tempo


il tempo


Posted By on Gen 25, 2017

Vorrei disegnare la linea del tempo che addensa i legami. Disegnare i tuoi capelli tra le dita quando risalgono la tua fronte per traversare il confine tra lo sguardo e i pensieri.

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grazia, curiosità, invadenza


Posted By on Mar 30, 2016

Non spendiamo più quasi nulla. Si guardano ragazze sporgenti al parapetto. Il loro candore serve a non occuparci d’altro per ore e ore. Nessuno sa dire come si generi una ‘decisione’. O come si generi il non decidere. Decidere di stare là così. A non occuparsi di niente. A lasciarci offrire il florido candido sporgere.

Sbocciano i seni floridi dall’intreccio di ferro battuto. Serve a non lasciar cadere chi si offre.

Chi si offre deve avere. Avere la consistenza e non essere nuvola. Avere il non volere. Non volere essere ideale. Stare al proprio posto. Un posto mai suo. Sempre assegnato temporaneamente. Ma un luogo ineffabile.

Balconi. Promontori. Lingue di terra. Cime celesti. Banchine di cemento degli attracchi. E poi ci sono le pensiline delle stazioni. I bar di fronte alle fontane del centro. Il bordo di marmo liscio delle fontane: dove sedemmo con una mano dentro quell’acqua trasparente. E le parole che sgorgavano dalle labbra. L’archeologia monumentale. La testa vuota delle statue. Il ristorante in cima alla torre Eiffel.

C’è il ventre dell’orologio meccanico. La riproduzione, in scala inversa, degli ingranaggi di automi settecenteschi. Il camminare tra quelle ruote scattanti. Toccando il metallo che costruisce i secondi con lo sferragliare sommesso di molle e differenziali.

Scivoliamo furtivi nella macchina del tempo. E abitiamo provvisoriamente, i mesi di vacanza, la mente dell’automa costruita quasi uguale ad un orologio.

All’esplorazione si vede bene che l’idea che la cultura propone del tempo è, al confronto con i ‘dati’, misera e impoetica. E lo sforzo di chiarire la natura del tempo resta tuttora informe.

Bisogna camminare nelle grotte e nei cunicoli dei meccanismi di oreficeria, per capire. Bisogna percorrere le stanze piene di calcolatori valvole e magneti dentro la testa dei giganti di bronzo per recuperare il rispetto della indicibile complessità.

Bisogna risiedere, resistenti all’impazienza, in quell’ingombro elettromeccanico che provoca le decisioni degli automi. E muove le lancette sui quadranti degli orologi sparsi per il mondo.

Il tempo comincia prima del tempo percepito. Dunque è l’innocenza del non riuscire a volere. E il continente da cui partono le navi degli invasori. L’innocenza anticipa il gesto.

Arrivano ricchezze, attenzioni, invasioni di curiosi. Siamo noi i sognatori. Gli esseri incomprensibili ai loro occhi. Gli ‘automatici’ costruiti di ferro stoppa e pietre. Di grasso e frammenti di vetro.

In noi girano vecchie abitudini. Sotto alghe e sale incrostate nelle fibre di legno incatramato di un relitto arcaico. La nave respira in fondo all’oceano. Il motore filtra l’acqua salata cristallina. Alimenta primitive funzioni che generano da migliaia di anni il pensiero attuale.

Bisogna sperimentiare quello che accade all’inizio delle frasi. Cosa sostiene per ore il far niente degli spettatori. Cosa ci sia di gradevole nell’ammirare estatico i fianchi che ondeggiano sulla passeggiata a mare. Percé siamo così presi dall’inutile scialo di lavoro per piegare in intrecci il ferro della balaustra. Perché stiamo ore ad attendere l’offerta dei corpi che prima o poi si affacceranno da una delle finestre del Grand’Hotel.

Il tempo, prima che ne prendiamo coscienza, ci conferisce lo sguardo sognante di chi venne invaso da bellezze di là da venire. Da fuori si potrebbe dire che siamo ‘toccati’ dalla grazia. O dalla stoltezza.

Cosa è che rende fuori posto alcuni di noi nel mondo naturale del tempo che si ripete?

