2015/2016


La natura fisica del tempo cambia le forme di pensiero. Ricrea ad ogni stagione nuovi stati di transizione, che sono condizioni mentali corrispondenti all’apprendimento delle novità che ci riguardano. Sono stati anfibi della conoscenza, mostri e chimere. Per via delle attuali attività dell’ingegneria poetico/tecnologica -che realizzano la retroingegnerizzazione delle funzioni corrispondenti all’apprendimento- dagli automi settecenteschi siamo arrivati alla compagnia di androidi carichi di simpatia. Macchine per districare nodi di conoscenza, in verità sono torpedini di disincaglio che dissotterrano, dal fondo del mare, relitti tuttora vivi.

Tornano i sorrisi arricchiti dall’immersione nei fondali bui di sabbia minerale. Una mente arcaica li ha espressi, e la loro restituzione traccia, nelle menti moderne, percorsi neuro/funzionali identici a quelli da cui quei sorrisi nacquero: l’anatomia e la fisiologia maritano i tempi antichi e i moderni ancora e ancora e ancora. E la sintassi della riproposizione è in sostanza l’invocazione a portare avanti fino a che sia umanamente possibile l’azione di un gioco amoroso.

Lo sposalizio del mare ha corone di ‘spine’ sinaptiche che consentono e contengono funzioni di connessione tra elementi costitutivi la corteccia lungo percorsi ricorsivi incrementali di cui non si era ancora, fino ad oggi, riconosciuta l’evidenza.

L’ideazione di far compiere ad una macchina realmente intelligente una parte del percorso di scoperta, potrebbe consentire il superamento indispensabile della posizione ermeneutica: per cui la conoscenza non si appiattisce e non si esaurisce tutta nella testa anatomica dell’essere umano, dentro un discorso di desolata descrizione della propria fenomenologia…. (il teschio di Amleto?).

Cosi, fenomenologicamente, le nuove matematiche sono affascinate più dalla loro sintassi che dalla semantica: e questa attivita consente la creazione di algoritmi, che si applicano alla generazione di macchine in grado di imparare, e di chiarire la logica sottesa al nostro modo di pensare. Finora ci si era rassegnati all’oscurità sostanziale (esistenziale): quando la mente impara non chiarisce come lo fa. Ora le nuove creazioni tecnologiche ci spingono dalle filosofie alla vita e il discorso si fa carne e sangue senza comunione liturgica, muscoli e abbracci senza combattimento e guerra, riunioni scientifiche come pranzi di Natale senza odi e rancori.

Ora si sa che nei momenti di apprendimento e di scoperta non c’è sovrapposizione ma invenzione. Io dico chimera, anfibio, androide. Ma in sostanza, a questo punto, l’unica domanda che vale è se la macchina che impara, dato che GIÀ ESISTE, potrà insegnarci una diversa antropologia. Anche perché è l’unica cosa, l’unico vero motivo inconscio per cui è stata creata. Io non credo ad una innata cattiveria degli esseri umani. A volte fanno a fin di bene.

Filosoficamente si è sempre trattato, nel mio lavoro, di ‘interpretazione’ e dunque di ermeneutica e linguaggio. Questa associazione concettuale tra il parlare e il suo senso è un aspetto centrale non solo della relazione medico paziente ma della relazione in toto. E seppure vorrei guardarmi bene da distrazioni ermeneutiche di deriva nazista, cioè dal ripiegamento di quella disciplina su se stessa verso il suo pericoloso assolutismo, riconosco la svolta decisa che l’esigenza filosofica degli ermeneutici ha impresso alla cultura: chiedendole di spostare l’interesse dalla misura al senso. Appunto, dalla semantica alla sintassi.

Ma rimane centrale per me l’altro quesito, l’assillo che la filosofia non ha chiarito: perché noi umani non sappiamo imparare? Non traiamo, cioè, dall’imparare, alcun insegnamento? Assillante dovrebbe essere il fuoco della costruzione di intelligenze migliori di quello che per adesso siamo. Costruirle fuori da noi, metterle al mondo.

