritto che la letteratura è spietata ma ora dico di no, la letteratura è ingannatrice e pietosa, poiché essa assolve. Alla fine assolve l’omicidio che essa stessa compie, e lo fa facendo finta che si possa dire che una cosa finisce, che c’è un arresto del pensiero.

Ma non vengano a dirlo a noi lettori instancabili: perché alla fine della scrittura dei libri, che fa dello scrivere semplice letteratura, noi iniziamo tutto il tormento per aver letto qualcosa senza capire perché sia finito proprio là. E che cosa significhi che è finito. Dato che poi noi restiamo svegli o che, al contrario, ci eravamo addormentati infinite volte leggendo: come se noi stessi fossimo il testo che continuava. Come fossimo un testo in carne ed ossa, un testo immortale.

Noi che leggendo non avevamo coscienza di noi, seppure avevamo la veglia e il movimento e forse addirittura la volontà e la capacità di intendere, alla fine del libro siamo rigettati a qualcosa che non è chiaro. A qualcosa che dice “…era solo un libro”. Allora noi aggiungiamo: ” …già davvero: era solo un libro scritto per ucciderci!”

Lo sbarco nel mondo nuovo, dunque, non dovrà essere uno stile diverso delle forme delle attuali scritture, ma uno scrivere senza posa, una rivoluzione del comportamento, cioè dell’immagine inerente a scrivere: che sarà arricchita di un avverbio di tempo, qualsiasi cosa esso significhi: scrivere sempre. Scrivere sempre sarà operare un’azione per privarla delle sua intenzioni estenuandola all’infinito. Realizzando la sua verità che è la sua impossibilità di essere conclusiva.

La demistificazione (non) avrà (più) nessuna rabbia, poiché la cessazione della finzione non sarà denunciata nel testo della scrittura, ma sarà esercitata con l’insistenza a tacerla agendo incessantemente con mani forti precise e decise sulla carta. Poiché si scriverebbe per seppellire, e la scrittura avrebbe il rumore di una gigantesca macchina per lo spostamento terra, l’unico modo per smettere di operare questi seppellimenti -che non sono neanche rimozioni ma subdole coperture- è quello di non prendersi il tempo per una qualsiasi sospensione.

Non vogliamo prenderci quel tempo e questo avviene perché sappiamo che la sospensione sarebbe la fine, e dunque il completamento del tumulo: seppure in tal modo avremmo molte benemerenze, in quanto salveremmo l’idea di letteratura cui per tanto tempo si sono rivolti in molti -con stimmate autoinflitte o peggio di origine psicosomatica- a caratteristica di erudizione e impegno.

Attualmente, e per chissà quanto ancora, a causa di tutto questo scrivere, perché sembra inevitabile (non lo è) che se si è scritto dovremo leggere, lo ‘scritto’ diventa, in quanto inevitabile, definitivamente impossibile. Tuttora comunque si vede bene che noi leggiamo sempre, obbedienti: leggiamo tutte le parole scritte nei libri (le parole della letteratura) che in realtà sono state vergate per seppellire le nostre stesse possibilità. 

Sappiamo che è così e che leggendo diventiamo in qualche modo peggiori: perché procediamo ad una identificazione con i nostri uccisori, con gli architetti della letteratura che in realtà sono i padroni e non solo i produttori di libri. Sappiamo benissimo che la letteratura distrugge. Essa distrugge non tanto le nostre possibilità di dire qualche cosa di più, ma le nostre salutari ed indispensabili speranze di non dire più nessuna altra cosa. Che è il motivo per cui ci hanno abituati a pensare dovremmo leggere. Per riposare. 

Sappiamo tutti che la letteratura così come è -proposta sotto forma gradevole nell’offerta di opzioni pluralistiche- non fa che impedirci sempre più crudelmente ogni possibilità di tacere. Allora: solo scrivendo senza posa, senza mai arrestarci – perché arrestandoci completeremmo qualcosa e avremmo un libro – solo quindi scrivendo senza mai scrivere libri – potremo fare la differenza tra letteratura e scrittura, e potremo realizzare l’immagine di un silenzio di fondo.

