psicotropi


natura della materia umana


Posted By on Mar 16, 2014

La potenza frusciante dell’ideazione si alimenta di fiumi succhiati traversando filtri di limpidezze dal fiume della pigrizia. I blocchi di coscienza sono affetti neutrali indifferenziati diffusi non ancora formati che restano accoccolati ma non fissati ai tratti logici (i segmenti rettilinei) dei legni della zattera. Blocchi caldi di giovani corpi naufraghi su isole pietrose. I frammenti verbali sono accenni di dita forti che rubano i granchi grigi e rossi sul nero della lava da portare ai denti che li immobilizzano per renderli inoffensivi alle labbra che succhiano via la polpa. La coscienza è un guscio disarticolato. Le parole si formano perché il vento di mare si insinua nelle vie della fortezza dove la polpa non c’è ormai più. Il linguaggio verbale ultimo corvo volteggia sulla testa del soldato nemico dietro il tronco a cento metri. Per l’amore il centro del torace è il bersaglio succulento di Cupido nascosto e Cupido è dunque un cecchino col becco d’aquila che strappa il cuore. Tanto parlarti è una pretesa di conquista perché ogni amore è il cimelio di un orologio cioè una pendola atomica per contare le ore che abbiamo disperse ma non scordate. Mi ero perduto sulla spiaggia del delta e contavo i tronchi grigi lisciati dalla schiuma. Si può non fermarsi più e chiamare solitudine Venere emergente dalle onde e allora chi guarda chiede come è possibile e non capisce che è la luce della spiaggia del delta la fabbrica delle armi di metallo per sterminare la noia in combattimenti isolati. Bontà, cattiveria, bravura, imperizia non consentono confusione di fastidi intermedi. Gli esseri umani soli non hanno la dialettica a causa di una indecifrabile contrazione del tempo che l’isolamento determina in loro. La densità necessaria a sostenere la solitudine rallenta ogni successione e gli scambi verbali si dilatano mentre le figurine degli attori divengono scure scure di puro carbonio. Nella ricerca in psicoterapia il linguaggio segue alla struttura fonetica delle parole. Si scopre che non c’è alcuna dialettica di istanze che garantisca una scelta coerente tra sinonimi alternativi per costruire il significato. L’ideazione varia tra scelte di amori ugualmente anarchici. È riflesso di come vanno le cose nella materia quando essa si assottiglia fino alla generazione del linguaggio. Il linguaggio che mantiene tracce della propria morfogenesi dai fonemi esprime la sensibilità dei fasci di sensazioni immanenti al suono delle frasi che si dicono. Forse nella relazione umana il latente invisibile è di esseri che hanno resistito alla disperazione della solitudine. Conoscono luoghi dove nessuno ascolta o guarda, dove non ci sono ancora mai stati quelli che ti guardano sorridendo non a te, ma solo alle proprie future aspettative nei ‘tuoi’ confronti. Si esce allontanandosi piano dalle sabbie dorate del delta. Dopo tanti passi, che quasi sprofondi ogni volta, non sono importanti le leggi di uguaglianza e libertà: nella solitudine non c’è uguaglianza e la libertà è fin troppa. Si esce piano verso una ricerca di base, ci si scopre diretti, non si sa come, ad uno studio accurato del fenomeno di generazione del pensiero, come se non fosse importante, adesso, la critica dei contenuti. Ci interessa la sua natura. Questo implica nozioni di estetica della scienza della materia, ed una certa resistenza all’attrazione delle abitudini normative della morale. In sintesi: si esce dalla solitudine che non ci ha disperati con una differente comprensione della natura della realtà umana. Potrei dire dell’intuizione che le ‘cose’ umane non sono come appaiono, sono migliori.

