musica


isterismo magniloquente


Posted By on Giu 7, 2012

< Nell’esposizione universale del 1889, Debussy ha la possibilità di sentire dal vivo, a Parigi, musica javanese, musica russa, teatro annamita, cioè ha la possibilità di entrate direttamente in contatto con culture extraeuropee, e Debussy resta folgorato, resta sbalordito da questa esperienza (…..) Queste musiche per tutto l’Ottocento erano state considerate semplicemente bizzarre o primitive. Le citazioni di musica extraeuropea nel corso dell’Ottocento sono quasi sempre: o coloristiche, “I Pescatori di Perle” di Bizet , per esempio – o altrimenti sono addirittura sarcastiche, satiriche, grottesche. Rossini scrive un pezzo per pianoforte, lo chiama “L’Amore a Pechino” ebbene, questo pezzo è basato su una scala che non è affatto la scala cinese, è solo una scala ‘strana’ … ‘non tonale’. Nel corso dell’Ottocento ‘extraeuropeo’ voleva dire curioso, bizzarro, grottesco. Debussy è il primo compositore per cui invece ‘extraeuropeo’ significa qualcosa di più. Debussy scriverà, una quindicina di anni più tardi, parlando delle musiche che lui aveva sentito nell’esposizione universale del 1889 a Parigi. Egli parlerà dei “…piccoli graziosi popoli che apprendono la musica così semplicemente come si impara a respirare. Il loro conservatorio è il ritmo eterno del mare. Il vento attraverso le foglie. Mille altri piccoli rumori che essi ascoltano con cura senza mai gettare uno sguardo in trattati arbitrari”. Vediamo questa polemica contro la tecnica, la polemica contro la ‘scuola’, che è una cosa che Debussy porterà avanti per tutta la vita: ” e tuttavia -dice, parlando del gamelan (che sono incredibili orchestre di metallofoni di una complessità straordinaria) – “la musica giavanese si serve di un contrappunto di fronte al quale quello del Palestrina sembra un gioco da ragazzi… E se uno riesce ad ascoltare senza pregiudizi europei la magia delle loro percussioni è obbligato a constatare che la nostra musica non è altro che un rumore barbaro da circoli di periferia”. Debussy è uno dei musicisti di cui è più difficile parlare in assoluto, perché Debussy è uno dei grandi innovatori della storia della musica. E’ uno di quei musicisti che decide di rinnovare il linguaggio musicale, di cambiare le carte in tavola. Pochi prima di lui, e pochissimi dopo di lui, hanno compiuto la stessa operazione. Viene in mente forse Claudio Monteverdi, per certi versi Haydn, Beethoven, e poi Mussorgsky abbastanza isolato che decide di lavorare su un suo percorso, e poi qualche contemporaneo di Debussy. Ma Debussy decide che le caratteristiche del linguaggio musicale così come si sono affermate, così come la sua epoca le porta avanti, vadano invece discusse, vadano invece cambiate. Perché succede questo? Il contesto in cui cresce il giovane Debussy è il wagnerismo. Il contesto musicale a cui Debussy ad un certo punto decide di contrapporsi è la musica di Wagner, che era il gigante incontrastato di quell’epoca. Debussy fu un grande wagnerista. Conosceva a memoria l’intera partitura del ‘Tristano e Isotta’. A Roma a Villa Medici vinse una scommessa con degli amici musicisti riuscendo a suonare a memoria la partitura a partire da un punto qualunque preso a caso. Quindi probabilmente Wagner è il nostro punto di partenza se vogliamo capire a cosa si opponesse Debussy nella sua ricerca di un altro linguaggio musicale. E perché decide di ripartire da capo rispetto a questo linguaggio. Prendiamo una delle opere più importanti di Wagner, il “Tristano e Isotta”. Esemplarmente si ascolta lì quella caratteristica per cui la musica di Wagner non si ferma mai, non si riposa, ossia c’è questo senso di movimento, di irrequietezza, di non stabilità della musica e naturalmente questo ha a che vedere con la poetica musicale di Wagner, con la storia del Tristano, con il filtro d’amore, con questo rovello interiore, quindi è una musica che ha una profondità psicologica forte, poi naturalmente qui parliamo di teatro musicale, quindi già il preludio rappresenta alcune delle tensioni e delle passioni dei personaggi, ma la sostanza è che questo modo di procedere trasformando continuamente senza dare un punto di riposo alla musica in questo continuo divenire è raggiunto attraverso una tecnica di sempre uguali gruppi di elementi che si succedono. E’ proprio questa dinamicità estrema della musica, questo continuamente portare avanti il discorso senza mai farci riposare, senza mai darci stabilità, che naturalmente viene dalla tradizione mitteleuropea (Beethoven che Wagner prende sviluppa e porta avanti ad un punto estremo) …bene Debussy, parlando della musica di Wagner, di questa musica insomma, ad un certo punto dirà: ‘Questo è un isterismo magniloquente’…> Giovanni Bietti – Podcast: LEZIONI DI MUSICA del 14/04/2012 – C. Debussy: La mer et son rythme innombrable. Si trova intero su Rai.it 