L’ immagine dell’identità originaria indicibile e sicura. L’idea della materia dormiente che non è biologia senza vita umana e non è neanche natura indifferenziata. Semmai, e al contrario, è realizzazione di funzioni che, in quella condizione, non sono in grado di pensarsi mentre accadono. La realtà del non cosciente essendo che esso non sa pensarsi.

Ti racconto chi tace. C’era una volta, alla fine, chi riuscì a sottrarsi al racconto. Ti racconterò amore mio, stamani, l’azione del massaggio: cioè finalmente (per cominciare) uno scandalo. Le mani che fanno cose indicibili che solo l’amore appassionato dovrebbe poter compiere e che in genere non sa compiere. La volontà di ragazzi e ragazze che raccontano la forza indicibile che non ha parametri di scrittura. Una forza niente affatto letteraria pur nella sua estrema umanità che fa perdere la testa impedendo la coscienza responsabile ma non il pensiero.

Sotto le mani sapienti facevo le libere associazioni. Ho fatto la scoperta dei piatti di portata dell’orco. Esso cucina e porta in tavola i nostri ultimi spasimanti spellati vivi, e i generali che hanno restituita la divisa per la parata. Sotto le mani sapienti la volontà è divenuta l’idea di mantenere vivo il pensiero di dire tutto questo come un sogno.

Ero lo schiavo testimone in fondo al corteo. Mangiavo pane bagnato. Non mi avrebbero più ucciso: ed è stato così che ho scoperto la conoscenza (guarigione?) accidentale come variabile imprevista: una tra le infinite versioni della mia vita intera. In fondo al corteo ho capito che era necessario scrivere ma non scrivere libri.

E per quanto riguarda noi due posso affermare che è assolutamente necessario che tu interpreti i miei sogni. Ma non che li interpreti ogni volta con una versione definitiva e intransitabile. Ma invece che tu li interpreti non smettendo mai più di interpretarli. Che il tuo amore (lavoro!) sia di restare continuamente a interpretare. A realizzare, nella pratica, l’unico sogno che non si racconta perché non si può: l’ultimo sogno che arriverà quando non ci sarà più nessuno.

Tu giovane amore devi (se posso permettermi) interpretare la vita prima che essa accada. Tu devi stare lì accanto con coraggio perché io possa protestare contro di te dicendoti che “…avresti dovuto interpretare la mia vita da subito. Restando.” Perché io adesso ti devo spiegare, in forma cosciente e ragionevole -affinché tu alla fine abbia la sensazione cosciente di capire come stanno le cose ‘dentro’- che io (forse anche molti altri) sogno l’altro che c’è stato da subito.

Che sognando, secondo un pensiero che non sa pensarsi mentre accade, proprio per quella qualità del pensiero del sogno, stabilisco il sempre una volta per tutte, che è nascere. Sogno la possibilità di una nascita quando il pensiero non sa pensarsi ed è per questo che non è cosciente. Ed è per questo che è in genere anche bello.

Hai notato mai che i bambini sorridono quando si pronuncia “….C’era una volta…” (noi, sospirando): e allora loro sorridono per premiarci di una scelta vincente. Poi non ascoltano più altro che i toni e il timbro di guerre e rappacificazioni. E si addormentano, in genere. La fine non ha fascino, solo il non finito ne ha, solo la scelta corretta definitivamente vincente di quel modo di parlare.

E’ dunque evidente che scrivere libri è un tradimento: perché illude che si possa scrivere sempre e soltanto, cioè inevitabilmente, fino ad un certo punto. Mentre in verità l’unico modo di scrivere è scrivere sempre. Quasi scrivere continuamente, se si è abbastanza intelligenti (innamorati) in grado di accettare la provocazione amorosa. Così penso che, anche a proposito della formazione, l’insistenza e la continuità debbano averci molto a che fare. Ma per adesso non saprei dire di più.