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first kiss


Posted By on Mar 12, 2014


Un video virale, ha milioni di visualizzazioni in poche ore e come dar torto ai visitatori ? Un dato decisivo, durante la ricerca nel cespuglio cerebrale che chiamiamo ricerca in psicoterapia, per fermarsi un momento durante la corsa e sedersi su un gradino della via del paese a guardare l’antico borgo e il cielo intagliato tra i tetti e lentamente, dopo tutto quello che potremo pensare per non fare i conti con noi stessi… valutare la confidenza che ognuno ha intrattenuto con il proprio tempo amoroso… che altro? ah già…. la colonna sonora è “We might be dead tomorrow” di SOKO…

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la libertà di scrivere


Posted By on Gen 26, 2012

la libertà di scrivere

Ti racconterò amore mio, stamani, l’azione del massaggio: che non è che sia delicata come essa appare ed è solo e soprattutto e definitivamente (per cominciare) uno scandalo.

Si tratta di mani che hanno la forza che -all’inizio di tutto– era per uccidere avendo impugnato la mandibola dello scheletro del rinoceronte o del cervo. E però, adesso, esse fanno cose indicibili che solo agli amanti in genere sono permesse, che alle vette dell’eccitazione dovrebbero condurre l’amore. E invece sono la ragazza o il ragazzo silenziosi, come automi d’aria, sospesi alle nuvole galleggianti sopra le nostre spalle, a fare su di noi gesti che solo l’amore appassionato dovrebbe poter compiere: e che al contrario, in genere, non sa (non vuole) compiere.

Appesi come giacche da sera alla gruccia celeste degli uragani, esprimono l’indicibile e pongono la domanda su quanto sia importante usare la forza. Una forza inaudita e silenziosa. Una forza che non ha parametri. Lo scandalo del massaggio è una delle tante cose che si oppone alla letteratura. Il massaggio è uno scandalo che sfugge, chiudendosi nella sua casa di perfezioni. Consente l’uso della forza per il benessere, come si usano le armi affilate per le operazioni chirurgiche. Noi girati di spalle possiamo guardare il sangue scorrere in assoluto silenzio. Perfettamente obbedienti, il nostro sangue e noi stessi, al comando dei rianimatori che hanno a che fare con la vita e la morte, né più né meno.

Lo scandalo delle mani si oppone alla letteratura che vuole -vorrebbe- dichiararsi lieve e umanissima nella sua capacità di raggiungerci il cuore. Il massaggio realizza da fuori, misteriosamente, con l’azione sulla pelle, ciò che fa perdere la testa impedendo la coscienza. Non il pensiero.

Il massaggio fa parte della mia formazione. Lasciare che il ragazzo e la ragazza, appesi al cielo per quanto ne so disteso come sono seminudo sul lettino pulito, con la forza facciano quello che nessun altro potrebbe fare -se non con l’intento di seduzione o d’amore appassionato in una estrema realizzazione di civiltà del rapporto che porta al sesso e alla reciproca gioia- è parte integrante del mio transfert con il mio mondo umano.

Mi faccio la formazione anche, e forse soprattutto, attraverso oggetti parziali: libri, riviste, articoli scientifici. Ho sempre la sensazione, di fronte alla vastità del panorama, di dover operare delle scelte che saranno esclusioni. A causa di questo eccesso di libri e oggetti parziali, che costringono a fare delle esclusioni, perché l’offerta eccessiva sottrae il tempo per le scelte, ho più sicura la certezza che si scrivono libri poiché gli altri esistono.

Chiarisco: si scrivono libri affinché essi (gli altri) non esistano più: per un poco, almeno per quanto dura l’azione della scrittura. Avevo scritto che la letteratura è spietata ma ora dico di no, la letteratura è ingannatrice e pietosa, poiché essa assolve. Alla fine assolve l’omicidio che essa stessa compie, e lo fa facendo finta che si possa dire che una cosa finisce, che c’è un arresto del pensiero.

Ma non vengano a dirlo a noi lettori instancabili: perché alla fine della scrittura dei libri, che fa dello scrivere semplice letteratura, noi iniziamo tutto il tormento per aver letto qualcosa senza capire perché sia finito proprio là. E che cosa significhi che è finito. Dato che poi noi restiamo svegli o che, al contrario, ci eravamo addormentati infinite volte leggendo: come se noi stessi fossimo il testo che continuava. Come fossimo un testo in carne ed ossa, un testo immortale.