Da tempo ormai -esattamente: dal settembre del 2010 seguito ad una estate caldissima, che avevamo fatto arbitrariamente precedere dalla lettura di tre brevi testi d’amore nel vecchio studio grande torrido e appena sempre un poco troppo invaso dal polline delle piante alte del giardino sottostante – l’interesse per l’attività di conoscenza attraverso il linguaggio si è fatto impegnativo e pervasivo. Il nostro arbitrio era stato amarci a vicenda, eleggerci a signori vanitosi di noi stessi e ad eventi atmosferici, terremoti, creatori, disingannatori, artisti, mentitori, e scienziati.

……

I punti sospesi sono le parole d’amore del luglio del 2010 tanto odiato perché era risultato evidente che anni di lavoro potevano sciogliersi nelle bollicine di anidride carbonica delle aranciate e della coca cola e dare inspiegabilmente alla testa. La ricerca della cura possibile della malattia dell’attività mentale, in assenza di lesione organica, si sciolse in tre sabati di luglio, ogni volta circa tre ore, in cui le persone restavano sole nella grande stanza piena di polline e polvere perché non mi curavo di toglierla troppo spesso tanto la pulizia restava una grande estensione di libri appoggiati a terra che coprivano quasi tutto il pavimento della stanza costringendo a guardare dove si mettevano i piedi là, dentro quel gran caldo. 

Venne l’odio per l’affetto, e il terrore per le possibilità che uomini e donne potessero sussurrare certe parole senza paura. Venne l’odio per le labbra rosse e per gli occhi nerissimi e per la pelle d’oro. Vennero le matrigne e gli specchi magici. Qualcuno ripropose ad altri il dubbio terroristico e la paura, senza che io sapessi chi poteva essere. Senza che io chiedessi chi fosse stato. Il dolore non rese niente affatto difficile fermare tutto quello che, se non fermato, sarebbe tornato a determinare la malattia nelle ore della ricerca della cura. Però le cose scritte e poi lette, volta per volta alla fine delle ore in cui regnava l’arbitrio delle evidenti simpatie, restarono scritte sui fogli. 

Tutta l’estate. Non era la prima volta che succedeva che l’odio e la rabbia avessero impedito di lasciarsi andare. Le cose restavano. L’arbitrio, la mia decisione arbitraria, era sempre stata, in precedenti occasioni, la determinazione personale di non arrivare a consentirmi ulteriore espressione del dolore personale che, tanto, poi, alla fine, si trasformava e diventava pensiero verbale cosciente in forma definitiva di parole che dicevano gli avvenimenti della dinamica del rapporto medico paziente utili alla analisi del transfert e più ancora a delimitare l’esattezza delle precisazioni per la ricerca della cura. 

Ma nel luglio di due anni fa certe cose erano oramai già scritte: solo non lette a voce alta tra i corpi accaldati delle ragazze e dei ragazzi che venivano a sorridere nella grande stanza come inebetiti dall’inusuale e dall’inutile del benessere e dell’esposizione della loro bellezza, della pelle lucente dei loro visi e delle braccia scoperte per il grande calore. Erano ormai già scritte le cose accadute nei giorni di luglio e scritte sui fogli erano, seppure narrazioni di un immediato ‘passato’, esatte come predizioni. Stavolta la rabbia e il terrorismo non avevano incenerito le cose pensate, e riversate senza pensare sui fogli. Ed era come se un processo di guarigione dal terrore e dal ricatto fosse iniziato. 

Nella attività mentale era cambiato qualcosa. Pensavo con chiarezza che in assenza della lesione organica corrispondente alla malattia della mente, quando si tratta di fare diagnosi medica e prognosi e poi attività di cura della malattia, c’è l’unica possibilità della sensibilità e dell’esperienza professionale acquisita per legare l’alterazione del pensiero ad una specifica alterazione di una altrettanto appena percepibile, intuibile, avvertibile con i sensi ben esercitati, funzione generale della fisica della materia cerebrale. Anche  inebetito dalla violenza della rabbia che aveva violentato la sessualità nel luglio 2010 mantenevo l’immagine delle persone che avevano sfidato il caldo torrido per radunarsi sul pavimento di cioccolata e baciarsi all’arrivo e alla partenza.