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“Addio a te mio eroe che presto viene la marea a conoscerti. Addio! Addio: che strana parola pronunciata alla riva della montagna. Sai che la montagna é un’onda? Si vede: presa al volo nell’impeto. La cresta appesa al pianeta di turno in transito alla rotonda celeste.”

Così tengo minuta della corrispondenza da cinque anni in tavole elettriche: tavolacci d’emergenza sui quali ecco parole incise con le unghie. Poiché le lezioni sono troppo noiose perchè là tutti credono di sapere come si evita lo scorrere delle ore. Così incido, incido, consumo legno di pino e cheratina, li metto insieme nel fondo dei solchi. Il lavoro sulla materia crea uno spazio sottratto ed è così che l’immaginazione si nutre di assenza. Sono trent’anni che aspetto: l’attesa è una sospensione: aspettando io dunque ho tolto, sottratto, scavato. Scavato un solco. Dovevano passare tutti e trenta gli anni di sottrazione di scavo e lavoro. Oggi di fronte al lavoro di sarchiatura del campo prima sassoso e ruvido, posso dire che è esistito il tempo fisico di trenta anni e che, anche se possono essermi sembrati un eternità, non sono di più e non sono di meno di quello che sono e per questo capisco che il tempo ha un’oggettiva esistenza. La differente percezione del tempo fisico, corrispondente alle differenti attese dell’anima nostra, è un illusione. La natura fisica del tempo cura le funzioni alterate dell’io: la natura fisica del pensiero cura la natura fisica della realtà degli affetti, degli umori, delle idee.

Trent’anni che sono qua. “Salve a te mia bella coi capelli d’alga. Non più addìi da adesso. Da adesso si fa festa.”

Il tempo psicologico fuggevole e elusivo non è il tempo fisico oggettivo. Da quando promisi che sarei rimasto sono passati trent’anni di tempo. Quello che è stato è stato.

“Salve a te aquila roteante testimone dei sassi e dei barbagianni. Qualsiasi cosa pur di non perdere la portanza.”

D’altra parte chiedo:

“Pensi che ci sia un modo per ipotizzare che questi trenta anni non siano tutti quelli che sono? Il rimpianto? Ma il rimpianto banalizza le decisioni lasciando inalterato il tempo trascorso. Il rimpianto da un’idea caricaturale del tempo, illudendoci che su di esso possano esercitarsi azioni di modificazione. Per via della natura fisica del tempo che la tiene inalterabile, la ricerca rimane intera, immodificata, tempo essa stessa. Trent’anni che non possono più essere ridotti ad altro e di meno: la conclusione sulla natura fisica del tempo consente la ricerca sulla trasformazione della natura fisica del pensiero.”

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“LA GIOVINEZZA ALLE ORTICHE”
copyright:claudiobadii

Dopo la crisi restano i bastoncini di legno a terra. Gli shanghai. Il reticolo anatomico dei neuroni della biologia cerebrale ha implicito che pensare non potrà essere comprendere, dipanando uno dopo l’altro gli elementi dell’intreccio, in un percorso lineare privo di eventi collaterali.

C’era la certezza di -non-so-dove- una ‘crisi’. Ho accettato di cedere alla ‘necessità’ di porre alla base delle foto le notazioni degli anni, (nascita/morte), che facevano risaltare la troppo breve vita di Francesca Woodman.

La sera di ricerca non si è riusciti a risolvere la crisi. Il modo non cosciente, che precede la coscienza, aveva colto qualcosa. Ma durante la seduta di psicoterapia di mercoledì scorso, la crisi, indicata, si era dimostrata generale: l’uno non coglieva la ‘cosa’ degli altri.

Le ore della seduta: le dita delle ‘loro’ mani passavano forti, tuttavia indecise, sulle corolle di fioriture immaginate, tirando via semi tinti di blu scuro elettrico, che erano nascosti nelle pieghe degli stami vegetali.

Erano i secondi, che fanno i minuti e le ore. E, quando ‘loro’ sono andati via, i semi sono restati a terra. E i semi erano di nuovo i bastoncini dello shangai che si gioca da ragazzini.