Noi che leggendo non avevamo coscienza di noi, seppure avevamo la veglia e il movimento e forse addirittura la volontà e la capacità di intendere, alla fine del libro siamo rigettati a qualcosa che non è chiaro. A qualcosa che dice “…era solo un libro”. Allora noi aggiungiamo: ” …già davvero: era solo un libro scritto per ucciderci!”

Lo sbarco nel mondo nuovo, dunque, non dovrà essere uno stile diverso delle forme delle attuali scritture, ma uno scrivere senza posa, una rivoluzione del comportamento, cioè dell’immagine inerente a scrivere: che sarà arricchita di un avverbio di tempo, qualsiasi cosa esso significhi: scrivere sempre. Scrivere sempre sarà operare un’azione per privarla delle sua intenzioni estenuandola all’infinito. Realizzando la sua verità che è la sua impossibilità di essere conclusiva.

La demistificazione (non) avrà (più) nessuna rabbia, poiché la cessazione della finzione non sarà denunciata nel testo della scrittura, ma sarà esercitata con l’insistenza a tacerla agendo incessantemente con mani forti precise e decise sulla carta. Poiché si scriverebbe per seppellire, e la scrittura avrebbe il rumore di una gigantesca macchina per lo spostamento terra, l’unico modo per smettere di operare questi seppellimenti -che non sono neanche rimozioni ma subdole coperture- è quello di non prendersi il tempo per una qualsiasi sospensione.

Non vogliamo prenderci quel tempo e questo avviene perché sappiamo che la sospensione sarebbe la fine, e dunque il completamento del tumulo: seppure in tal modo avremmo molte benemerenze, in quanto salveremmo l’idea di letteratura cui per tanto tempo si sono rivolti in molti -con stimmate autoinflitte o peggio di origine psicosomatica- a caratteristica di erudizione e impegno.

Attualmente, e per chissà quanto ancora, a causa di tutto questo scrivere, perché sembra inevitabile (non lo è) che se si è scritto dovremo leggere, lo ‘scritto’ diventa, in quanto inevitabile, definitivamente impossibile. Tuttora comunque si vede bene che noi leggiamo sempre, obbedienti: leggiamo tutte le parole scritte nei libri (le parole della letteratura) che in realtà sono state vergate per seppellire le nostre stesse possibilità. 

Sappiamo che è così e che leggendo diventiamo in qualche modo peggiori: perché procediamo ad una identificazione con i nostri uccisori, con gli architetti della letteratura che in realtà sono i padroni e non solo i produttori di libri. Sappiamo benissimo che la letteratura distrugge. Essa distrugge non tanto le nostre possibilità di dire qualche cosa di più, ma le nostre salutari ed indispensabili speranze di non dire più nessuna altra cosa. Che è il motivo per cui ci hanno abituati a pensare dovremmo leggere. Per riposare. 

Sappiamo tutti che la letteratura così come è -proposta sotto forma gradevole nell’offerta di opzioni pluralistiche- non fa che impedirci sempre più crudelmente ogni possibilità di tacere. Allora: solo scrivendo senza posa, senza mai arrestarci – perché arrestandoci completeremmo qualcosa e avremmo un libro – solo quindi scrivendo senza mai scrivere libri – potremo fare la differenza tra letteratura e scrittura, e potremo realizzare l’immagine di un silenzio di fondo.

L’ immagine dell’identità originaria indicibile e sicura. L’idea della materia dormiente che non è biologia senza vita umana e non è neanche natura indifferenziata. Semmai, e al contrario, è realizzazione di funzioni che, in quella condizione, non sono in grado di pensarsi mentre accadono. La realtà del non cosciente essendo che esso non sa pensarsi.

Ti racconto chi tace. C’era una volta, alla fine, chi riuscì a sottrarsi al racconto. Ti racconterò amore mio, stamani, l’azione del massaggio: cioè finalmente (per cominciare) uno scandalo. Le mani che fanno cose indicibili che solo l’amore appassionato dovrebbe poter compiere e che in genere non sa compiere. La volontà di ragazzi e ragazze che raccontano la forza indicibile che non ha parametri di scrittura. Una forza niente affatto letteraria pur nella sua estrema umanità che fa perdere la testa impedendo la coscienza responsabile ma non il pensiero.