Le guance spalmate di aranciata, the freddo, caffè bollente e altre bevande alla vitamina confezionate per fondere i profumi di persone che si erano fatte per un fuggevole momento oggetti all’amore di tutti. Si poteva cogliere il sistema chimico di produzione e di preparazione della crema solare al sapore di conoscenza, nella vicinanza fisica di quella gradevole promiscuità assolutamente casta. Nel clima torrido la stanza era una foresta pluviale. Le parole si scioglievano come burro e zucchero sulla pelle delle persone accaldate. Avevo colto queste cose e come conseguenza esse erano state immediatamente scritte (come adesso ogni volta) e rimanevano scritte. Erano diventate le parole da dire. 

Così anche se trascorse l’agosto in silenzio il settembre non restò vuoto e il dialogo si riversò sulle pagine del blog. Leggere e scrivere. Pensiero, fisica, realtà, materia. Il luglio del 2010 era stato un evento imprevedibile: perché nell’ambito di quei pomeriggi -che potremmo dire siano stati semplicemente tre ore nel caldo torrido di tre fine settimana- c’era stata la bellezza la perplessità dei ragazzi e lo stupore. Sulle scale si arrampicavano fino alla stanza in alto delle differenze tanto profonde da offrire l’amore per anni di ricerca. “Il rapporto ha un effetto sullo stato fisico della materia, cioè il rapporto compie una azione che cambia la fisica della realtà materiale alla base della funzione cerebrale del pensiero”. 

Pensiero fisica realtà e materia cominciano oggi a ritrovarsi fare il girotondo e cantare. Come fossero le cose informi della natura. La fisica del pensiero che si lega al suono della musica di Debussy che vuole lottare contro l’arbitrio dei trattati musicali, che si scaglia addirittura contro le innovazioni di Beethoven, e perfino contro l’innovazione di Wagner. Questo è lo studio di adesso. Le onde il mare i blocchi della musica che perde la fiducia assoluta nella narrazione melodica le difficoltà degli accordi il pensiero profondo dei geni. Debussy. “La mer”. Così suddiviso:

De l’aube à midi sur la mer (si minore) (molto lento) 

Jeux de vagues (do diesis minore) (allegro)

Dialogue du vent et de la mer (do diesis minore) (animato e tumultuoso)

(nota: la foto si trova qui)

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l’amore per un uomo (*)


Posted By on Giu 29, 2011

 

 

 

 

 

 

 

l’amore per un uomo (*)

si può e deve parlare dell’essere costantemente, ripropositivamente, con appassionata passionalità annullato allora se ne dirà accenni più che altro per entrare in relazione attraverso fessure nel muro della grotta e la libertà si scopre come oscillazione come mani ardenti ‘… poi saprai !! ‘ come parole al bambino come promesse quando mi regalavi il tempo eterno perché la promessa è padronanza di tutto, impossessamento illegittimo dell’eternità: ora ti domando se quella promessa che si impossessa del regno ai nostri piedi è musica.

volevi sapere come potevo avere un mio posto nel confuso protendere la mano oltre la frontiera di filo spinato: il luogo sta appeso al filo dell’alta tensione, come una camicia bianca, un lenzuolo lavato disteso sognante che nacque nella mente e si imporporava e adesso ti chiedo se la musica era già tutta contenuta nell’immagine di cui adesso si potrebbe parlare a patto che si sappia dell’odio: altrimenti…. l’amore senza conoscenza ammala.

più che altro ti chiedo della miseria dalla quale la bellezza ci illude di distrarci: al cospetto della luna bruciante, al margine celeste dell’altoforno ho pensato il dominio femminile, la forza che tiene fermo il pensiero: dico che siamo icone nella stiva della nave commerciale per prossime esibizioni, e che le pacificazioni non fanno per noi, ti chiedo se è vero che la musica è crudelissima come è evidente dalla costante infelicità che ci fa muovere i passi fino a che non troviamo il burattinaio che dovremo far fuori senza esitazioni

