come un uomo che si desta


“In ginocchio alla casa di pietra con le gambe magre imbiancate di marmo e tu polvere dolce e nutriente. Oh vedi!! Pensieri. Un caffè adesso bevo. Adesso che la vita richiede mani ferme nelle quali l’aratura delle linee possa germogliare”.

Le mani e le ginocchia esclusivamente saltano all’attenzione della coscienza. Piove da dentro, dalle profondità nucleari, il pensiero. La coscienza è anch’essa endogena. L’attività cosciente è pensiero frammentario in blocchi lavici nero petrolio. Il pensiero scava sempre e scava soltanto. Non è mai esclusivamente corticale. Non ‘descrive’ mai, neanche quando sembra che descriva. Se capita che si resti con poco o quasi niente intorno, in piazzali e cortili circondati di poco o niente, quasi soli o del tutto soli, si vede bene la natura umana nella attività della biologia cerebrale che è una talpa che annusa e trova e fa la ricerca e rende sufficiente addirittura la miseria. Finché, dopo la crisi, grazie alla cura e al lavoro, si torna a pensare.

D’improvviso rimbalzano le pietre e sono le nostre spalle e il palmo delle nostre mani. L’aratura fa le linee: la vita, l’amore, la salute. Ho fatto il medico, posso intuire, almeno in generale, come avvenga che l’anestesista rianimatore riesce ad assicurare la sopravvivenza fornendo artificialmente respirazione, ossigenazione, idratazione, volemìa, filtrazione, nutrizione, omeostasi termica. L’ammalato, perduto nel ritmo bianco delle macchine, eccolo là! pallido da far paura. Le mani e le lacrime di infermieri e parenti scivolano quasi impotenti. ‘Nessuno’ accoglie la dolcezza di quelle carezze. Lui/lei si sono ritirati da qualche parte, e non è ‘dramma’ che essi siano senza coscienza. Ad essi manca altro e di più. Hanno perduto la funzione che consente il risveglio. Non diverrà sogno, di conseguenza, nessuno di quei giorni nel bianco e nel profumo di medicinali. Lei/lui sono privati del tempo neuro/chimico e bio/elettrico che nel tornare alla veglia diventa sempre sogno poi coscienza di sé. Quel ‘dormire’ attaccati a fili trasparenti d’aria, ai capillari plastificati, alle sonde per l’alimentazione…. non potrà dunque forse mai essere trasformato in nessuna ‘figura’. Lei/lui sono, a loro modo, un modo disdicevole e blasfemo, dio. Sottratti.

Le parole ‘in ginocchio alla casa di pietra’ sono fantasia/ricordo. La casa di pietra fu un uomo transitoriamente perduto -prima che tornasse contuso e ridente- dopo un trauma a causa di lesioni plurime. Forse una distrazione suicida e io che lo guardo che non si era potuto evitarlo. Ero piccolo. Lui adulto. Io dipendevo da lui, non viceversa. Nella mente dei ragazzini può crearsi confusione. Poi diventano bravi. Che nessuno sospetti il dolore. Dopo molti invidiano la conseguente facilità del linguaggio di quei ragazzini, e il loro riuscire a non tenere in alcun conto le aspettative altrui. Molti circondano di invidia infastidita l’inutilità di una ricerca sul pensiero a partire dall’ipotesi scientifica che esso abbia una origine esclusivamente materiale che poi attraversa vicissitudini umane.

