il Nobel per la maratona


maratoneti in odore di Nobel 


Posted By on Mar 19, 2015

Quantizzare la gravità è prospettiva attuale della fisica. I futuri premi nobel soffiano fiato accaldato. Sono scienziati di podismo con occhi che scorrono dentro il fine binario di asfalto bianco. Non coscienti: la loro passione obbedisce ad inclinazioni infantili precoci. Il loro pensiero ha giornate lunghe. Loro corrono una maratona in silenzi assolati. Probabile che provino spesso il momento mistico del dolore specifico del ventesimo chilometro: quello ogni volta decisivo. Il dolore ‘puro’ che toglie ogni consolazione. È quando il traguardo, a metà esatta della corsa, sparisce nella definizione di ‘punto di non ritorno’. Quando è inghiottito dalla strada sotto i loro piedi roteanti. È durante la fatica del buio il pensiero intelligente ed inintellegibile dei fisici: quando, in punti di tempo e di luogo diversi per ciascuno di loro, il tempo e lo spazio diventano inseparabili e inghiottono il loro intero corpo e quella scoperta, che pareva a carico di un mondo fuori, si anima e si richiude sui bei movimenti di ricerche che avanzano. Il ventesimo chilometro attrae la speranza e la addensa in una schiuma d’illusioni e il pensiero e lo scienziato restano in una medesima forma di vita. Loro, invidiati atleti dell’impossibile, sono tutti grandi occhi come i cerbiatti delle fiabe. I loro piedi rotanti rotolano ebeti nei binari bianchi al centro della pista. I futuri premi nobel sono, ciascuno, un tram di acciaio colorato affondato nelle rotaie di un destino di gloria sicura noiosa senza fine. La strada si svolge longitudinalmente ma il traguardo non c’è ormai più esattamente là: ‘dove’ e ‘quando’ tornare non ha più senso e si spalanca, facile da comprendere ai loro occhi, l’oceano del tempo e di uno spazio improvvisamente pieni e insuperabili.  La percezione della realtà fisica a quattro dimensioni si apre facilmente. Gli atleti restano con la bella melagrana spaccata da cui esce la giovinetta. Non hanno quasi mai acqua da darle e lei muore. Succede loro ripetutamente. La corsa è dunque piena di disperazioni. Le ali di folla amplificano il dolore così enfatiche applaudono i cuori di atleti quasi impazziti per l’evidente inutilità dell’amore. Perché l’amore che hanno è una certezza e una certezza è priva di speranza. Pensano a ‘lui’ o a ‘lei’ e dicono, schiumando: “Amore mio la vita è solo questa corsa con te in me, e senza te con me…”. “Spaziotempoooo” sussurrano addolcite le ‘o’ finali degradando al silenzio. E le gambe intanto ruotano e affondano dentro i dolci binari di crema notturna. Il pensiero perde la qualità della riflessione. Sono schizzi di fango e sassolini bianchi affilati. Vengono raccolti, alla fine, nella cerimonia dell’arrivo sul traguardo del sonno: la premiazione. Dopo sono deposti nelle nostre case: abitazioni di spettatori. E lì la loro corsa senza motivo, di cui sono imbrattati, si dipana di nuovo e si diffonde lievitando. Diventa una marmellata che si riflette sui muri. Finalmente la notte dopo la corsa ‘vediamo’ il pensiero dei fisici in odore di Nobel come la grana del nostro stesso pensiero che perde la coscienza. Quel pensare -che scivola inciampa e scalcia rotolando nell’oscurità- illumina l’aria. Mi dico infatti, disperatamente assorto nella solitudine della logica consequenziale, che non ho prove valide a sostenere la plausibilità scientifica dell’amore di tutti i giorni, che “….se davvero ti amassi non avrei riposo!”. Queste sere di studio finalmente non più inutili hanno la potenza di diffrazione e riflessione di un caleidoscopio. Girando in mente questi pensieri, la mente che inclina al sonno, con le sue luci scintillanti, costruisce le pareti chiassose di una discoteca.
Quasi fossimo fisici in corsa e in odore di Nobel: se (e quando) riusciamo nella comprensione di cose ritenute incomprensibili è notte senza la paura del buio.
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