per parte mia so che la strada più difficile è quella tracciata da una linea che va dalla palpebra inferiore quando spuntano certi sguardi di attenzione consapevole -il contrario delle lacrime- e allora come un azione muscolare il pensiero dell’imposizione alla scoperta curva in basso e tira l’angolo esterno delle labbra in un riso allegro che ci sfama la miseria e che ogni volta – sono pochissime naturalmente le occasioni vere – si dovette scegliere bene la musica adatta al  colore ramato dei capelli e alla tessitura più o meno fine della seta dei vestiti perché nella musica non c’era l’intelligenza di scegliersi da sola, secondo i pensieri e stava li, tutta quella bellezza, a costituire la miseria universale in assenza di mani di donne e uomini che per un attimo la animassero, come avesse una vita propria, la musica, che però era  morta, inanimata, e le note segnate sui fogli erano i resti del pasto dei senza casa sui cartoni, e ‘tu’ ed ‘io’ eravamo commensali alla tavola imbandita di tutto quello che ci era sempre sfuggito.

io so quando iniziò la ricerca: fu nella sicurezza del silenzio definitivo alla frontiera che inaugurava il tempo necessario a non morire più: ‘…. siamo belli e non moriremo mai…’ ed anche, dicevo ‘… mai non siamo e moriremo belli….’ nella presunzione nasceva la ricerca, che rifiutava la miseria dei cartoni dipinti di note, scritte mentre il pensiero dava vita ad un processo di trasformazione della realtà fisica della materia cerebrale, che escludeva l’ipotesi che la nostra esistenza potesse rassegnarci alla amministrazione dei condomini della solitudine: così adesso dico che la gioia di essere insieme è l’origine delle scansioni rapide e aggiungo che dicevo ‘ti amo’ per realizzare la fisica di uno spazio esterno da percepire.

è questa anche una musica ? domando. E la musica è assenza di aspettative poiché le aspettative sono solo perfida avidità? La musica -di certo- dovrebbe metterci in condizione di evitate di perdonare l’estrema gioia che comanda le parole. E andando avanti velocissimo domando  una musica che confermi che da ‘allora’ ad adesso finalmente sia del tutto completato il disegno delle parole scritte qua. Se la musica non sia che una ingratitudine che non sa mai/ mai vuol sapere / che posto riservare al linguaggio parlato. Dove faremo sedere chi ha scelto di starsene al cielo senza luna, l’indigeno che non ha mai più chiesto l’origine e la ragione della miseria. Chiedo se è nella musica la gloria della propria miseria, e nel linguaggio la miseria morale della propria arrogante compiutezza. Non meno di questo. Chiedo la maturità di un confronto teorico: se l’immagine sia prima di tutto e se l’uguaglianza può offendere certe sensibilità prima dell’affermazione delle divergenze: può accadere.

chiedo e imploro che stiano lontani coloro che ritengono che la parola miseria sia una parola disdicevole, non suffucentemente allegra e adatta alle pretese di euforico benessere di questi tempi, aggiungo che la musica non è pensiero cosciente

grazie

 

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sottolaluna


Posted By on Giu 26, 2011

Cena e concerto di Ferragosto

sottolaluna

Butto giù le note per la composizione di Agosto: le paste alla crema sono appena comprate nel vassoio di carta dorata, i frontalieri compaiono dalle montagne di parole, nel libro di avventure della lotta partigiana, belli come chansonnier con la sigaretta, sono uomini-vulcano sulle Alpi Marittime, erano – torneranno ad essere, quelli che torneranno – pastori pittrici pasticceri commercianti studentesse mugnai preti avvocati portalettere garzoni stiliste mantenuti modelle musicisti disoccupati operaie impiegati docenti. Non esisteva più l’uomo medio a quella loro altezza di vedute, quell’altezza necessaria per raccogliere, in un sintetico colpo d’occhio, il mondo che si era ribaltato e nella passività di troppi, lasciava comandare i demoni.

Ho legato l’amore politico ardente alle note della musica di Ferragosto: mi hanno detto della festa e voglio allineare anche io i rami secchi spigolosi brunastri della potatura invernale dei susini, pensare ai bastoncini della grafia delle parole scritte come ad un amore torrido suscitato dall’ estrema eleganza di un concerto: conficcato al centro dell’estate del caldo dell’anno e della festa. Ho comprato le paste alla crema solo per non restare solo davanti al foglio: oltre il foglio – che mi fa da frontiera – ho messo la curva dei monti dei croissant e la dolcezza alla crema delle discese a valle. Ho legato la storia del rosso alla musica e alle feste nei giorni torridi d’estate e la suggestione è che le note in aria costringono all’azione estetica di non restare neutrali mai.