Io so che dovevo soltanto affondare le mani nelle capigliature della letteratura e della scienza. Rafforzare la mano che sapessi poi tirar via il dolore malato. La casa di pietra è un uomo giovane bruno che respirava sotto le macerie delle lenzuola di ospedale. Io dovevo diventare poeta, meglio di niente. Ma non sufficiente. Devo essere rimasto pietrificato nell’atto psichico di entrare nella piramide con lui, per non restare solo. Ora, nel frattempo che trovo una paternità a certe formazioni lessicali, qualcuno dice “torno a pensare…” Posso tornare a pormi le domande del medico. Noi assistiamo respirazione, circolazione, alimentazione, idratazione, in chi è diventato altro da prima, per un trauma a causa di lesioni multiple. Noi medici creiamo le condizioni di supplenza per il tempo necessario, per periodi variabili, durante i quali l’esistenza di persone, che hanno subito gravi lesioni, non è proprio ‘vita’…. perché è biologia senza niente che permetta di realizzare -nella fattispecie di figure dei sogni- la coscienza della veglia. I corpi feriti restano immobili ma non è senza coscienza (come nel sonno).(*)

È buffo, ora so che la ‘casa di pietra’ è il corpo immobile disadorno e bianco del ferito grave. Al cospetto del trauma, non della malattia, sentii dire, per la prima volta, la parola che mi ha colpito per sempre: che mio padre era SENZA CONOSCENZA. Di coscienza nessuno parlò, sono certo. E comunque non era importante l’assenza di coscienza, per me che lo avevo visto tante volte dormire. Di fatto, ferito era -come sempre- bellissimo. Tanto non è nella coscienza la funzione che ci restituisce ….. la coscienza. Inginocchiato alla casa di pietra fu indispensabile, per non restare passivo come una vittima, sviluppare una comprensione della gravità di poter restare SENZA CONOSCENZA, come  loro avevano sapientemente detto diagnosticando la condizione clinica del ferito. Senza conoscenza restava bellissimo come nel sonno ma si trattava, potei capirlo benissimo anche io, di qualcosa di peggio. Qualcosa senza perché che era stata spinta con l’acceleratore oltre un certo limite. Era una alchimia fatale di proporzioni ignote di acciaio della macchina fracassata di sangue e di cotone di gran classe della sua giacca a quadrettini eleganti  marrone e beige. Per tutte quelle cose insieme egli non era uno che dorme e non ha la coscienza. Stava per morire  ..non sognava e per il momento non poteva svegliarsi.

Non è ininfluente che io possa aver pensato che mi stava tradendo. Non sapevo (non volevo sapere) che ci fosse una possibilità per i padri di non sognare. Non ne volevo sapere, perché i padri che non sognano sono i padri che non sognano i figli. Così fu fondato il mio estremismo: in quella sbrigativa trattativa d’amore e passione che troppo piccolo, e cioè quasi subito, intrattenni con gli ignoti amministratori delle regole della vita. Forse un po’ troppo presto mi fu imposta, dalle cose del mondo, quell’ipotesi malevola che divenne un sospetto. E c’è voluto un sacco di tempo per trasformare, come si è imparato a dire distinguendo le cose durante i ventinove anni di ricerca in psicoterapia, la coscienza in conoscenza. Senza coscienza è il sonno e il sogno. Senza conoscenza è una cosa diversissima, è esistenza che tiene lontana la vita. Se il ‘senza conoscenza’ avesse il movimento del corpo -che resta immobilizzato nel sarcofago delle lenzuola- sarebbe simile alla pazzia.

E così, dopo un tempo infinito, le parole della ricerca riportano, nel comportamento verbale, nel movimento delle labbra, nel rapido alternarsi delle dita sulla tastiera, il ricordo delle contrazioni toraciche di un ferito che respirava -assistito da demoni benefici col camice bianco-. La scrittura riproduce sulle righe dei fogli le onde del suo diaframma collegato ad un pallone da rugby abbastanza sgonfio e rammollito.

Vorrei riuscire a dire che i mostri non sono nell’inconscio, che la pazzia è perdita di conoscenza. C’è una bellezza che, a causa di un trauma invisibile derivato da lesioni multiple, sembra non sappiamo più risvegliare. È l’umanità residua di persone che hanno conservati intatti comportamento, coscienza, volontà e discernimento, che hanno la bellezza degli ‘automi’ che dormono senza sognare più perché forse portano la coscienza nel sonno.

nota (*): è senza conoscenza come nella pazzia….. ma non è pazzia perché, come nel sonno, c’è l’abolizione del movimento volontario. Ma il sonno non è pazzia perché nel sonno c’è possibilità di conoscenza inconscia. Questi restano i termini scientifici. Le linee della ricerca.