Sotto le mani sapienti facevo le libere associazioni. Ho fatto la scoperta dei piatti di portata dell’orco. Esso cucina e porta in tavola i nostri ultimi spasimanti spellati vivi, e i generali che hanno restituita la divisa per la parata. Sotto le mani sapienti la volontà è divenuta l’idea di mantenere vivo il pensiero di dire tutto questo come un sogno.

Ero lo schiavo testimone in fondo al corteo. Mangiavo pane bagnato. Non mi avrebbero più ucciso: ed è stato così che ho scoperto la conoscenza (guarigione?) accidentale come variabile imprevista: una tra le infinite versioni della mia vita intera. In fondo al corteo ho capito che era necessario scrivere ma non scrivere libri.

E per quanto riguarda noi due posso affermare che è assolutamente necessario che tu interpreti i miei sogni. Ma non che li interpreti ogni volta con una versione definitiva e intransitabile. Ma invece che tu li interpreti non smettendo mai più di interpretarli. Che il tuo amore (lavoro!) sia di restare continuamente a interpretare. A realizzare, nella pratica, l’unico sogno che non si racconta perché non si può: l’ultimo sogno che arriverà quando non ci sarà più nessuno.

Tu giovane amore devi (se posso permettermi) interpretare la vita prima che essa accada. Tu devi stare lì accanto con coraggio perché io possa protestare contro di te dicendoti che “…avresti dovuto interpretare la mia vita da subito. Restando.” Perché io adesso ti devo spiegare, in forma cosciente e ragionevole -affinché tu alla fine abbia la sensazione cosciente di capire come stanno le cose ‘dentro’- che io (forse anche molti altri) sogno l’altro che c’è stato da subito.

Che sognando, secondo un pensiero che non sa pensarsi mentre accade, proprio per quella qualità del pensiero del sogno, stabilisco il sempre una volta per tutte, che è nascere. Sogno la possibilità di una nascita quando il pensiero non sa pensarsi ed è per questo che non è cosciente. Ed è per questo che è in genere anche bello.

Hai notato mai che i bambini sorridono quando si pronuncia “….C’era una volta…” (noi, sospirando): e allora loro sorridono per premiarci di una scelta vincente. Poi non ascoltano più altro che i toni e il timbro di guerre e rappacificazioni. E si addormentano, in genere. La fine non ha fascino, solo il non finito ne ha, solo la scelta corretta definitivamente vincente di quel modo di parlare.

E’ dunque evidente che scrivere libri è un tradimento: perché illude che si possa scrivere sempre e soltanto, cioè inevitabilmente, fino ad un certo punto. Mentre in verità l’unico modo di scrivere è scrivere sempre. Quasi scrivere continuamente, se si è abbastanza intelligenti (innamorati) in grado di accettare la provocazione amorosa. Così penso che, anche a proposito della formazione, l’insistenza e la continuità debbano averci molto a che fare. Ma per adesso non saprei dire di più.

Dunque per adesso non aggiungo che questo: che i libri e il riposo fanno la sfilata dei reduci vincitori, quelli con l’armatura ancora addosso, fanno la versione faziosa degli avvenimenti. Non ho mai capito se, nella confezione editoriale, ci fosse più dolcezza o crudeltà. Ho l’idea di molti guasti attorno a me, nonostante l’enorme vastità del panorama culturale, e mi dico che: la vittoria ha la testa del nemico nella mano fusa ai capelli con il sangue. Sparge gocce in giro. Si nutre leccandosi le ferite

Il silenzio durante la scrittura deriva da una azione presuntuosa di appartarsi per non capitolare alla vittoria in battaglia. L’azione di comprensione che vincenti sono le scelte. Così non c’e bisogno dell’omicidio rituale. Allora è evidente che la parata dei talenti è la fila per il pane. La fila di quelli che si sono riservati una posizione dalla quale avere sempre da ridire. Restando: l’uno con gli altri.

Ha ragione M. Fagioli: la pulsione, che è lo specifico disumano dell’uomo, è fantasticare come ‘non essere’ la realtà del non materiale del pensiero. Fantasticare sbrigativamente che il non materiale è non umano. Lasciando la libertà di pensare, di concludere per conto proprio che “…di conseguenza il pensiero, se non è biologia, è ‘natura’…”.