I punti e i segmenti, sparsi sui riquadri di cotto, componevano le durate su un’area: non più lungo una successione lineare. Il tempo appariva seminato sul pavimento, dopo lo stimolo improvviso e massiccio dell’assenza di persone che se ne erano andate via in pochi secondi che aveva attivato certi flussi sinaptici nel reticolo della biologia cerebrale.

Per quanto essa sia anatomicamente segreta e protetta, la fisiologia è quella di essere attraversata da onde bio-elettriche. In quel caso si trattava dello stimolo di una stanza improvvisamente vuota che in me ha determinato la ‘coscienza’ del dolore: percezione illusoriamente riferita (diffusa) su un corpo ‘fantasma’: la stimolazione centrale delle aree sensitive epidermiche può causare la ‘ricreazione’ di ustioni periferiche.

Una cosa della mente, inaccessibile ad ogni invasione di oggetti, diventava una serie di spine diffuse sul corpo. L’onda di eccitazione, percorrendo le strutture cerebrali, ha diffuso il dolore in un attimo. Ero insignito di un mantello nero di ortica, e il corpo si è sentito ammalato.

Dura nel tempo, e la durata e l’intensità, in modo opposto, sono proporzionali alla vitalità. Fino a che il nero diventa blu radiante e il dolore guarisce la mente: insomma in quel caso non era malattia biologica, ma azione della fisica del pensiero sullo schema corporeo.

Per cui, diciamo che il pensiero dava fuoco all’homunculus sensitivo come a una strega del seicento. In questo attualissimo caso dico che il dolore, così evocato e provocato dalle azioni mentali, era indispensabile ad evitare il suicidio della disperazione.

Sono ventiquattro ore, poi trentasei ore, circa, da mercoledì sera. Il dolore ha focalizzato la percezione di una imbarazzante inabilità che si accentua fino a sembrare fatale. Poi ha lasciato, poco a poco, che la mente realizzasse l’idea di una gravidanza a termine, e un parto.

Rapidamente è scivolato, sollevandomi dalle ambasce, il pensiero per cui, se ricordo bene, doveva essere maggio del 1982, quando scrissi la lettera di addio al mio incarico universitario. Poteva forse essere fine marzo o metà aprile quando l’invasione della luce, per la strada del mare, mi aveva inclinato a prendere la decisione? Non lo saprò mai.

Saranno stati i rami dei cespugli selvatici fioriti lungo la strada, coi loro intrecci bizzarri, che forse mi ricordarono il gioco degli shangai, e il tempo di catrame sotto le ruote che vibravano impercettibilmente ad evocare le autostrade sinaptiche dell’anatomia cerebrale?

Non sapremo mai neanche questo. Può comunque essere stato così nella mente di un giovane medico alle prese con la anatomia, la fisiologia, gli amori, le intemperanze dell’ignoranza. Tutto alle soglie dell’estate.

C’erano:

-potenza e incoscienza.

-la giacca azzurra della giovinezza.

-la neutralità impossibile.

-uscire dal gruppo dei clochard aristocratici.

-buttare la giovinezza alle ortiche.

Butto alle ortiche questi anni di ricerca. Cambio ancora. L’intreccio bello del cespuglio come un nido di cicogna sui cammini accesi per scaldare la nascita dei bambini. L’intreccio della fisiologia del pensiero porta con se il profumo dei fiori lungo la strada.

La vita mentale ha origine materiale. La frase “realtà non materiale” è una locuzione scientificamente fuorviante a proposito della natura fisica della mente. Quelle parole hanno un indubbio fascino letterario, per il resto rappresentano un’idea ed hanno l’esistenza di un fremito sfrigolante.

La scintilla dei treni su e giù per la penisola. Freccia rossa del risveglio e, precisamente, una scintilla. Le scintille ogni istante sono più numerose delle stelle visibili e dello stesso numero delle invisibili. Miliardi di miliardi di eventi elettromagnetici. L’unità di tempo è mente cardiologica e meccanica.