E’ per via della grafica di Daniela, quella scelta di una luna nel rosso che è ferro fuso che ho pensato alla festa di Ferragosto come ad un episodio di resistente amore: liquefatto nella stretta di una lotta incandescente. Ho pensato la Festa con la bellezza di una azione fulminea alle pendici delle frontiere, nei canaloni tra le montagne affrontate opposte le une alle altre come uomini di fronte ad altri uomini. Ho pensato una festa sulle gambe forti delle persone, un nido lunare di aquile: molto lontano. Ho pensato la festa risplendente negli occhi lucidi di una totale solitudine. La festa come un mare di mercurio.

Butto giù le parole, soprattutto la parola “agosto”. Le paste alla crema sono appena comprate nel vassoio di carta dorata. Il tempo riposa tra pensiero soggettivo e una media cultura, tra l’identità e il movimento di delicate creature con un torrido interesse per la musica. Si alternano ardore e distacco. L’ardore non brucia: è il guaio delle metafore.  L’ asciutto del distacco invece brucia e brucerà sempre. Le linee sono ciò che arde nell’amore. Di legni infuocati è la sensibilità della materia umana che realizza il pensiero. L’ amore asciutto custodisce identità durevole e costanza di confine. L’amore è la frontiera.

La festa porterà l’asciuttezza dell’altoforno: arricchimenti, calcinazioni, arrostimenti, riduzioni degli ossidi, desolforazioni: così ognuno di noi avrà un nome chimico e saremo risultati transitori di un processo. Godremo le azioni di affinità elettive, il vantaggio gratuito delle reazioni che cambiano la fisica di metalli vili che, diventati ghise ed acciai, aumentano di pregio. Così accade al rosso certificato Pantone dello studio degli artisti che, nel cartoncino elegante tiene la luna altissima -inclusa- al vertice che neanche pare un colore ma una spavalderia poco sentimentale: una pretesa di voler ‘tutto’ dai musicanti, dai cuochi, dagli assaggiatori di vini, dai camerieri, dalle rane del fosso. Anche, ma inutilmente dal cielo: perché il cielo -da sempre- mai riesce a somigliare nè ai sogni degli uomini nè a dio.

Una festa è un processo di scomunica, un procedimento di legittimazione di una abiura, la legislazione che decreta articoli e commi per la  svalorizzazione delle credenze. La scomparsa della magia. La festa è una serie di atti di restituzione del pensiero alla materia dei corpi accaldati saziati e imperfettamente riumanizzati dai baci le mani e le parole sussurrate. La festa potrebbe essere che tenga una storia di figure che continuamente si alzano e poi riposano ancora per alzarsi di nuovo e di nuovo reclinare lentamente all’immagine volto e arti. Una festa è il colore l’immagine la sapienza la musica e il ritorno del sonno dall’infernale abisso.

Le linee sono ciò che arde nell’amore. Di legni infuocati è la sensibilità della materia umana che realizza il pensiero. L’ amore asciutto custodisce identità durevole e costanza di confine. L’amore per la frontiera ha la potenza di creare mondi perinatali interi. Nella grafica per la festa si racconta la fusione per causa del calore.

Ho una reazione quasi fisica alla grafica dell’invito. Noi stessi si cuoce, al bordo superiore del disegno, dove è evidente il fenomeno della liquefazione delle molecole d’aria, il clima incandescente del pensiero quando è attesa musica e giorni irresistibili perché senza una ragione.

(pagina in progess del progetto appena nato)

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ipertesto


Posted By on Feb 23, 2011

ipertesto

“Lo Specchio del Mondo” – pagina 23 – “Tessuto di corteccia Mbuti. XX secolo. Se per un verso, l’arte astratta è nata in europa all’inizio del Novecento, per un altro essa rappresenta una delle più antiche espressioni dell’umanità. Oggi è impossibile azzardare una storia della pittura Mbuti. I tessuti ricavati dalla corteccia sono usati per avvolgere i neonati e indossate nei riti di passaggio e nelle danze celebrative. Dipinti dalle donne di una cultura di raccoglitori in cui la gente dispone di molto tempo libero, queste imprevedibili riflessioni sulla linea e sullo spazio hanno una strana affinità con gli scarabocchi degli impiegati inoperosi.”

Sembra un manifesto contro la borghesia, con quelle due parole definitive. Inoperosi operai: in quest’ordine hai una rivoluzione senza i morti. Aggiungi questo di Oscar Wilde ‘solo le persone superficiali non giudicano dalle apparenze… il mistero del mondo è il visibile, non l’invisibile…’ e avrai il legame facile con quello che scrivo da un poco.

http://www.youtube.com/watch?v=g-oLmOm9vk0 Leggilo a questa musica : Avalanche (Leonard Cohen) e tentiamo nel suono -seppure così tanto lontani- la traduzione dell’anima. Dell’anima nella musica. Facciamo finta che le invenzioni e le scoperte non siano avvenute. Che sia freddo ma tremare no.