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Hamelin


Posted By on Feb 9, 2014

Hamelin, Bassa Sassonia, anno 1284. Un pifferaio, suonando, attira con sé, per poi precipitarli nel fiume, i topi che hanno invaso la città di Hamelin. Una volta ottenuto il risultato il borgomastro, d’accordo coi suoi concittadini, si rifiuta di pagare l’incantatore. Il quale, suonando, porta via, durante la messa domenicale, tutti i bambini della città. Secondo una versione della fiaba un ragazzino zoppo non subì la sorte di tutti gli altri perché non seppe stare al passo. Non ebbe possibilità di correre veloce per la seduzione che affascinò tutti fin nel ventre di una caverna dove sparirono…. per non tornare più. Ho sempre pensato alla ‘sorte’ triste di chi scampa la ‘sorte’ (altrettanto triste) della maggioranza statistica. Forse perché ne conosco molti che mi dicono di sentirsi ‘differenti’ -ma anche ‘zoppi’- …. comunque ‘ammalati’. Dubbiosi, sospettosi sui reali motivi della loro incapacità a stare al passo. Così della fiaba mi affascinò sempre, per una identificazione con la diversità e la minorità, lo zoppo. Non mi disperai mai per tutti gli altri che erano andati, come topi, a completare la vendetta di un mago sui genitori avidi e quieti. Quelli portati via dallo sdegno causato dalla irriconoscenza non mi fanno simpatia. Come condividessi lo sdegno. Come una vendetta per procura. O forse capivo che i ragazzini possono essere costretti a somigliare ai padri perpetuando il peggio loro (dei padri loro, dico) che diventa da quel punto senza paragoni, la norma loro. Così stavo con il ragazzino rimasto. Proprio solo non fui mai. Facevo appello ai figli del tempo che conoscono le veglie di stordimento di chi resta. Sessant’anni… I figli del tempo eccoli macchie di catrame sotto la chiglia della barca. Macchie di catrame su due poltrone. Inchiostro ripiegato su se stesso fa l’immagine che mi sono fatto di assetti differenti e affluenti. Tra le linee di 0.5 ‘non so che’…. come mostrano le preferenze del raggio dei pennelli un lunghissimo periodo di anni e il lento luminoso avanzare del buio dorato, un timbro di sicurezza. Alla parete figure di forme bollenti forse stelle dal cielo, o stringhe. Vortici marini lungo la Corrente del Golfo, e nel clima invernale si forma il disegno di una figura che piega la testa come uno che i sortilegi hanno trasformato in un uccello scuro legato alla vita aerea, alla prigionia dei rami e del vento, solo apparentemente libero e invece costretto, dalla leggerezza di una libertà superflua, ad una insopportabile inconsistenza. Racconta ed ha la veglia ma non del tutto la coscienza. L’inchiostro nero di cui è fatto comunque sfida i sogni perché è pensiero di uno che siede silenzioso e parla a intermittenza come nelle comunicazioni del telegrafo. Penso anche ad un orso di inchiostro: peso e potenza restano ignote. Ho disegnato me. Stare sempre così, quasi assolutamente immobile, non è propriamente umano: è una forma di malattia. Una limitazione, accettata e, forse, scelta, ma alla lunga non si sa neanche più. La coscienza escluderebbe il caso che lo si sia scelto per davvero, se non tranne per auspicio di prigionia meritata o paralisi che eviti altri errori. Controtransfert. Ecco. Lo zoppo. E poi, solo alla fine, leggo che lo zoppo, nella letteratura allegorica, è una figura di frontiera, una figura di mediazione tra regni contigui. Un interprete. Penso. E adesso, nella stanza, nell’ombra dorata degli anni, tutto sembra chiaro. Un cielo caramellato.

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