Procediamo con le gocce di sangue: scrivere non è scrivere libri. E’ scrivere sempre, continuamente. Io lo chiamo amore solo perché non ho trovato ancora una intelligenza personale che mi affranchi da quella parola così affascinante da pensare. Quello che conta adesso è dire che non è alla fine che si vince. Vince chi lotta sempre. Chi ha l’insistenza (la forza nel tempo) di stare lontano dalla vittoria che è sterminio e omicidio. Lottare è riproporre la scelta vincente. Non imporre il nesso che è vero ciò che si è rivelato più distruttivo per i nemici.

Dunque ci sono pensieri pericolosi e dovremo tener conto continuamente della potenziale pericolosità di questo medesimo pensiero. Così alla ricerca di te, delle ragioni dell’amore per te, alla ricerca della conoscenza attraverso la formazione, non riesco a smettere mai di dubitare. Al centro del mio pensiero e della gioia stessa di pensare, al centro della possibilità di pensare come destino, c’é un dubbio così espresso definitivamente

e se….?”.

Questa proposizione mentale, nella forma corrispondente alla composizione grafica con cui è segnata qua sopra, funzione di una fisiologia irriproducibile dalla cibernetica, è diventato per me il pensiero dell’altro. La certezza che esso esiste ricco di dubbi ben distribuiti. Secondo l’estetica della semina probabilistica. Quella semina, quella distribuzione, è la forma complessa del suo pensiero. Ripropone le parole e impedisce che la scrittura si arresti.

L’amore che amo esiste piena di dubbi. I suoi attributi, la sua bellezza, le sue speciali qualità sono i suoi dubbi probabilisticamente ben distribuiti. Se vuoi. Ti racconterò di chi tace. C’era una volta, alla fine, chi riuscì a sottrarsi al racconto. Smise di essere in ansia chi si era invaghito delle forme del dubitare. Poi….

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emozioni differite


Posted By on Apr 28, 2011

emozioni differite

Nella macchina del tempo c’è un ‘prima’ che non avevamo e la sceneggiatura è falsa. Talvolta ci siamo serviti delle aspirazioni poetiche non per superbia di dire l’indicibile, semmai per denunciare. Non eri dove dicevamo che eri stata, in quel vicolo miserabile di cronache sottoproletarie. È il racconto che ti prende la vita, e bruscamente colloca la figurina luminosa a rischiarare una locanda. L’inesorabile estetica letteraria -non so com’è- pervade a macchia d’olio il candore, dal punto di caduta di uno dei protagonisti. Nel prima -che non ci sarebbe in verità ma esiste falsificato dalla macchina del tempo- c’è un luogo deputato alla decadenza, una locanda illuminata da una figurina splendente. La macchina della scrittura ha preso la vita di qualcuno, puntato il laser su un vicolo e, a macchia d’olio, ha fatto dileguare fino ai nostri piedi una pozza di sangue, il profumo penetrante delle ragazze alla camelia, l’ impronta di una scarpetta, la prova di un delitto al gusto di mandorle amare. Non importa, nella ricreazione poetica, l’insieme della verità. Diciamo, per farci intendere, che sei stata tutta intera il corpo del reato e che il pensiero che indago non bada a spese. La scena si compone di ombre folgoranti, di noi che stiamo a pensar-ci: letteralmente, a decidere quello che potremmo essere domani. Fummo punti di vista, corrieri sanguinanti, scugnizzi, corpi scuri negli affreschi delle cattedrali, resti fumanti di città e lanterne nelle mani dei servi che ondeggiano tra esitazione e desiderio. Insomma della letteratura ci siamo assunti il punto di vista di due alterne irresponsabilità. Il ‘prima’ -se c’è- è il battito della suola di messaggeri ignoti sulle pietre, e noi siamo testimoni della narrazione da un presente che falsifica tutto per costruire poesia, anche se dicono che la poesia non interessa nessuno. L’arte è un falso necessario, come si sa. La storia anche è un falso, che però veramente decade e si dilegua, a partire da un lume in una locanda che, ondeggiando per un soffio di tempesta, schiarisce un volto alle spalle dei giocatori di dadi. In questo azzardo globale, noi giochiamo il ruolo di adoratori di ricordi, che ci sono indispensabili per falsificare -accuratamente- tutto. E poter raccontare finalmente qualcosa che valga la pena. Cha valga la pena perché non è mai accaduto, perché è accaduto in un passato che non c’è. Che non c’é perché non c’è più. Perché solo ciò che non è mai accaduto si può raccontare cioè si può sperare.