Dunque per adesso non aggiungo che questo: che i libri e il riposo fanno la sfilata dei reduci vincitori, quelli con l’armatura ancora addosso, fanno la versione faziosa degli avvenimenti. Non ho mai capito se, nella confezione editoriale, ci fosse più dolcezza o crudeltà. Ho l’idea di molti guasti attorno a me, nonostante l’enorme vastità del panorama culturale, e mi dico che: la vittoria ha la testa del nemico nella mano fusa ai capelli con il sangue. Sparge gocce in giro. Si nutre leccandosi le ferite

Il silenzio durante la scrittura deriva da una azione presuntuosa di appartarsi per non capitolare alla vittoria in battaglia. L’azione di comprensione che vincenti sono le scelte. Così non c’e bisogno dell’omicidio rituale. Allora è evidente che la parata dei talenti è la fila per il pane. La fila di quelli che si sono riservati una posizione dalla quale avere sempre da ridire. Restando: l’uno con gli altri.

Ha ragione M. Fagioli: la pulsione, che è lo specifico disumano dell’uomo, è fantasticare come ‘non essere’ la realtà del non materiale del pensiero. Fantasticare sbrigativamente che il non materiale è non umano. Lasciando la libertà di pensare, di concludere per conto proprio che “…di conseguenza il pensiero, se non è biologia, è ‘natura’…”.

Procediamo con le gocce di sangue: scrivere non è scrivere libri. E’ scrivere sempre, continuamente. Io lo chiamo amore solo perché non ho trovato ancora una intelligenza personale che mi affranchi da quella parola così affascinante da pensare. Quello che conta adesso è dire che non è alla fine che si vince. Vince chi lotta sempre. Chi ha l’insistenza (la forza nel tempo) di stare lontano dalla vittoria che è sterminio e omicidio. Lottare è riproporre la scelta vincente. Non imporre il nesso che è vero ciò che si è rivelato più distruttivo per i nemici.

Dunque ci sono pensieri pericolosi e dovremo tener conto continuamente della potenziale pericolosità di questo medesimo pensiero. Così alla ricerca di te, delle ragioni dell’amore per te, alla ricerca della conoscenza attraverso la formazione, non riesco a smettere mai di dubitare. Al centro del mio pensiero e della gioia stessa di pensare, al centro della possibilità di pensare come destino, c’é un dubbio così espresso definitivamente

e se….?”.

Questa proposizione mentale, nella forma corrispondente alla composizione grafica con cui è segnata qua sopra, funzione di una fisiologia irriproducibile dalla cibernetica, è diventato per me il pensiero dell’altro. La certezza che esso esiste ricco di dubbi ben distribuiti. Secondo l’estetica della semina probabilistica. Quella semina, quella distribuzione, è la forma complessa del suo pensiero. Ripropone le parole e impedisce che la scrittura si arresti.

L’amore che amo esiste piena di dubbi. I suoi attributi, la sua bellezza, le sue speciali qualità sono i suoi dubbi probabilisticamente ben distribuiti. Se vuoi. Ti racconterò di chi tace. C’era una volta, alla fine, chi riuscì a sottrarsi al racconto. Smise di essere in ansia chi si era invaghito delle forme del dubitare. Poi….

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Claudio Raffaele Massimo e l’energia elettromagnetica

l’eccitazione della materia tramite l’energia è iI tema centrale del nostro amore. non si poteva sperare che non chiamassi te proprio di questi giorni. sono restato così a lungo sull’iceberg alla deriva continuando a girare la scena dell’agonia riassuntiva.

“non mi ha mai dato un nome” è l’ultimo pensiero del mostro. non è il primo figlio che muore evocando le disuguaglianze le illiberalità e l’isolamento come i difetti conseguenti alla propria complessa ‘generazione’.  siccome sono uno scienziato è la genesi delle frasi di accusa che, in fondo, sento che mi riguarda. che devo porre al centro del mio interesse professionale.

l’accusa è enfatica nel tono e a volte ho pensato che dovevo cercare attraverso un metodo volutamente irrazionale. è stupido certamente – però mi è capitato di tentare in quel senso. ma adesso sono solo sonno -senza sogni- riposo e entusiasmo di una salute ritrovata. e più che i sogni chiamo a testimoni le onde elettriche che suonano a distesa. l’accordo tra i polpacci e il cuore. le immagini delle ‘cose’ che nuotano nel medesimo mare di sangue.