Nella serie di rimandi tra sfacciate evidenze, mi sono tuffato, dalla terrazza delle tue labbra, nel sottostante mondo-me. Era nel libro -che stava sul mobile d’alluminio di casa nostra – la pagina, da cui hai tratto la frase e la figura, per colpire il segno. Un messaggio nella bottiglia, che mi hai lanciato, dalla spiaggia dell’ isola del mio stesso mare. Ora -che trovo- ritorni.

Sulla superficie evidente del freddo di stamani, trarrai anche tu la conseguenza, che io dovevo assolutamente fotografare senza indugio le arance: queste irregolari sfere gemelle, che scaldano e abbelliscono il sottostante mondo-me, appena introdotto alla scrittura. Da cui ora trarrai la legittimità della figura che accompagna la pagina.

Va meglio adesso Inverno Dolce. Sbucata sotto il sole rigido di stamani – come vedi gli ho regalato le tue curve delicate. Va meglio, va meglio. Sei uno legno tenero per resistere al freddo, l’avventura ipercalorica di mezza mattina. Ti ho anche trovato immagini e suoni, affinché questo ipertesto sia la fantascienza amorosa di oggi per sempre.

Acqua per il cioccolato – sesso compiuto alla luce di un ultimo “si”- destino migliore del paradiso. Un mondo di fiammiferi di zolfo luciferino.  Ci si deve lavorare un po’, non si crea naturalmente,  per via che gli esseri umani sono controintuitivi. Per capirci osserva: http://www.youtube.com/watch?v=jdIaQx_YdyA&feature=related

Già, le notti dopo il cinema: i finali con la pelle d’oca, il vapore del respiro appena fuori e guardarsi intorno a cercare se per caso continua ancora. Una volta che non è freddo, e non hai l’alito del drago, è più difficile, alla cieca cerco con il braccio se sei accanto. Un condor ferito. Un attore mancato, vista l’eleganza involontaria del gesto.

Se sogni i tirannosauri, madre e figlio, è certamente perché non hai il coraggio di confessarmi come risulta indispensabile e innaturale accordarsi sulla bellezza. Resto con il braccio alzato – faccio il condor-cavaliere – costruisco un probabile riparo della tua sfacciataggine – tu inciampando e ridendo arrivi – io aspetto – non so se spiccare il volo.

http://www.youtube.com/watch?v=TEVlDb43v-4 Perché questo ipertesto sia la fantascienza amorosa di oggi per sempre. Puoi anche guardare – chiederti da dove mai un’essere umano trae tutto questo. Legittimità d’essere figli come tutti diversi da tutti. Nello stupore nella perplessità. Nel quasi odiare della passione.

Puoi rileggere: riflessioni sulla linea e sullo spazio – disegni di donne di una cultura di raccoglitori, dove le persone hanno molto tempo libero – scarabocchi di inoperosi impiegati- un manifesto rivoluzionario inavvertitamente antiborghese – un messaggio nella bottiglia – le tue mani arance calde – per resistere.

Per tutto il resto che ci serve: ecco…..
……http://www.youtube.com/watch?v=xLquEK6m0o8

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playlist


Posted By on Gen 26, 2011

playlist

Piccolo spazio pubblico. Stanze minime ben arredate piene di gente. Libertà di pensiero. Aperitivi: un disconoscimento vantaggioso, una annotazione dissonante, e il mondo intero che gira attorno allo spigolo tondo del bancone del bar. I gomiti appoggiati al banco : Dunque eri tu!!

Ritorno veloce. Riavvolgimenti di un sorriso. Cronologie che si rincorrono, si incrociano, si accostano traballanti. Le amicizie brucianti fanno un tetto. Creano atmosfere composite. Un intreccio di appassionate discontinuità. Ci sono belle case costruite ed un linguaggio ancora da venire.

I gomiti appoggiati al banco disegnano palafitte contro le invasioni. I barbari dall’altra parte del bancone, con un palmo di naso. Si grida a voce calda con la certezza della profondità scura della laguna. Qualcuno conosce l’uso sapiente dei suoni: Eri tu ! pronunciata con tono di sorpresa a stomaco vuoto  si rivela un’arma.