L’azione permanente del pensiero sa, in genere, comporre cuori e cronometri. e si può scrivere che la fisiologia umana delle attività cerebrali ha un’esistenza poetica, dunque solida e per niente letteraria. Una poetica esclusiva delle scienze esatte. La sua bellezza è non avere alcuna necessità di validazioni filosofica d’essere ‘realtà’.

La modalità relazionale della psicoterapia, grazie alla consistenza fisica dei processi ideativi, può operare sugli stati funzionali corrispondenti agli affetti di rapporto. Essi furono nominati, durante gli anni di sviluppo della scienza psichiatrica, transfert e contro/transfert.

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“The Reproductive Revolution: Selection Pressure in a Post-Darwinian World
www.reproductive-revolution.com/index.html

“È una negazione la parte preponderante delle nostre affermazioni, se esse sono espresse senza bellezza”(… su queste pagine pochi giorni fa)

Allora la bellezza è un parametro per individuare il grado di umanità del pensiero dal momento che l’evoluzione è caotica e opportunistica e che improvvido e approssimativo e casuale si pone nello spazio/tempo ogni suo risultato. Che è un gradino e un passo di una condizione di non linearità. Mi siedo sulle ginocchia, sulle ginocchia mie. Con tenacia torno un ragazzo coi muscoli elastici e i tendini che restano increduli. L’atletismo ormonale della contrazione a sedici anni è resistenza, pazienza, attesa, e scatto contenuto. Insomma so, meglio di allora, che la mimica silente del sorriso ha la stessa qualità della potenza muscolare annidata nella promessa del sesso e del coraggio, prima dei tuffi dagli scogli. Seguo lucertole e api sui fichi dell’albero estivo. Finisco la lettura de “I SIGNORI DEL PIANETA” di Ian Tattersall. Il linguaggio, forse, potrebbe essere stato generato tra i bambini. Per via che essi pensano in modo differente dagli adulti. Il linguaggio, con la potenza contrattile che esplode da un silenzio che ne conteneva la potenzialità: è quella l’idea che viene giù, di un tuffo dagli scogli. Che gli esseri umani non sono provvidenza ma disordine. Che il linguaggio non serve per comunicare ma per pensare. Alle soglie mentre escono dal primo anno i ragazzini, ricordando un sogno…. potrebbero aver effettuato un tuffo evolutivo. Copio il testo di pagina 249:

Personalmente sono molto affascinato dall’idea che la prima forma di linguaggio sia stata inventata dai bambini, molto più ricettivi rispetto alle novità di quanto lo siano gli adulti. I bambini usano sempre metodi propri per fare le cose e comunicano in modi che qualche volta lasciano i genitori disorientati. Seppur per ragioni ESTRANEE ALL’UTILIZZO DEL LINGUAGGIO, i piccoli ‘sapiens’ erano già provvisti di tutto l’equipaggiamento anatomico periferico necessario per produrre l’intera gamma di suoni richiesti dalle lingue moderne. Essi inoltre dovevano possedere il substrato biologico necessario per compiere le astrazioni intellettuali richieste e anche la spinta a comunicare in maniera complessa. E quasi certamente appartenevano ad una società che già possedeva un sistema elaborato di comunicazione tra individui: un sistema che implicava l’uso di vocalizzazioni, oltre che di gesti e di un linguaggio del corpo. Dopotutto, come nel caso di qualunque innovazione comportamentale, il TRAMPOLINO FISICO NECESSARIO doveva già esistere. (…..) è facile immaginare, almeno a grandi linee, in che modo, una volta creato un vocabolario, il feedback tra i vari centri cerebrali coinvolti abbia permesso ai bambini di creare il loro linguaggio e, SIMULTANEAMENTE, I NUOVI PROCESSI MENTALI. Per questi bambini, ciò che gli psicologi hanno indicato come ‘linguaggio privato’ deve aver agito da canale, favorendo la trasformazione delle intuizioni in nozioni articolate che potevano quindi essere manipolate simbolicamente.”