ricordo gli amici medici giovanissimi e sapienti. i loro nomi belli come pantaloni scuri stirati con accuratezza alle cerimonie di premiazione e matrimonio. l’irrazionale si perde nella sicurezza della coscienza che mi fa dire ” io ho avuto fortuna “. Claudio e Raffaele e le lori mani che giocavano con gli elettrodi appoggiati sulla pelle dei muscoli e delle tempie per registrare l’energia della materia vivente.

sono bravissimi tutt’ora perché di essere geniali non si smette più e ci si allea con il tempo che passa. cercavano -nella forma delle onde elettriche registrate- la diagnosi di salute e malattia dei muscoli volontari e del tessuto cerebrale.

sapevo di  dovermi un regalo questi giorni e mi è successo di ricordare i nomi di quei medici già sapienti a trent’anni: trent’anni fa. il regalo è questa seconda nascita -dopo la nascita nel parto- che mi consente di restituire il tempo sotto forma di passione memoria e esercizio di sapienza ‘sessuale’ (dovevo dire competenza professionale)

loro scorrevano le dita sulle onde registrate dai pennini sulla carta sensibile e poi -in certi punti- si arrestavano sussurrando “…qua, vedi…” per segnalarmi l’evidenza di un segno ineccepibile. la clinica si sviluppava nella docenza secondo il garbo ferreo di un discorso che essi svolgevano con due interlocutori. me, che volevo imparare la lettura dei tracciati e -assai più intima loro- quella biologia indagata quotidianamente.

imparavo: l’energia della materia fornisce indizi di sé attraverso la forma delle onde determinate dalla propria fluttuazione. le onde sono variazioni di intensità che anima la materia vivente. noi medici nei secoli abbiamo creato apparati di registrazione dei fenomeni energetici della materia in grado di trasformare i segreti ritmi ricorsivi di quella vita sottostante in segni scritti che si devono definire artefatti.

dubitavo e mi rattristavo: questi artefatti frutto della genialità degli uomini non saranno mai belli come l’arte. Non lo saranno mai perché essi registrano la vita biologica. mentre la bellezza è nella realtà fisica del pensiero.

però la fortuna fu che capivo che la metodologia della scienza -che allora mi veniva messa letteralmente sotto gli occhi grazie all’onestà sfrontata di quei medici – era una metafora della passione.

l’applicazione delle regole dell’amore alla ricerca medica descriveva come sempre ancora una volta ogni mattina -letteralmente- il caos degli ammassi cellulari con il dolce stile del linguaggio degli esseri umani.

la sapienza delle idee nuove diventava oscillazione di emozioni della scoperta scientifica che facevano il pensiero scientifico. e poi il pensiero faceva la scrittura delle ipotesi cliniche. le ipotesi cliniche potevano cambiare il destino di sopravvivenza delle persone che ininterrottamente si sarebbero distese -nude e confuse- sul letto del medico. fu facile notare che la malattia come la genialità pareva non si arrestasse mai.

serviva, ad opporsi a quel fenomeno inarrestabile – che si opponeva come una ingiustizia alla realizzazione della felicità della libertà e della socialità – la scrittura dei testi teorici. un ulteriore tracciato che registrasse – sulla carta sensibile alla lettura – la forma evidente di una genialità di segno differente: un tratto sconosciuto e inarrestabile della specie umana.

avevo l’orgoglio: noi medici forse eravamo progenie di chi aveva sognato di potersi opporre ai fenomeni naturali a dio e al destino? allora avevamo in eredità una vita che si voleva riscattare. prosaicamente là e allora noi come arma usammo la gioia della ricerca.

ma nell’amicizia di Claudio e Raffaele, nella mia stima profonda per loro, non c’era quello che non poteva esserci. nella rarissima onestà della applicazione quotidiana sulla opacità della biologia -che non rivela subito la regolarità dei fenomeni che costituiscono la fisiologia della funzione- mi davano soltanto una parte della certezza indispensabile. il resto dovevo cercarlo altrove.

il resto! …ho ancora troppo pochi anni di lavoro per consentirmi la pretesa di raccontarlo decentemente. sai che ti amo. ma ora deve essere tuo l’affetto di comprensione per me.