Piccolo spazio pubblico. Stanze minime ben arredate. Ci si va perché da tempo bussare ad una porta ci manca. Ci mancano -sostanzialmente- le porte del paradiso. Ci manca qualcuno cui chiedere ‘ti ricordi di me’. Ci manca rischiare di nuovo la vita che va via perché si muore un poco ad essere  dimenticati.

Nelle stanze piccole piene di gente è autorizzato il viaggio della libertà di pensiero. Ma nessuno ci aveva avvertito che ‘tornare’ -non importa da chi o che cosa  – avrebbe richiesto una certa disposizione.  Specialmente se si è trovato il senso dell’amore nelle sacre scritture di una playlist da tasca.

Allora bisogna fare un nuovo discorso. Riprendere tutti fili e cucire gli strappi. Smettere con la musica orecchiabile delle parole per difendersi. Può essere di no, è che temiamo ci mancherebbe poi sempre il piccolo spazio pubblico di stanze minime piene di gente.

La libertà di pensiero ha il timbro dei cantanti lirici, i caratteri di una rivelazione, la rarità di una playlist di preferiti. Chiarisce come dire no. Come fondare città secondo la misura dell’ampiezza dei passi. Impone che ogni soglia deve misurarne due, di passi. Contiene la grammatica per formulare gli interrogativi dal carattere definitivo.

Ci si può chiedere se si usi ancora  esclamare ‘ricordati di me‘ alla partenza del treno. E cosa abbia di speciale – bussare ad una porta – che adesso ci manca. E perché manca anche a chi non ne aveva mai sperimentato l’emozione. E a cosa serve avere case costruite senza un linguaggio per raccontarcene la magia.

Bisogna provare ad andare avanti comunque. Dare retta a nessuno e scalare la montagna incantata della socialità che si fa in piccolo spazi pieni di gente. Perché nelle stanze ampie degli accordi privati non c’è libertà di pensiero. Non c’è la recitazione a memoria delle sacre scritture digitali. Playlist dei preferiti.

La assuefazione ad esercitare preferenze ci smagrisce un poco. Scaliamo la montagna per bussare alle porte del paradiso. ” Ti ricordi di me? volevamo costruire una città !Per adesso abbiamo il silenzio che traccia i vicoli e la confidenza che è la pianta degli appartamenti….”

Due passi misurano le due porte sacre. Le mura sono un multiplo della misura delle soglie perché si vuole che la città sia cinta di una armonia aritmetica. La piazza è piccola piena di gente per l’esercizio della libertà di pensiero. La libertà di pensiero non è il libero arbitrio.

La bandiera dei pirati -strana in una città che non è di mare- è in alto. Irraggiungibile. All’incanto del pensiero.

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adesso


Posted By on Dic 18, 2010

adesso

Con tenera goffaggine, poiché trascuriamo le cose facili, portiamo variazioni ai gesti. Diciamo  “..vale la pena parlare della neve che non viene..” e anche “...la neve che non viene è domani….”. Poi ” …domani’ – che ancora non è – è la firma affidabile a garanzia d’un prestito...”

Vale la pena parlare della neve che non viene. Dei fiocchi che si aspettano. Di quanto promette di cadere dal cielo perché l’essere umano è pieno di fantasia e inventa le cose. Sa le cose che non ci sono. Che non ci sono ancora. Siamo certi di domani. Possiamo immaginare le nevicate. Adesso, lontani, immaginare l’arrivo.

Immaginare consente l’accordo tra umanità e natura. La nevicata, nel sogno, dice che le cose senza pensiero sono morte e ci feriscono. Che la biologia è fragile senza la permanenza dell’attività psichica. Per via del dormire e perdere coscienza ci è stato possibile realizzare la condizione dell’attesa.

L’attesa è la goffa relazione della coscienza con il tempo. Per quanto goffa è indispensabile, perché la coscienza, senza l’attesa, non è capace a difenderci dalla brutalità di chi non sa aspettare. L’attesa è l’equivalente della pausa del sogno nella vita. Attendere è sognare da svegli, ma senza confusione e pazzia.

Dormire,  perdere volontà e movimento ogni notte, ha consentito di raffinare il comportamento. La storia dell’amore dice che il comportamento dell’abbandono diventa, in noi, prassi di figurarsi presenze e voci che torneranno. La prassi di evitare la morte. In più del semplice comportamento di sopravvivenza, che è lotta per la vita.

Bisognava inventarsi il coraggio prima del movimento. Dopo il movimento creare, solo per i genere umano, la probabilità della modestia. S’è scritto gli spartiti del nostro stare nel mondo premettendo affetti al movimento. E scrivendo, con amore, le note di quanto si era fatto. Nella mente si graffia, con le unghie affilate, la grafica complessa del nostro singolare ‘destino’.