Il sorriso si svolge rapidamente nella distensione delle fibre del procedimento di pensiero. Intuizioni, nozioni articolate, manipolazione simbolica. I bambini creano i nomi delle cose e il ritorno in sensazione di felicità è la via neurale di feedback che conforta e conferma. Ma anche richiama ulteriori dati compositivi dalle regioni sinaptiche prospicienti il vortice virtuoso che si è innescato. Nel segreto delle grida dei giochi i piccoli ‘sapiens’ -restando protetti al di qua dello stupore dei grandi- producono forse -più che ‘senso’ del mondo- la propria consapevolezza di sé medesimi, almeno per cominciare. La nominazione delle cose, l’attribuzione ad ognuna di un suono attraverso comportamenti fonetici appropriati, recluta e abilita nuove vie neuronali di consenso e guadagno. La sostanza dei mediatori implicati nella trasmissione lungo le vie nervose è l’esperienza del piacere endogeno che chiamiamo, oggi, il sé libidico. Esso non si serve dell’altro essere umano per il proprio godimento.

Eco senza Narciso, il linguaggio inventato dai bambini non è comunicativo ma espressivo. La nuova alleanza cui si allude nel testo di paleoantropologia, situata fuori di metafora in una società plurima e non più di soggetti neonati ma di personcine aurorali e capaci, sta nella condivisione dello stesso sistema di segni. Però è forse ancora, all’inizio, appartenenza implicita, non socialmente pubblicata, non riconosciuta forse, se non nella cerchia dei giochi. Quel pensiero privato sviluppa la nuova attitudine mentale verso scogli alti. Il mare che scintilla non attira al vuoto giù sotto e in basso, ma al cielo respirabile. Solo dopo, una volta maturata la fine attività di modulazione della mimica facciale coerente con la coscienza di sé, i ragazzini si fermano, guardano giù e, tenendosi per mano senza più pensare, dimenticando la coscienza ma senza perderla, volano lontano preparando il tuffo nel galleggiamento del corpo nel vuoto. È un sogno che si sveglia nel sonno dentro il quale si cade ogni notte.

Ora parlo dello svegliarsi. Di stamani. È la mattina di domenica un momento sensibile alla misura della qualità della vita. Ragazzini e adulti sfilano dalle camerette alla modesta superficie del soggiorno comune che è anche cucina e guarda il giardino. Di tempo in tempo, quando tra le otto e le una è concesso dalle distrazioni amorose, il pensiero ripercorre al contrario gli eventi evocati dallo studioso dello sviluppo dell’umanità dalla dis-umanità precedente: manipolazione simbolica, simbolizzazione, nozione articolata, intuizione…. Nessuno si occupa di questo che scrivo. L’espressione verbale della nozione articolata si pone perfettamente in una silenziosa ‘inutilità’ ed essa, l’inutilità è l’evento simbolico che protegge l’attività della mia ricerca intellettuale mattutina: il silenzio è una coltre di cotone profumato costellato di ricami, dei piccoli impegni di preparazioni di cucina, di disegni sui fogli bianchi delle due bambine, della apparecchiatura -coi tesori della pasticceria di fronte- di colazioni di gusti variabili.

E poi ci sono in aria i messaggi televisivi e c’è la richiesta se per favore qualcuno può (vuole) prendere il limone all’albero della vicina (quasi centenaria essa è perduta nelle regressioni della biologia che scompone l’integrità del pensiero e fa a pezzi il mondo e non sa più protestare contro noi innocenti ladri al suo giardino). Scrivo e intorno si ride si chiacchiera si aprono getti della doccia e si fa il disordine necessario a scaldare il mattino. Ai margini disegno questo deserto silenzio. Sopra sorge la notte, che non è il sole nero avventuroso del non cosciente salvifico, ma di certo il parziale declino delle norme verbali ragionevoli come esclusiva forma di espressione.

Ogni tanto grida di ribellione infantile tingono la scrittura del necessario senso di lotta contro la stupidità, volteggio nel vuoto prima della caduta del tuffo, e il vuoto è il paradosso incorporeo di questa disperata fiducia che con i miei simili potrò essere, alla fine, comprensibile in questo modo di scrivere, vivere e insistentemente cercare, da quando la coscienza mi permette di ricordare.

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