posso solo dire che poi il mio pensiero si è incantato sulle cose da niente. sulle oscillazioni della scrittura sulla carta. le amo più dei disegni dei bambini. più della bellezza dei tramonti condivisi. più di te se tu ti facessi brutta e mi chiedessi di scegliere.

questo è perché nella lettura di una teoria nuova -nel 1976- non vidi quasi altro che oscillazioni di una grafia che mi tolse la coscienza. o meglio. che ripropose una nascita del pensiero secondo le regole dell’amore. era la sicurezza dell’assunto teorico: è l’energia che eccita la materia. è la nascita quando alla conclusione del parto la luce colpisce la retina…..

in questi trenta anni iniziali – nell’ambito di una attività di cura – si è generata la possibilità di cercare la genesi della bellezza nell’indagine sul pensiero. non poteva accadere se non avessi mantenuto l’arroganza di una delusione rispetto ai tracciati che descrivono i fenomeni dell’energia derivante dalla biologia.

l’armonia di forme d’onda. la registrazione – anche nella biologia – della forza elettromagnetica che è diffusa in tutto l’universo, non basta a completare la ricerca degli strumenti per curare le persone.

tutto questo risultò da subito evidente notando che la registrazione dell’attività elettrica nervosa e muscolare poteva fornirci soltanto la regolarità coattiva di una trasduzione dell’impulso informe in artefatti.

nell’inverno e primavera del 1976, dopo un anno che vivevo nei corridoi della Clinica delle Malattie Nervose e Mentali della Facoltà di Medicina dell’Università degli Studi di Siena, cominciai la lettura di “Istinto di morte e conoscenza” di Massimo Fagioli. il libro aveva già quattro anni dalla sua prima edizione. per me sicuramente quattro anni persi.

da allora amore mio non ho fatto altro che cercare di attenuare le conseguenza di quella ‘perdita’. per me dunque raccontare la storia é raccontare le vicende di quella attenuazione. non è la storia del rimpianto di un ‘dopo’: per averti lasciato. la separazione non fece l’annullamento e, semmai, l’assenza fisica realizzò la conoscenza.

è la storia degli anni perduti: una storia del ‘prima’. seppure logicamente potrei dire che fui anche troppo tempestivo. oggi – nel mare di sangue che fa l’allegria del movimento del cuore – c’è molto di questi anni ma non tutto. forse tutto non ci sarà mai perché è ‘umanamente’ ‘ impossibile’ raccontare cosa poteva essere la vita se ti avessi incontrata prima.

però una cosa adesso mi è chiara: è il figlio che deve dare nome al padre. dargli un nome al primo incontro.

così se prima era il mostro del dottor Frankenstein che muore maledicendo un padre distratto. adesso è un altro.

uno che all’incrocio si ferma e lascia scorrere via la malconcia carrozza sferragliante. una carrozza regale da parata: inadatta ad un sentiero come quello . “eccoti un altro vecchio arrabbiato che si presume in credito col tempo …”

Edipo ha fatto la sua diagnosi. ha dato un nome alle cose che gli capitano.  sorride. riprende a camminare scuotendo la testa.