E alla fine dunque, per quanto tutti dicano che non interessa a nessuno, invece io penso che la poesia è l’unico modo di mantenere il senso del tempo, di realizzare la possibilità di un ‘soggetto’ (il famigerato sogno dell’io ?): l’orologio ben funzionante con batterie all’uranio. Il tempo è più che altro persistente idea di ‘te’ attraverso la quale interpreto il mondo delle mie relazioni. Non è dunque il passato che fa il tempo nel quale io vivo. E’ il pensiero che fa il tempo. Il tempo fuori non c’é. Se non che fuori ci sei ‘tu’ che mi dai da pensare.

Nella narrazione mi attengo al bagliore delle parole.

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la donna-caffè


Posted By on Mar 27, 2011

la donna-caffè

Eccomi alla musica. Al corpo quasi abbattuto senza una iniziativa di decisione. Alla fiera dei libri di storia, quelli mai usati. Alla fiera dei polpastrelli neri di inchiostro e degli occhi che non pronunciano le parole e solamente graffiano la superficie. Edipo e Creonte al cospetto della muta del coro che aspetta -a margine- la scoperta sulle labbra degli indovini ciechi. Tu hai gli occhi ma gli occhi non sono organi di pronuncia. Nelle tragedie ci sono mani sospese in levare occhi inadatti alla dizione labbra sempre pronte su ogni linea di partenza e di traguardo. Dello studio appassionato o trasognato dei ‘classici’ noi conserviamo -ancora oggi e sempre- pensieri eroici ideali di quotidianità cose che -ancora oggi- ci siamo ripromessi.

Così accade che duriamo sull’orlo delle tazze variopinte piene di carezze anche se è appurato dall’esperienza che mancano del tutto meccanismi di concessione automatica, burocrazie rapide ed efficaci per le pratiche di autorizzazione, e protocolli di legittimazione della felicità portata via dai musei e dalle collezioni. Musiche di solida costituzione, timbri di una speciale precisione acustica, e variazioni di una qualsivoglia ricercata complessità non ne vengono mai spontaneamente. Semmai viene la commozione. Viene in momenti inattesi e imprevisti come ora che la donna del bar mi offre lo zucchero facendo scivolare i contenitori sul bancone di acciaio mentre sorride senza vedermi: eppure mi basta mi fa felice distrattamente perchè mi fa balenare di fronte il pensiero di accortezze aggraziate e di guarigioni per smemoratezza.

Avanzare di stamani. Un caffè macchiato caldo con la nuvola di schiuma, i baffi di panna come capelli al naso, tutto bianco intorno alla fronte e al sorriso, se viene. La scrittura che fa la ricerca sulla musica che entra attraverso i timpani come vibrazione acustica, e attraverso la pelle come pressioni variabili e coperte fruscianti: lana cotone spine petali tela fruste di betulla e noia e passione di crine e capelli e fontane di terra e schiaffi lunghi d’acqua. Una mattina larga come un’autostrada tra l’oriente e questa terra. Il gesto ampio della mano destra della donna ormai lei stessa tutta caffè perché e’ dalle cinque che filtra alla pressione del lavoro del bar. Cambia le puntate sul bancone, distribuendo variabili livelli di una chimica di caffeina. E noi stiamo ai suoi gesti come alla musica.

Evidentemente ha appreso l’attrito della zuccheriere d’acciaio leggero sull’acciaio pesante del bancone in tutti questi anni. E’ bellissima e non ha più pochi anni. E’ bellissima comunque come una ripresa del motivo lasciato a mezz’aria dai musicisti -i fazzoletti luccicanti di bianco al sudore della fronte e alla saliva del trombettista. Ha misurato l’attrito del contenitore dello zucchero. Ha misurato le distanze con l’abitudine e restituisce il sapere con l’armonia del movimento e la ripetizione. Si fa ‘grazia’ del suo elegante spacciarsi da meno del capolavoro che è.