A volte nell’incisione risalta la geometria inequivocabile della genialità. Che non ha altro che il suo stesso nome. Alla fabbrica del genio il resto del discorso è chiacchiericcio. E si vedono trappole di ortica al di là del muro. Il deserto il deserto il deserto si ripete sotto le onde degli sguardi. Facevamo la vedetta tutti, consumandoci gli occhi. Diventammo ciechi per simpatia con il sogno.

Ad un risveglio, dopo il deserto, la parola ‘tempo’. La clessidra, la meridiana, le fiaccole che si consumano sulla testa degli schiavi: ogni fiaccola un grido. Il legame del tempo col dolore. Crudeltà della conoscenza.

Il tempo è divenuto materia sottile, cascata di sabbia. Il giorno scende lungo il segmento della clessidra. L’uomo diviene architetto. Le piramidi e i palazzi verranno costruiti con la rigida geometria delle ombre. Il grido dello schiavo ferito dal fuoco, invece, è allegoria della carne. Che è l’uomo la misura del tempo. Che l’ora è un grido. La puntualità uno strazio.

Dopo queste scoperte il pensiero sono resti di resina e catrame. Le variazioni di intenzione sono angoli di luce al suolo. Il tempo è la parola che si ascolta all’altezza del collo della clessidra. Bisogna accostarsi bene. La sabbia sempre fa finta di non essere ‘cosa’.

Comunque: il tempo ha aggiustato la nostra relazione con le cose inanimate. Reso abitabile il mondo. Si può sempre “…tornare al tramonto…“. E quando parti è poesia della luce. Quando arrivi, per chi aspettava, è miracolo nell’oscurità. Il tempo, come si vede, ha incoronato il viaggiatore. Ma poi, con senso di giustizia estetica, nobilitato chi aspetta.

La poesia e il miracolo non hanno estensione. L’estensione è l’ambizione di chi resta determinato a recitare il teatro. Il tempo allora complicò le intese  Non avendo estensione escluse molti. Creò una massa di sopravvissuti soddisfatti. Realizzò i propri simboli. I simboli di dei eterni. Permettendo l’errore che l’idolo sia fatto di promesse: tempo a venire. Ma l’idolo, di fatto, è una irrealtà, falsa rappresentazione di legno e marmo.

Del tempo si intende l’architettura. E la scultura. L’architetto e lo scultore disegnano il sogno della trasformazione. Costruiscono all’improvviso nella mente. Poi ammassano le pietre senza vita. Toccano, indifferenti, la morte, la natura che non ha immagini. Lo scultore e l’architetto hanno il progetto che, alla fine del disegno degli incroci di linee, resta a placare la diffidenza: gli esseri umani non sono cattivi.

La creazione del palazzo e della forma scolpita costringe alla piazza e all’inclinazione. Il tempo inclinato – e il ‘luogo’ – fanno l’appuntamento, il movimento collettivo e l’accordo sociale. Attorno: i confini. All’interno del tempo della costruzione: la differenza. La bellezza. Il discorso. L’arte, lo sporgersi, la fondazione. E la comprensione della realtà psichica, che è fatta delle cose pensate che ancora non sono. Opposta all’idolatria.

Ultimi, nell’evoluzione della vicenda in questione, vengono il rapporto, l’intimità, la rappresentazione. La figura, il disegno. La virgola il punto e l’accento ultimi tra gli ultimi. Caddero dalle dita insieme e senza suoni. Fu quel ‘cadere’ ultimo il loro ‘venire al mondo’.

Non c’è invece notizia – o figura –  del primo bacio. Si nascose subito, forse per proteggersi. Al centro tra il coraggio e la calma. Inaugurazione e fine del mondo. Del bacio si sa solo che è goffo. Che lo è sempre. Nel bacio ci si aggiusta. Non ci si rassegna mai. E solo capitolando si è eleganti. Tra le braccia. Sui fianchi. Appesi alle labbra dell’altro. Il bacio è tutto ciò che non si decide.

Siamo a noi. Siamo a adesso. Alla frontiera. Al linguaggio. Nel linguaggio, che non si sa che sia, sta la possibilità di scrivere la storia dell’amore. Quando il comportamento dell’abbandono diventa figurarsi presenze e voci che torneranno. La prassi di evitare, da questo presente, la morte. Qui, adesso, il linguaggio, che è tempo e frontiera, suggerisce la possibilità del tempo condiviso.

Di un patto sociale che è accordo irrazionale tra le persone.

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