il prima e il dopo


In un volume tutto si tiene. La materia ha questa natura di ‘cosa’. Il parallelepipedo irregolare, amorevolmente composto, ha linee di legame tra punti lontani. Una rete o un mare molecolare. Vedi accarezzi scopri e tieni nelle mani quella compattezza traversata al suo interno da linee invisibili.

<Rose al seno> si era detto. Della raccolta delle rose, precisamente. E prima di balconi arcuati. Di promesse e offerte. Sinfonie carnali. Candidamente ci si propone di cercare se la ‘vitalità’ sia una funzione. E che tipo di funzione sia. Se la scrittura di articoli differenti contenga una ‘ragione’.

Ci domandiamo se dovremmo fare una raccolta di rose da vendere la notte di primavera nei ristoranti del centro. E accantonare il guadagno per lo studio della funzione in esame. Come se una pazienza intelligente potesse farci forti. Di liberare le donne dai soprusi e i bambini dalla fame.

Il non essere è non essere più ciò che è stato. Essere è quanto da un certo momento è iniziato o, insomma, è emerso. Che non era. Poi invece si, c’era. La vitalità assicurerebbe la plausibilità di una ipotesi del genere? La possibilità di un passaggio tra stati fisici irriducibili?

Se essere e non essere sono eventi fisici discreti inconciliabili. Se possono tuttavia essere legati gli uni con gli altri. Avremo che le proposizioni suddette non sono poesia. Ma forme di pensiero scientifico. Gli ampi mazzi di rose al seno sarebbero dunque idea di immagine.

1972. “Istinto Di Morte E Conoscenza”. Eravamo increduli. Poi, non più instupiditi, è venuto il ‘dopo’. Non si sa come precisamente: la vicenda, vista adesso, è epidermide che occhieggia tra bocci e foglie e sporadiche spine d’ombra. La teoria fu un grande regalo.

In un istante di quarant’anni la comprensione. I ‘petali’. Il volto è un ovale. Ha il punto di appoggio, la convessità appuntita del mento, nell’incavo rosso del mazzo di rose. In mente ho l’idea della soluzione possibile. Capire ‘tutto’.

Una vite affilata è un sogno di due giorni fa. Girata con decisione e maestria sostiene la sagoma degli anni dal 1972. Consente -alla storia della scoperta come l’ho in testa- più che altro una sostanziale stabilità. Ma, in me, non ancora la libertà di un movimento che le sarebbe più adatto. Che la figura vuole. Che meriterebbe.

Ma è così. Non sono riuscito a capire più di questo. Non più di una farfalla fissata da una vite d’oro sullo sfondo del Tempo. A causa di questa lentezza vivo tutt’ora -ma da sempre ho vissuto- meno liberamente di quanto sarebbe (stato) ‘teoricamente’ possibile.

Non è una metafora: una vite costringe al senso di realtà. Togliendomi un po’ di libertà mi regala la stabilità di sapermi sullo sfondo di un tempo assai esteso. Un tempo ampio e respirabile. In cui il prima e il dopo sono le esistenze di quelli che mi hanno preceduto e degli altri. I più giovani.

Per motivi che non conosco questi ultimi riescono facilmente a farmi felice. Neanche saprei come ringraziarli.

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