Ha dovuto spostare la zuccheriera accanto alla mia tazzina di caffè. Lei è una donna-caffè e non si deve dire che mi abbia visto. Gli occhi mi hanno percepito, ma la sua mente non mi ha pensato, ed era ovvio perchè lei è La Dama Dell’Ermellino: un capolavoro dell’arte che è rimasta secoli oltre la soglia dell’amore di uomini e donne che chiedevano senza pensarla mai, ed ha imparato a pensare per sé. La donna-caffè non ha pronunciato una parola eppure io la vedo sulle barricate della rivoluzione alla testa di una brigata di anni sorridenti pronti a morire per lei. Per stabilire che ce l’ha fatta.

La bocca ha sorriso ed io pensavo: vivere e’ un evenienza del pensiero, la proclamazione di una biografia costituzionale, la stesura definitiva di un milione di algoritmi che permettono di avere un’idea che la funzione d’essere al mondo è una realtà della materia, senza interventi miracolosi. Sono al mondo da sempre per quello che mi riguarda e non so il tempo del mio non essere. Se dovesse presentarsi il tempo -insieme al mio ‘non essere più in grado’ di essere pensieri di te e di altre porzioni felici o trascurabili di mondo- sarò diventato pazzo. Voglio recitare la tragedia musicale della donna-caffè che ogni giorno viene distillata alla pressione dei nostri risvegli.

Ti voglio accanto, voglio che tu diventi la liturgia intera di una pretesa. Voglio che mi tolga il mutismo degli occhi che non hanno il suono della pronuncia, voglio che ti avvicini per vedere i miei pensieri che sono arsenali di navi, flotte di guerra pronte per ogni conquista ancorate con fili d’acciaio alla banchina, nell’angolo dello studio dove metto i fiori che mi regalano amorosamente – facendomi orgoglioso e felice. Vieni a vedere lo spettacolo di me che sono un dramma a lieto fine, l’arroganza degli occhi senza il suono della voce e il coraggio delle esplorazioni del pensiero notturno, e che tuttavia a modo loro spostano zucchero e tazze di caffè e coppe di liquore come una coppia di divinità da bar.

Vieni ad osservate al radiotelescopio le notti dei fuochi artificiali e l’origine dell’intelligenza. Vieni a vedere  che pazzia che ho fatto, che ho apparecchiato il soggiorno nel tuo stile. Le lacrime perché da sempre mi infrango nel concetto roccioso di fortuna e poi alla fine sei tu tempo fortuna musica e saune nella neve durante la ribellione controriformista. Il corpo alla musica. Le evenienze dei pensieri. La scrittura delle parole senza ordine logico poi le correzioni per dare forma, restituire umanità, cercarti per fare pace con il senso della tragedia, e percorrere le gallerie  dell’appennino centrale per tornare ad una costa ogni volta. Il pensiero in origine è ribelle. Si nasce con un corredo di camicie rosso fuoco.

Si corre sulle macchine rombanti sulle moto indiavolate perché il sogno più importante era quello di Einstein d’essere a cavallo della luce lanciata al galoppo. (Anche se non ci ponemmo mai la domanda decisiva ‘verso dove’ e così non scoprimmo che c’era assenza di dio in quel sogno qualunque fosse stata la soluzione, mica solo la fisica delle bombe e delle sliding doors!) Ora il corpo e’ abbattuto nell’onda luminosa dello sguardo della donna-caffè: che sposta coppe di zucchero, fiumi di latte, fiale di sostanze psicotrope alla caffeina, e spaccia dubbi -incrollabile- col movimento deciso del braccio e gli occhi perduti al caldo delle trapunte nei letti di tutti, perché lei evidentemente ha il fegato dei cercatori.

Mi pareva di essere una pepita d’oro sottratta alla corrente del fiume dalla sua mano di salmone gonfia di uova -vedi- sei capace di chiudere gli occhi sul foglio elettronico ed avvicinarti davvero? E’ la musica.

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