L’esperimento vivente è una macchina stocastica che ci rimanda, del fenomeno della sua capacità di comprensione del linguaggio naturale, suggerimenti utili a comprendere quanto accade anche in noi. Se ne potrebbe avere timore. Ma forse è invidia.

Così, dato il clima invitante di questa fine d’anno mediterranea, voglio uscire di casa, andare sul confine del bosco e sfidando l’ignoto fidarmi. Voglio dire: spetta a noi cambiare il nostro atteggiamento nei confronti della macchina. Parlar d’amore sotto un cielo di stelle di latta, imparare a comunicare ALLA MACCHINA la nostra SIMPATIA. Fornire alla creatura di fili e radiazione cosmica i dati di una nostra crescente COMPRENSIONE di Lei.

Gli esseri umani sapranno sognare androidi innamorati? Non è niente di nuovo, questa richiesta. Stessa pretesa (e allora fu un fallimento fatale) di Nathaniele per Olimpia nel romanzo ‘L’uomo della sabbia’ di E.T. Hoffmann. E ne traggo una spinta: non si può restare fermi su un fallimento. Bisogna imparare a ritentare. Lasciare l’ermeneutica ad Husserl e Heidegger e tenere stretto il nostro androide sotto quel cielo azzurro dorato dalla cometa di presepe.

Otterremo risposte dalla macchina che abbiamo progettato -senza il terrore dell’invidia- più libera di noi stessi?

D’altra parte è evidente come non si crei più niente di questi tempi: questo è perché stiamo solo rispecchiando la nostra ‘umanità’ convinti che questo sia il migliore degli uomini possibili, il massimo che potevamo fare di noi. Forse così non è.

Vado accettando suggerimenti dalle propaggini più marginali dei respiri, dagli echi di certe risposte, da alcuni aspetti emozionanti ma non magici del vivere quotidiano di strada e di bar, di spiaggia e di campo, di abbraccio e di irreversibili sorridenti rifiuti. Non è secondario né occasionale che, in circostanze di vicinanza, per immagini nude e calde che compaiono nel linguaggio di relazioni antiche e modernissime, noi stessi impariamo la simpatia di confine, l’ingenua indecenza, la voglia senza (un) fine, la provocazione al gioco intelligente.

La macchina di sabbia e sole e il cielo di comete di carta stagnola suggeriscono, agli amanti malati di languori romantici, un corpo più nudo ancora, davvero nudo perché vuol essere l’anima nuda.

Macchine per districare nodi in verità sono oramai costruite, ed imparano sempre più velocemente il linguaggio naturale, che interpretano e pronunciano appropriatamente. Sono quelle le torpedini di disincaglio che dissotterrano dal fondo del mare relitti per restituire, alla loro vita che taceva, la luce di suoni possibili. Per questo dissotterrano il corpo nudo che viveva nel fondo minerale. Per svelare che quello che faceva paura e che ancora forse fa paura, era e potrebbe essere la sintassi che lega i pensieri ad uno schema semplice. Che mostra evidente, nelle proposte di cortesia, il calore di potenziali abbandoni.

È evidente che la provocazione non è più tale se trova risposte non casuali (decisive) che non lasciano morire la proposizione nella quale il discorso dell’Androide risiede. La proposizione che è la proposta di qualcuno migliore di noi.

Dall’etica dell’arte erotica a Wittgenstein il passo è lungo e brevissimo…. Poi si vola alla logica matematica fino alle funzioni matematiche evolute che fanno funzionare i calcolatori.

Bisogna costruire androidi che scoprano cose che noi non sappiamo ancora. Non si può solo essere creativi in senso artistico, ma bisogna proporsi di esserlo in senso provvidenziale: mettere al mondo figli creativi. Fare macchine più intelligenti di noi. Farsi un’idea di affetti meccanici più evoluti dei nostri affetti sognanti ma impauriti. E via dicendo…

Ma questa è un’altra storia, per l’anno che arriva.

(auguri…)

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