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commedia


Posted By on Giu 12, 2011

commedia

L’immagine si origina nel momento in cui la natura entra in contatto con la biologia umana. Le sensazioni fanno la percezione a partire da un indifferenziato esterno all’uomo che non è l’uomo o della complessità del contenuto umano dell’uomo. La percezione diventa la coscienza di una figura e più generalmente la presa d’atto di esistenza di una realtà. Presa d’atto e coscienza di realtà sono forme di pensiero composto di singole figure o di più ampie rappresentazioni del mondo. Non ancora immagine, la scena figurata del mondo descritto certamente contiene differenze evidenti, una intelligenza, una artistica capacità di tracciare margini e disegnare una creazione di regni distinti e, se non fondare un vero inizio della vita, almeno raccontare una metafora di cause ed eventi a comporre una genesi stralunata a partire…. da dio. Ma c’è un primo anno della vita in cui la percezione del mondo non organizza le sensazioni afferenti in schemi adatti alla comunicazione condivisibile con una società e gli esseri umani vivono tra tutti gli altri senza poter sottoscrivere un contratto sociale. Siamo stati in un mondo che resterà sempre le braccia del mondo, che furono e restano la verità di un esistenza legata alle tracce di un uomo e una donna che non furono mai nominate con un suono perché quanto si mormorava nei pellegrinaggi d’amore sul seno bevendo e respirando insieme era la riconoscenza per l’altro: accanto davamo pubblica lettura di poesie per la cura delle malattie e di editti per la ricerca – agli angoli più sperduti del mondo – dell’origine del tempo. È al risveglio il suono del nome diffuso sulle cose. Il sogno la notte fa le lucciole e definisce la figura sul fiume amazzonico che per la sua stessa vastità protegge l’immagine del suono della voce umana sulla barca del seno che canta. Quel mondo arduo di montagne di pollini, e maree, e polvere vocale, è il campanello della bicicletta del lattaio, il grido della principessa ferita dalle spine sparse dovunque, l’incoscienza della mano trai rami di albicocche a cercare a tentoni la più dolce al tatto, il velo di lacrime sugli occhi che resta tutta la vita a difenderci dalla cecità. Ma poi anche: la notte dei grilli, gli stagni traboccanti di rane, la tentazione di ridurre il mondo vibrante delle particelle nelle braccia delle equazioni, la scommessa sulla radiazione di fondo e, per generare ancora il nostro futuro, il fiducioso confidare nella realtà della misurazione esatta del calore del tuo costante danzare. Un anno intero a vivere distesi sulla spiaggia dove le proteste sono le impronte dei gabbiani: c’è qualcuno ancora che si ferma al mattino di fronte all’umidità rimasta negli avvallamenti. La notte gli uccelli marini migrano sulla terra a raffiche: potremmo pensare che il sogno si genera -anch’esso- da una migrazione. Nel primo anno abbiamo il nomadismo senza erranza, aristocratico e superbo, delle popolazioni del deserto che non vanno a cercare altro mondo, e che, al contrario fondano loro stessi un mondo passando continuamente sempre accanto ai loro precedenti passi, ripercorrendo i margini della culla tiepida senza noia, nella espressione esatta del pensiero senza coscienza, lo sciopero della fame senza la morte per inedia. Via via che la ricorsività svela la vitalità che sfugge la coazione, coi loro passi ostinati scrivono la costituzione che accorda loro un paese abitabile: la realtà è che il mondo è definitivamente ai loro piedi. Raccontano che la sabbia sia piena di tracce, uno sciame di creature vibranti che migrano ogni notte mentre l’uomo e la donna padroneggiano il sonno profondo ricco di luce. Ecco dunque una ipotesi differente che prova a proporre che è, sarebbe, inarrestabile quanto comincia dalla calma potente delle lacrime agli occhi, un cielo subito sopra i tetti dei paesi e delle più vaste città di sabbia, la densità dei grigi da sapere senza averne preso coscienza, in quel mondo fatto delle tracce di mille braccia di donne e uomini nomadi mai dispersi, perché hanno sognato di non scegliere granello di sabbia da granello di sabbia. Il primo anno di vita, lo sciopero della fame senza morire, non è un andare erratico verso terre promesse: è il passo sicuro dei fondatori. Alle porte della nascita essere ‘umani’ è avere la vitalità che vince e saper porre in un canto – come si stesse ad armare una bisaccia col peso di infinite deglutizioni miste a sospiri – una smisurata conoscenza, il senza figura di tutto ciò che viene. Vorrei avere il tempo di indagare la condizione umana che si genera quando, alle soglia, cadde sulle nostre mani e sulle palpebre socchiuse la distesa inarrestabile del nome, che poi rimase, tutta la vita, uno dei modi più esaurienti per comporre tutto il discorso di sé, e l’etica di una origine non più occasionale, e la ricerca sugli inganni: ma anche il tempo ritmico dei suoni che al loro scomparire facevano un silenzio che chiamava e chiamava praticamente di continuo come fosse- forse lo era- il brusio indistinto della funzione specifica del sonno profondo.

L’immagine rimane come ‘nascita’ alla conclusione di ogni attività umana ad assicurare la vitalità della funzione del pensiero.

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